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la gazza ladra
Ho la pasta sul fuoco in cucina e squilla il telefono, mentre alla radio danno “La Gazza Ladra” di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti. Io l’accompagno fischiando. Sono tentato di non rispondere: gli spaghetti sono quasi cotti e Claudio Abbado sta giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, abbasso il fuoco e vado nel soggiorno. Sollevo il ricevitore. Controvoglia abbasso il volume dello stereo e porto la cornetta all’orecchio.
- Pronto?
Come sola risposta, mi giunge la stessa sinfonia che sto ascoltando. Volume molto alto, suono corposo e limpido assieme. Rimango interdetto per qualche secondo, in bilico tra stupore e rabbia. Non mi aspettavo questo ritorno e soprattutto non così. Questo era un po’ il nostro codice segreto, con cui io lo contattavo, in modo che non ci fossero fastidi nel caso non fosse direttamente lui a rispondere.
Non riesco a tenere il broncio e comunque sorrido. Lascio che anche il mio impianto si esprima come sa, adeguando il volume a quello dall’altro capo del telefono. Non è una reazione razionale, ma probabilmente sono troppo stanco per essere coerente.
Le note riempiono il salone, iniziando con la consistenza di un profumo intenso e fresco assieme. Sempre più dense e piene, rimbalzano piano sulle pareti, sui quadri, sui libri. Accarezzano il divano, circuendo la poltrona, e scivolano sotto la luce della lampada.
Si espandono riempiendo lo spazio, tra pavimento e soffitto, fino a saturarlo.
Io, immerso in questo liquido caldo, fluttuo e ondeggio. Tengo all’orecchio il telefono, portale tra due case e due vite, attraversato da un’unica musica che scorre nei due sensi. Posso vedere dall’altro lato, la stessa atmosfera, la stessa scena, la medesima danza, senza bisogno di parole.
Parte un crescendo di archi che mi solleva. Violini che accelerano frizzanti, veloci, frenetici. Mi allungo seguendo l’estensione. Mi raccolgo per poi riaprirmi in un volteggio. Lascio passare gli oboi che, assieme a flauti, clarinetti e fagotti, preparano il trionfo di corni e tromboni. Scivolo di lato, per poi raccogliermi e allungarmi di nuovo, seguendo l’onda. Le braccia dipingono scie morbide, le gambe misurano lo spazio appropriandosene, in una coreografia sempre più ampia. A tratti il telefono diventa bacchetta per dirigere l’orchestra e poi ritorna all’orecchio.
Da lì, tra le note, mi giungono il rumore di passi lievi, il fruscio di un volteggio e la scia del movimento veloce.
Le percussioni cominciano a dettare un progresso ritmico che trascina i fiati e gli archi.
Un crescendo.
L’esplosione di gioia.
Un momento di pausa lieve e silenzio, per poi far ripartire un delicato giro, che un profano direbbe di valzer.
Immediatamente il turbinio riprende forza e ritmo, travolgendomi nel suo vorticoso piroettare.
Di colpo s’acquieta. Riparte sottovoce e cresce ancora in velocità e potenza.
Un continuo susseguirsi di frenetica energia e calma, una partitura di alternanze che prende e trascina, non lasciando respiro, ed io mi lascio trasportare, fluttuo e poi cavalco l’onda armonica.
Quando l’ouverture termina nell’esplosione finale, mi siedo per terra, spalle al muro e gambe distese.
Appoggio la testa alla parete e chiudo gli occhi. Sorrido di nuovo, ansimando.
Un po’ alla volta il respiro rallenta, da entrambi i lati del telefono.
Passa quasi un minuto e chiudo la comunicazione.
Rimango seduto ancora qualche secondo, lo sguardo sullo stereo, poi, nel rialzarmi mi tornano alla mente alcune parole dell’atto primo, scena prima:
“Dopo tanti e tanti mesi
spesi in guerra e fra gli stenti,
oggi alfine a' suoi parenti
il padron ritornerà.”
Non mi aspettavo di ricevere più alcuna telefonata come quella appena conclusa, però so benissimo cosa significa e sicuramente non ho molto tempo per prepararmi. Sorrido ancora mentre torno alla mia pentola. Spengo il fuoco. Corro veloce in bagno e allo specchio della camera. Una risistemata rapida. Cambio di maglietta e jeans. Una spruzzata di profumo e un po’ di tonico sul viso, che non fa mai male.
Giusto in tempo per lo squillo del campanello. Corro ad aprire, scalzo.
- Luca...
- Ciao. Ho portato del vino.
- Il mio menù per la serata prevedeva spaghetti allo scoglio, per uno.
Ed è ovvio, brutto stronzo. Chi mai si sarebbe aspettato un tuo ritorno.
- Però, se quello è un Bordeaux e tu pensi alle verdure, posso recuperare anche due tagliate alle noci. Carne e pesce assieme non sono una scelta tanto canonica, ma non c’è n’è un’altra.
- Perfetto menù à la carte. Non mangio qualcosa di sostanzioso da questa mattina. Sono atterrato da meno di due ore.
- E hai ben pensato che casa mia fosse più comoda di un’osteria, evidentemente.
Oppure di un centro accoglienza della Croce Rossa, magari. Guarda che faccia. Aria da paranoie. Cos’è, hai riflettuto sulle sfighe della vita e vieni a scusarti, chiedendomi di capirti? Non sei cattivo, ma deve andare così. La coscienza ti sbatte nel cranio come un martello e vuoi liberarti del senso di colpa? Vieni a spiegarmi di nuovo la tua scelta? Catartico per te ma dilaniante per me. Col cazzo che te lo lascio fare, bello!
Luca sembra notare l’acidità nel mio commento e forse anche nel mio sguardo, ma non replica. Ha un’espressione strana in volto. Manca ogni traccia della solita arroganza, in lui che di solito ha uno sguardo da bastardo anche quando ride. L’aspetto è sostanzialmente quello usuale, estremamente curato. Camicia bianca di popeline di cotone, maglioncino di cachemire nero su jeans e scarpe di fattura artigianale. Ha cambiato profumo, ma, soprattutto ha uno sguardo inedito, più morbido. Lo stesso viso a tratti sembra fanciullesco, ma senza luce, come di un bimbo che rimasto sotto la pioggia per ore, al freddo.
Mi colpisce. Forse non è solo un banale rigurgito di sensi di colpa.
Gli spaghetti rischiano di scuocere. Vado alla pentola, li scolo per poi ripassarli nella padella col sugo. Dico a Luca di impiattare, mentre comincio a preparare la carne. Verso il suo vino rosso nel decanter e prendo una bottiglia di prosecco per accompagnare il primo, così ci sediamo.
- Dicevi che sei tornato oggi dalla Francia. Com’è andata? Hai chiuso quei contratti che ti interessavano tanto?
E ti sei rilassato? Hai ritrovato il tuo equilibrio? Hai messo ordine nella tua testa? Hai capito che cazzo vuoi dalla vita? Hai pensato a come te ne sei andato? A come sono rimasto? Sei stato almeno un po’ di merda?
- Si, tutto fatto. Ora ho due nuovi grossi clienti e un nuovo partner tecnologico di alto livello. Sono molto soddisfatto da questo punto di vista.
- Mi fa piacere che queste tue ultime tre settimane siano state proficue e piacevoli. Evidentemente la lontananza ti fa bene.
Idiota.
- E tu cosa hai fatto? Hai finito la ristesura di quei racconti?
Come se te ne fosse mai importata una mazza di quello che scrivo.
- Domani dovrebbero mostrarmi l’impaginato finale e poi entro fine mese siamo in stampa.
Rispondo cercando di simulare distacco e superiorità, mentre mi alzo per preparare le tagliate. Luca si affaccenda con le verdure e, per un paio di minuti almeno, rimaniamo in silenzio. Una situazione strana.
Sono frastornato dal suo improvviso ritorno, dopo quella discussione e le tre settimane di silenzio.
Cosa vuole? Perché è qui? adesso? tornato poco fa e subito mi si fionda in casa. Che vuol dire? Perché? Che significato ha questa visita? E la sua faccia? Cosa posso aspettarmi? Niente di buono. Sicuramente. Non devo illudermi. Non voglio chiederglielo. paura della risposta. È sicuramente legata a quel suo sguardo.
Sembra afflitto da un peso. Una ferita. Il suo labbro inferiore trema, così come le sue mani, mentre termina di condire. A tratti sembra aprire la bocca, ma subito serra la mascella come per impedire alle parole di uscire. Ha qualcosa da dire, ma non la dice. Dillo. Cosa aspetti? Io non te lo chiedo di certo. Sei entrato tu da quella porta. Tu hai chiamato e tu parli. A costo di continuare questa tortura per tutta la notte, io non ti tolgo le castagne dal fuoco, caro il mio stronzo.
Ci mettiamo di nuovo a tavola, metto da parte il prosecco e verso il vino rosso in entrambi i bicchieri.
- La carne è ottima. Da parecchio tempo non la mangiavo all’olio di noci.
- E il tuo bordeaux ha una struttura meravigliosa. Devo dire che hai scelto bene.
La sagra delle stronzate. Muoviti. Vedi di aprir bocca per dare un senso alla cosa.
- Senti Nicola, devo dirti una cosa.
E sarebbe ora che ti decidessi a dirla’ sta cosa.
Lo guardo senza dire nulla, fermo nell’attesa di quella che deve essere la risposta alla domanda che non oso fare.
- Pensavo di mettere in vendita l’appartamento. Non saremmo più vicini di casa.
Cazzo.
Deglutisco e perdo qualche secondo prima di rispondere.
- Non è poi un cambiamento notevole. Da un pezzo passi più tempo in giro per il mondo o in altra compagnia, che qui nel tuo appartamento. Ho già smesso di considerarti un mio vicino.
Stronzo. Sei entrato da quella porta per dirmi che esci completamente? Altro che sensi di colpa, o ti sei rincoglionito fino all’osso, oppure non mi sono mai accorto di quanto tu sia infame. infame o stupido. Stupidoinfame.
- Se la tua proposta di tre settimane fa è ancora valida, non saremmo più vicini, perché vorrei venire a vivere qui da te.
Cosa? ti sei fulminato il cervello?
- E Francesca? ?" riesco a chiedere.
- Le ho parlato. Con lei è finita comunque.
Come “comunque”? Con lei o con tutte?
Non riesco neppure più a guardarlo in faccia. Sposto lo sguardo dal muro alla tavola. Dal mio bicchiere colmo di vino rosso alle posate. Guardo i pezzi di carne ancora nel piatto senza neppure riuscire a contarli.
Convivere Molla tutto e viene a stare qui Vivere assieme La sera a cena In due sul divano I libri Unire le collezioni di CD Ogni notte a letto assieme Ritrovarlo ogni mattina Colazione Iniziare le giornate Viaggiare Organizzare le ferie. Mille film diversi nel cervello. Il dubbio, prima. Il panico adesso.
Sono sconcertato, completamente sballinato. Non so cosa dire e non dico nulla.
- Speravo in una qualche risposta, magari positiva. Sono due giorni che continuo a immaginarmi questa scena in mille varianti diverse.
Nei suoi occhi è ricomparsa una luce, il labbro non trema più e la mascella non è più contratta. Ha mollato la bomba e sicuramente si sente più leggero.
- Ce lo siamo detti ampiamente nella nostra litigata prima della mia partenza. Non posso più vivere in due mondi. Parte di la e parte di qua, senza essere veramente da nessuna delle due parti. Me ne sono andato anche per pensare. Per stare un po’ di tempo al di fuori di entrambi i mondi e capire in quale voglio veramente vivere. Meglio ancora, per capire quale sia il mio, nel quale devo vivere.
- Pensi di averlo capito in tre settimane? Quando sei uscito sbattendo quella porta, mi sembravi molto convinto di essere solo un etero che si era distratto un po’.
Follia. Volubile volatile. Come fai a sapere cosa vuoi? No no no. Stammi distante. Sei pericolo puro.
- La rabbia fa dire ogni cosa. L’obiettivo è quello di ferire, non di dire la verità.
- Cazzate. Comunque non mi hai detto come in tre settimane tu sia riuscito ad essere fulminato sulla via di Damasco.
- Senti, tu hai ogni motivo per essere duro. Hai ogni motivo per rimanere chiuso. Non posso pretendere che tu mi abbracci e mi accolga.
- Infatti, non puoi. Soprattutto se non sai dirmi cosa è cambiato, perché ora dovrei credere che hai scelto, che hai capito chi sei.
- Mi sei mancato. Da morire.
- Non basta. Anche un programma televisivo, anche un cane possono mancarti, se ti ci sei abituato o affezionato.
- Sei un po’ stronzo adesso. Non puoi attaccarti alle parole come fanno i tuoi editor. Io non sto scrivendo un libro, io ti sto parlando, di noi. Sono tornato da te, per stare con te. Questo conta, non le parole con cui te lo dico.
- Non sono le parole che dici, ma quelle che ancora non riesci a dire. Io non vedo una persona che vuole prendere una strada, che sente di volere o dovere percorrere proprio quella e non un’altra. Io vedo solo una persona che non sa abbandonare qualcosa che aveva.
Alle mie parole, la luce nel suo sguardo sparisce di nuovo. La testa abbandonata in avanti, le spalle ricurve, le braccia stese allungate tra le ginocchia, non sa più in che direzione muoversi. La mia reazione ha spazzato ogni piccola sicurezza che pensava di essersi riguadagnato.
- Come posso darti la monolitica certezza di essere gay solo gay per sempre gay. Nessuno sa cosa trova alla fine della strada, io so che ora voglio percorrerla, con te. Mi sembra che non sia cosa da poco. Non puoi pretendere di più.
Sguardo spento ma profondo Attinge a qualcosa dentro Forse questa volta una convinzione forte mai vista prima Troppo vino Non riesco a tenere alto il muro Viso da bimbo tenero bocca imbronciata il torace che spalle anche sotto il cachemire Che gli rispondo? Altro vino.
- Ok, forse hai ragione. Sei qui, sei tornato. Una cosa alla volta.
Mi allungo per prendergli la mano. Il primo contatto fisico della serata e ci aiuta a sciogliere la tensione. Finiamo la cena e un paio di bottiglie. Chiacchieriamo ancora un po’. Mi racconta delle cose che ha visto in Francia, di alcuni personaggi bizzarri incontrati e io accenno qualcosa dei miei racconti e di un paio di progetti in cantiere.
Mi alzo e vado alla finestra. Il panorama della notte oltre il vetro. Mi arriva alle spalle.
Torace contro la mia schiena Solido Delicate le braccia mi avvolgono la vita Senti? Sono dimagrito Sono muscoli quelli adesso Il suo profumo appena dietro al mio collo.
Mi giro.
Verdi I suoi occhi verdi Recuperata molta della luce Mi ci perdevo nei mesi scorsi Piantati davanti al mio naso Pochi centimetri Sì Stringi più forte Sì La tua bocca Mi perdo Sa di vino So di vino? Anche i capelli profumano Finalmente Tre settimane d’inferno Ti odio Bastardo etero indeciso Stringimi Con gli occhi chiusi La tua schiena Forte La tua nuca tra le mani frenetico Mio Passione Calore Pelle. In soggiorno. Il Cd Gazza Ladra Non è quella di Abbado quella alla radio buona uguale e chi se ne frega dell’esecuzione non adesso.
Cachemire morbido sembra una nuvola tocco vellutato del popeline e poi la tua pelle.
Maglione e camicia finiscono sul tappeto, assieme alla mia maglietta. Prima del termine del primo atto, siamo in camera, in una fusione di corpi ed anime che dura ben più del compact disk. La radiosveglia indica esattamente le due ed io ancora osservo il movimento regolare del suo torace, alla luce della notte che entra dalla finestra. Dorme e sembra sereno.
Non riesco a dormire, a chiudere gli occhi. È stato magnifico. Forse meglio che mai. Passione e forza, forza della convinzione che crede di aver trovato. Forza del desiderio e della voglia di cancellare tre settimane bastarde. Ma che vuol dire? Che significato quale valore? E domani e dopodomani e sempre? Devo svegliarmi sempre con la paura? Che te ne vai? Quanto posso resistere in bilico su questa lama? Anni? Giorni? Mi logorerò scoppierò te ne andrai e mi lascerai sfatto devastato e troppo vecchio per ripartire condannato ad una vita di merda per aver creduto in te. Guardo il soffitto magari le risposte le leggo tra le rughe del bianco. Suonano le tre. È troppo bello guarda che viso dolce quando mi sfiora cucciolo che vuole lo guido ma è forte sono suo schiavo. Magia pura magia. Non è certo la mia prima storia. Non sono un ragazzetto che sogna. So cosa vuol dire la vita però che viso dolce come faccio a rinunciare? Paura pura paura non voglio soffrire di nuovo e lui la lama la affonda bene nella carne sarei scannato non solo ferito. Ma come faccio? Guardalo è mio. meraviglia tesoro olocausto. Cazzo! Uno due tre quattro Cinque rintocchi campane dalla finestra. Dubbi voglio sognare voglio volare. E se poi sono solo ali di cera e lui un sole che brucia? Mi fido? Scommetto? Scappo? Vigliacco-saggio-vecchio-impaurito. Ha mollato Francesca. Non lo aveva neppure mai detto pensato di farlo. Scelta di campo o solo una fuga? Convinto o frastornato?
Ore sette e un quarto. Suona la sveglia.
Non sopporto l’idea di soffrire di nuovo, ancora a causa sua. Se mi lascio andare, se apro il muro difensivo per accoglierlo nuovamente nella mia vita, come posso sperare che non se ne vada di nuovo, incapace di superare completamente i suoi dubbi? Se succedesse non reggerei e al momento la possibilità che accada non è certo bassa.
Ho deciso. Non mi voglio lanciare nuovamente senza paracadute. Non è ancora il momento. Il suo ritorno non è una garanzia sufficiente.
Glielo dico subito, senza perdere tempo, prima ancora che sia pronto il caffè: non sarebbe venuto a vivere da me.
Può vendere l’appartamento, se vuole, ma è troppo presto perché si trasferisca in casa mia. Prima deve metabolizzare completamente questa sua scelta, farla maturare ancora un po’, per vedere se veramente è in grado di resistere al susseguirsi dei giorni.
Andremo per gradi. La mia porta sa bene qual è. Basta bussare e gli aprirò.
Ad oggi sono serenamente convinto della bontà della mia scelta. Non ho alcun rimpianto. Lui, una volta uscito, quella mattina di quattro anni fa, non ha più bussato alla mia porta. Ha venduto l’appartamento e ora vive a Barcellona, con una ragazza irlandese e sembra aspettino addirittura un bambino.
Io non ho più ascoltato la Gazza Ladra, da quella notte.
Oggi però, per festeggiare, ho appena acquistato un’edizione particolarmente curata dell’Aida, su dvd ad alta definizione. È la versione messa in scena all’Arena di Verona l’anno scorso e io tra due ore ho appuntamento dal notaio con Stefano, per il rogito della nostra nuova casa.
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