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Penny è volata dal tetto. (Cap 7)
Proseguiamo lungo la via per quasi duecento metri prima di trovare una traversa che giri sul retro dell’isolato, posto che quell’altro sia il davanti, dell’isolato intendo.
Cominciamo ad esplorare le pareti per cercare un posto per salire. Su un portone c’è un cartello: “affitta camere”, a capo: ”non suonate è aperto”, a capo: ”sesto piano”. Entriamo e cominciamo a salire. Chi non chiudeva la porta nella casba o era uno da temere o uno con niente da poter rubare. Il tanfo di piscio che si sentiva su per le scale faceva propendere verso la seconda opzione.
Siamo saliti al piccolo trotto su per le scale strette. Sesto piano.
Sandro spinge piano la porta dell’affittacamere che non è altro che un appartamento dove ci abitano in chissà quanti. La porta da su un corridoio vuoto e buio su cui si affacciano alcune porte chiuse.
Sandro oltre che gran gatto dei tetti era anche un buon esploratore di appartamenti altrui, io quel mestiere non l’avevo mai fatto, quindi lui adesso stava davanti e menava le danze, io seguivo obbediente come un cagnolino fedele.
Sandro controlla le luci che filtrano da sotto le porte, tre accese e una spenta. Rumore di doccia dal fondo del corridoio. Felpato, veloce e deciso, va verso la porta spenta, apre, entriamo.
Silenziosi come pesci silenti.
Sto per chiedere qualcosa a Sandro ma lui vola, ha già aperto la finestra butta fuori la testa e controlla qualcosa, poi si gira.
- Si va.- dice, ed è gia sul cornicione che sparisce verso destra.
Mi affaccio anch’io, mi giro verso Sandro che dopo tre metri su un cornicione di una trentina di centimetri ha già raggiunto lo spiovente del tetto. Abbiamo così scoperto che il sesto piano era praticamente il sottotetto e che la stanza era in realtà poco più che un grande abbaino.
Si gira ancora verso di me.
- Andiamo. Muoviti.-
“Cazzo” penso “sei piani, se volo, non lo racconto”.
Mi affaccio, salgo sul davanzale e raggiungo Sandro che mi tende una mano e mi aiuta a salire sulla spiovente del tetto.
Sandro si gira, e sinuoso come un ghepardo, ma con meno macchie, raggiunge la cima del tetto. Io m’inbradipisco e terrorizzato dai movimenti e vibrazioni che fa il materiale su cui appoggio mani e piedi, lo seguo. Quando arrivo sulla cima del tetto, mi ci metto a cavalcioni, e m’incazzo vedendo il sorriso beato di Sandro che mi guarda.
- Mi mancavano proprio queste cose. ?" dice.
- Ma vai a cagare…-
Comunque il peggio è fatto. Almeno spero.
Sandro si gira e si avvia verso quello che dovrebbe essere il tetto della casba. Fa trenta metri poi si gira e dice:
- Si salta.-
- Come, “si salta”? ?"
- L’edificio vicino è un piano, forse meno di un piano, più basso, dobbiamo saltare. È facile, saran due metri di dislivello.
Non ti preoccupare, c’ha il tetto piatto, è un atterraggio semplice.-
Mi alzo e vado verso di lui.
- Fa un po’ impressione perché c’è il buco.- mi fermo, lo guardo.
- Che buco? ?" chiedo.
- Gli edifici non sono attaccati, c’e un vicolo, ma è stretto… abbastanza stretto, dobbiamo saltarlo.
- Cioè fammi capire, dovrei saltare tra due tetti di edifici, da un sesto ad un quinto piano, forse qualcosa di più, volando sopra un vicolo.-
- Esatto, guarda.- si gira e stacca.
Raggiungo il bordo del tetto, guardo di sotto. Stanno passando due che parlottano. Penso alla scenda di me urlante che mi sfracello sulla testa dei due di sotto. Un po’ mi fa sorridere. Penso ai giornali di domani. Mi fa sorridere di meno. Faccio due passi indietro, respiro, e imparo a volare. In realtà non è un gesto estremo, fisicamente non è molto impegnativo, se fosse stato all’altezza del suolo non mi sarei scomposto. Ma a sei piani d’altezza fa un certo effetto.
L’adrenalina mi si raccoglie in perle ai bordi della fronte.
Non ha neanche il tempo di bestemmiare che Sandro mi chiama:
- Di qua.- Salta su un telaio di ferro che sa solo dio a cosa serve e poi sul tetto dopo che è un po’ più alto ma grazie a dio è piano.
Lo seguo pensando: “voglio una sigaretta”. Sandro non mi da tregua si fa raggiungere ma riparte sempre prima che possa chiedere un break. In un tempo che a me pare infinito ma che alla fine si riduce ad un paio di minuti siamo sul tesso della casba.
Guardo la città. Il nero dei tetti è interrotto dalle luci riflesse dalle strade che segnano quella lavagna notturna come un’aurora boreale idrocarburica e rovescia.
- Poi scendiamo di la. C’e una scala esterna. Vedi?- Sandro mi segna a dito. Faccio di si con la testa riprendendo fiato e guardando una scala metallica dalla parte opposta da quale siamo arrivati noi. Sembra più facile. Speriamo non ci sia da scappare.
- E adesso? ?" fa Sandro.
“Già, e adesso?” penso io.
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