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Il cortile
Suonava sempre, la campana. Bastava saperla aspettare.
Alle undici meno dieci, all’una meno dieci, alle tre e mezza e alle cinque.
La foga, il bisogno, l’impellenza di un pallone, aveva il suono delle sedie che strisciano sul pavimento, che si ribaltano sul banco dietro. Il rombo di centinaia di piedi che tuonano nei corridoi e lungo le scale, il boato somma di parole urlate, o sbraiti indefiniti. Il boato si attenua nel cortile quando il suono non viene rimesso in gioco dai muri, quando il suono può andare fino ai muri del cortile scavalcarli e andare a perdersi nel motore di una macchina che passa per via Dante o nel “din don” di un campanello di bicicletta.
I preti ci tiravano i palloni.
“Piano” dicevano “calma” dicevano.
Noi si saltava come cani impazziti alla vista del guinzaglio, perché sembra un oggetto d’oppressione, il guinzaglio, invece è libert?? , è pisciare sull’albero.
Il prete tirava tre palloni da calcio due da basket e uno o due da pallavolo.
I campi da basket finivano quasi deserti, due o tre altoni si mettevano a tirare a canestro, i campi da pallavolo erano per le femmine, il campo da calcio era guerra.
Sei squadre, tre partite, due porte con tre portieri ciascuna, sessanta e più giocatori in un unico campo, un’unica danza, un unico movimento. Vieni li, a studiarla, la teoria del caos.
Vieni li, a studiare come fanno gli uccelli a muoversi tutti insieme in sincrono e a non scontrarsi mai.
Vieni li.
Ma noi non eravamo uccelli, e ogni tanto vedevi di quei voli d’angelo. Ragazzi che decollavano su una gamba tesa di un’altra partita, di un’altra azione, di un altro mondo e planavano sorridenti a scheggiare gli incisivi sull’asfalto.
Perchè sotto c’era asfalto.
Benedetti sempre siano i campi di terra, la terra è soffice, è polverosa, qualcosa contro l’attrito che le fa un ginocchio ce lo mette. L’asfalto è cattivo, sono sassi e bitume, è attrito, è morso, è carta di vetro che ti scava la pelle, deposita sassi dentro i buchi che ha fatto, che poi li levi col dito appena si è fermato il sangue.
Poi c’erano i “famigerati”, quelli più vecchi, quelli cresciuti prima, quelli con un’ombra di baffi, quelli che la nonna gli dice: “sei grande quasi come tuo padre”, quelli che quando tirano fanno male. Fanno più male se sei impegnato a guardare l’azione della tua partita e ti trovi nella bolgia di un’altra partita, nel mezzo di un tiro da fuori area, nella precisa traiettoria che il pallone deve fare per raggiungere il sette dal piede di uno dei “famigerati”.
L’ombra la vedi. L’ombra del pallone che ti eclissa la faccia. Hai la precisa sensazione che il mondo sta cambiando come non te lo aspettavi, ma non c’è tempo. Nemmeno il tempo di sbattere le palpebre che senti il pallone che ti invade gli zigomi, ti fa tremare le ossa della testa, ti sposta i denti, ti spegne il cervello. Ti riaccendi a terra, e c’è pure un sadico che ride.
Passare la palla è una poesia. Lo fai perché sei ancora bambino dentro, perché sei incosciente. Anche se ai visto il compagno libero, e non puoi sapere se il difensore sta nascosto dietro uno che non centra un cazzo, il fatto che la palla gli arrivi non è scontato. Deve passare attraverso un sistema multivariabile fatto di gambe e direzioni, di palle e decisioni, deve passare attraverso i pensieri di tante di quelle persone che non stanno pensando a quel pallone. Potrebbe arrivare dal tuo compagno di colore viola o sotto forma di banana o potresti vederlo calciato violentemente verso la tua porta da un fantasma, che non fai neanche a tempo a bestemmiagli dietro.
Se bestemmi e ti sentono, finisci di giocare e vai in cappella. Qui è scuola di preti. Tre ave, tre salve, tre padre, un atto. Questo costa la tua bestemmia, e un prete che corre attraverso la bolgia a sgridare proprio te, che rischi la vita, con il dito indice puntato.
Poi un giorno, come un miracolo, come a farci capire che le cose certe volte succedono, come a spiegarci che la tango i palloni li fa da dio.
I preti avevano le macchine, a millimetri oltre la riga del fallo laterale della mia fascia destra, così ogni tanto se non c’era la gamba di qualcuno c’era il paraurti di una 126.
Capitava che i preti dovessero uscire dal cortile con le loro sgargianti 126 mentre si giocava. Sapevano aprire le acque, li si lasciava passare, ma la partita non si fermava. Mai.
Fu un famigerato che tirò un pallone da una distanza siderale mentre il prete passava. Il pallone disse, lo sentii distintamente, "carpe diem", e diresse verso la macchina, sotto la macchina, sotto la ruota della macchina, quella posteriore.
La valvola di un tango tiene la pressione di una macchina che ci sale sopra? Lanciata?
Tiene, io lo so, almeno la pressione di una 126 fiat color pisello.
La macchina volò. Saltò sopra i venti centimetri del pallone, più qualcosa per via della sua velocit?? .
Voi prendete un prete, mettetelo in una 126 pisello, fatelo saltare sopra un pallone, solo il retrotreno, la 126 è piccola, è lamiera, quel saltino la sconquassa tutta.
Vale. Vale le pallonate in faccia, vale le ginocchia sbucciate, vale le preghiere salmodiate per colpa delle bestemmie. Vale.
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0 recensioni:
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- Se ho bisogno di aiuto con Caterina, ti faccio un fischio...
- Caterina non fa testo, ha un debole per te (.. naturalmente il riferimento é allo scrittore...) e troverebbe bella anche la tua lista della spesa, a Maria e Adele però puoi credere, loro sono sempre obiettive e soprattutto competenti.
- Mi è piaciuto. Oggi qualcuno mi ha detto che il calcio è bello perchè le dinamiche, anche tra giocatori professionisti e carichi di miliardi, sono sempre quelli di un gioco di ragazzi, si ritorna bambini... ne tuo racconto ho trovato in parte una spiegazione di ciò(anche se non sono un'appassionata) e anche altre cose.
- Ormai sei qua e non ti tolgo, ma te lo devo dire, mi sei proprio venuto male. Ci sono tempi verbali che non si incastrano, virgole messe a caso e in molti pezzi la chiarezza espositiva langue. Un po' mi fai vergognare, perchè pubblicarti? Non ti ho riletto bene? Non lo so. Comunque ormai sei qui e qui rimani.
Saluti
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