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L'occhio del ciclone
Un cupo e possente rombo devasta il silenzio del posto dimenticato da Dio che prende il nome di villaggio di Marik.
Le vecchie case tremano come alberi scossi dal vento, per quanto la detonazione sia avvenuta a chilometri di distanza da qui.
Dannazione.
'Sono il tenente Ivo Serlianovic, e vi guiderò fino alla morte' avevo giurato quando era iniziata questa maledetta guerra. A quanto pare è giunto il momento di terminare il mio lavoro.
Affacciato alla finestra senza vetri della casa in cui ho fatto dislocare i miei commilitoni, un temprato manipolo di undici uomini, duri come l'acciaio, posso vedere i bagliori dell'esplosione. È avvenuta a nord, deve aver colpito una città di cui nemmeno gli abitanti sapevano nemmeno il nome. E nemmeno io avrò modo di controllarlo, visto che la cartina di questi maledettissimi luoghi è andata in fiamme insieme a molte altre cose utili, come la radio.
Sono rimasto il più alto graduato, ma per quanto sia giovane ed inesperto, i miei uomini mi hanno dato la loro fiducia e continuano a fidarsi di me, anche in un momento come questo.
Un dannatissimo gruppo di serbi in mezzo alle linee della Federazione, non siamo altro che questo...
In un villaggio isolato a una sessantina di chilometri a nord di Sarajevo, siamo davvero soli.
Comincio a dubitare dei serbi di Bosnia che siamo venuti ad aiutare. Le forze della repubblica srpska ci hanno lasciati qua, in mezzo al nulla, in un territorio sconosciuto.
Dannati bastardi.
È stata una grazia del cielo trovare Marik, un minuscolo villaggio abbandonato, in cui però grazie a Dio abbiamo trovato un tetto sotto cui riposare e molti oggetti utili, come viveri e coperte, che gli antichi proprietari hanno lasciato nel turbinio della fuga.
"Tenente, venga subito!"
La voce giovane del soldato Miric richiama subito la mia attenzione. Comincio a camminare verso l'esterno, dove si trova il ragazzo, producendo battiti ritmici con il rumore degli stivali sul legno del pavimento.
Appena varcata la soglia mi trovo davanti il volto di Dalibor Zerpvic, robusto e temprato veterano che funge da esploratore, segnato da profonde cicatrici, ben più significative di qualsiasi medaglia.
"Ho avvistato dei soldati della Federazione... si stanno dirigendo qui... sono almeno una dozzina e ben armati"
Maledizione, non ci voleva!
Espongo immediatamente la mia idea, non voglio che i miei uomini credano sia incerto sul da farsi.
"Propongo di rimanere in questo villaggio e difenderci. Qui abbiamo più possibilità di preparare un'adeguata resistenza, rispetto che nei boschi. Se ora fuggiamo, la nostra situazione potrebbe peggiorare ulteriormente, perchè ci ritroveremmo privi di una base, e in territorio sconosciuto. Siete d'accordo con me?"
La domanda è rivolta a tutti gli altri soldati, accorsi alla notizia.
"Sei tu il capo"
La risposta non poteva venire da altri che da Ibrahim Goraz, il più vecchio soldato della compagnia, che, come dimostrano i capelli grigi come la nebbia, ha già superato la quarantina da tempo.
Un cenno d'assenso seguì le parole dell'uomo.
"Quanto tempo abbiamo, Zerpvic, secondo i tuoi calcoli?"
"Al massimo cinque ore", risponde con tono grave.
"E allora prepariamo il benvenuto ai nostri amici della Federazione!"
Urla di assenso accompagnano la mia voce, rinsaldando il mio animo, in modo simile al caldo abbraccio di una madre per un bambino appena svegliatosi per un incubo.
Finalmente tutto è pronto.
Con tre ore a disposizione abbiamo fatto la miglior cosa possibile.
"I federali mangeranno piombo serbo, te lo assicuro", dice l'imponente soldato Janik Milivovic, intento a preparare con le tozze mani di cui la natura lo ha dotato il mitragliatore pesante, posto dietro alla finestra più alta della casa in cui ci siamo concentrati per la difesa finale.
"Se ci fosse ancora il grande Tito, ora non ci combatteremmo tra jugoslavi!", lo incalza allora Goraz, che osserva Milivovic e Miric lavorare.
Il solito teatrino...
"Accidenti a te Goraz, sempre a tirare in ballo Tito!", ringhia in risposta il gigante.
"L'illustre Tito..."
Ok, è ora di farli smettere.
"Ora basta con queste fanfaronate! Preparatevi spiritualmente per la battaglia, invece che dibattere di politica!"
"Sì, tenente", mi risponde prontamente Milivovic, e poco dopo segue quella canaglia di Goraz, con la sua formula ricorrente:
"Sei tu il capo"
Improvvisamente con la coda dell'occhio scorgo una figura umana in corsa appare dal bosco poche decine di metri davanti alla casa. Fulmineamente Milivovic alza la mitragliatrice e la punta, ma riconosco in tempo l'uomo in strada.
"Fermo", ordino, "è Zerpvic"
Il gigantesco soldato abbassa l'arma, senza aggiungere una sola parola.
Si conferma ancora una volta un ottimo soldato, uno dei migliori, su cui puoi sempre fare affidamento.
Mi lancio in corsa verso l'entrata della casa, per sentire le notizie che arrivano a braccetto con Zerpvic.
Un brivido di freddo mi percorre dai capelli alle mal tagliate unghie dei piedi. La temperatura sta scendendo molto da quando siamo arrivati, pochi giorni fa, sul finire dell'autunno; un ulteriore malus per la nostra sopravvivenza futura.
Ma, diamine, per prima cosa è necessario arrivare a quel futuro.
Arrivato nella sala che fungeva da anticamera della casa, mi fermo davanti a Zerpvic, e attendo in silenzio che questo parli.
"Sono a meno di cinque minuti di qui"
"Bene. Siamo già pronti"
È ora di attuare il piano.
"Karik!", urlo.
Pochi istanti dopo l'uomo piccolo ed esile che risponde al nome di Dragutin Karik, con imbracciato un AK-47, mi giunge davanti.
"Karik, vai con Zerpvic e nascondetevi nei boschi qui attorno. Quando sentirete i primi spari, intervenite, e prendeteli alle spalle, in modo da metterli tra due fuochi"
"Sì, signore!", risponde il soldato, alzando la voce in modo tipicamente militare.
"Non provare a gridare così nel bosco o ti faccio a pezzi io prima dei federali"
Anche Zerpvic lancia uno sguardo di fuoco al commilitone.
"Scusa..."
"Su non c'è tempo per le scuse. Andate!"
I due escono immediatamente in corsa dalla casa e svaniscono poco dopo tra le verdi fronde degli alberi.
È ora di andare a mettere in posizione il resto dei ragazzi. Con passo rapido e deciso torno al piano superiore.
"Tutti ai posti di combattimento!"
Un grande rumore di passi e oggetti si accende, una baraonda della peggior specie, ma svanisce poco dopo, come un gigante che scompare davanti agli occhi, e la casa piomba in un silenzio assoluto.
La battaglia è ormai prossima, non ci si può più tirare indietro. Ho combattuto decine di battaglie di tutti i generi, insieme ai miei soldati, ma la paura alberga ancora nel mio cuore. È impossibile abituarsi a rischiare la vita al punto di non temere più la morte. Sono sicuro di ciò, e ritengo sia questa una delle ragioni per le quali io e i miei uomini siamo ancora vivi.
È ora di raggiungere Goraz, Milivovic e Miric.
Entro nella stanza lentamente, i battiti degli stivali simili a quelli di un cuore in affanno, come è il mio in questo momento. Goraz stringe l'impugnatura del suo fido AK-47, Milivovic è chino sulla mitragliatrice stazionaria a cui è stato affidato, coccolandola quasi fosse una bella ragazza, e Miric è immobile come una roccia con il suo fucile di precisione.
Una vera squadra della morte.
Improvvisamente comincio a sentire i primi suoni esterni alla casa, che da un vago e distante eco, diventano in poco tempo rumori ben più vicini e reali.
E temibili.
Con un movimento lento e solenne estraggo la Tokarev dal fodero in cui era contenuta, e la stringo con entrambe le mani.
Poco dopo le prime figure di federali escono dal bosco, con i fucili ben stretti nelle mani. Conto con attenzione il loro numero. Non volglio far massacrare me stesso e i miei uomini per uno stupido errore numerico!
Quello che sembra il capo di quella banda, un omaccio sulla trentina dalla lunga e sporca barba nera, tracotante nella sua dannata divisa, si ferma al centro della piazza, attendendo che tutti i suoi uomini escano dal bosco.
Pessimo stratega.
Quando finalmente l'ultimo uomo -il quindicesimo- entra nella piazza di fronte alla casa, è ora di attuare il piano.
Dalle mie labbra prorompe, secca quanto tremenda, come solo una condanna a morte può essere, una sola, lapidaria, parola:
"Ora"
E si scatena l'inferno.
La mitragliatrice da postazione di Milivovic comincia a ruggire, mietendo soldati nemici come spighe di grano in tempo di raccolta.
Un preciso colpo di Miric alla testa, tronca la vita del comandante avversario, senza che questi se ne accorga.
Meglio per lui.
Si uniscono intanto al coro distruttivo le voci degli AK-47 di cui i miei uomini sono dotati.
Alcuni federali riescono a fuggire nel bosco, ma delle urla improvvise di stupore e paura mostrano l'invincibilità della morte, portata da Zerpvic e Karik.
Dopo pochi secondi torna il silenzio assoluto.
È stata una vera e cruenta carneficina, di quelle che fanno disgustare persino me, tanto sono crudeli e rapide.
Ma in fondo non può che essere così in questa maledetta guerra assurda; o sterminare o essere sterminati.
Urla di vittoria mi destano da questi pensieri.
"Ha visto tenente? Meglio dei marines!", grida Miric, ancora in preda all'adrenalina.
Anche Goraz sorride compiaciuto; è impossibile non festeggiare dopo una vittoria, lo so, anche se è stata una barbarie come questa.
"Dannazione!"
L'improvviso urlo di Zerpvic fa fermare i festeggiamenti immediatamente.
"Stanno arrivando a decine! Me lo ha detto un sopravvissuto!"
"Portamelo qui!", ordino.
"Credo sia inutile, tenente. È andato"
La disperazione sta penetrando nei cuori dei miei soldati.
Non devo fare altrettanto; sono il loro comandante, confidano in me per trovare una soluzione.
Ed è ciò che farò... sempre che esista.
"Da dove arrivano, Zerpvic?", dico allora, affacciandomi dalla finestra senza vetri.
"Da ovunque... vogliono fare di Marik la loro nuova base operativa. Non c'è via di fuga!"
Un unghia mi si spezza, mentre i miei incisivi la troncano.
Dannazione!
Che posso fare contro tutti quei nemici, e senza via di fuga?
La resa non è possibile; i croati o i musulmani ci fucilerebbero dal primo all'ultimo, come fanno anche molti altri serbi con i nemici.
L'unica alternativa è combattere fino alla fine.
Il villaggio di Marik, nel suo candido silenzio, sembrerebbe ad un qualunque osservatore un villaggio fantasma; spero che quest'idea l'abbiano anche i federali.
La zona è stata abilmente ripulita dai cadaveri degli uomini morti nell'assalto precedente.
La notte è ormai calata, e una luna piena dall'intenso splendore rende il villaggio ancora più suggestivo.
Forse, se i nemici sono codardi e superstiziosi, fuggiremo da questo luogo senza spargimenti di sangue. Anche perchè, tra le poche cose che so di quei luoghi, c'è la leggenda di un terribile mostro mezzo uomo e mezzo bestia, che si dice se ne vada in giro eliminando e divorando chiunque trovi sulla sua strada.
Non ricordo nemmeno dove diavolo ho sentito questa storia...
Molto più probabilmente però giungeremo alla battaglia, e alla paura per il sovrannaturale si sostituirà la ben più materiale paura per i proiettili.
La casa che abbiamo scelto come base è diventata una vera trappola mortale. Ogni lato è protetto dai miei soldati, i cui fucili sono pronti per riversare fiumi di piombo sugli avversari dalle finestre. Ci siamo ingeniati per rendere inespugnabile la casa: oli sono riscaldati sul fuoco, pronti per essere riversati sugli assalitori.
Studiare la storia serve a qualcosa.
È un metodo forse anacronistico, ma ogni mezzo che abbiamo per resistere deve essere usato.
Zerpvic e Karik sono già nascosti nel bosco, pronti ad attaccare all'improvviso, alle spalle del nemico.
Sono ancora nella stanza in cui mi trovavo durante lo scontro precedente, con Milivovic e la sua mitragliatrice da posizione. Goraz e Miric sono stati dislocati altrove, per mantenere ogni lato della casa protetto.
Molti dubbi imperversano nella mia mente.
Sarà la più folle impresa che abbia mai intrapreso. Non so perchè, ma mi ricorda la battaglia delle Termopili... quell'atto di puro eroismo è stato uno dei motivi per cui ho scelto di diventare soldato.
Spero che il risultato dello scontro non sia lo stesso però; anche perchè, a differenza degli spartani, noi non abbiamo nulla da difendere, se non la nostra stessa pelle.
E la difenderemo a tutti i costi.
Il rumore del nemico in avvicinamento è spaventoso, perchè indica che a farlo sono decine e decine di stivali.
Dalla nostra abbiamo ancora una volta l'effetto sorpresa, però.
Una piccola speranza, ma vitale.
Devo mostrare ai miei uomini che esiste una possibilità di farcela, o tutto sarebbe vano.
"Tenente, sa che mio figlio è appassionato di storie di battaglie? Mi piacerebbe se conoscesse questa impresa che stiamo per compiere"
"E la saprà, Milivovic. Sarai tu stesso a raccontargliela"
Il buon soldato sorride, e una fiamma di speranza gli si accende negli occhi.
Bene!
Questo è lo spirito che voglio.
Questo, sommato ad un po' di fortuna, ci porterà alla vittoria.
I primi soldati federali arrivano poco dopo davanti alla casa, illuminati dall'immensa luna piena, dalla parte su cui si affaccia la finestra controllata da Goraz e Miric.
Poco dopo la casa è completamente circondata.
I soldati della Federazione parlano tra loro rilassati; credono di aver ormai finito il duro lavoro giornaliero e di avere finalmente il riposo che anelano profondamente.
Bè, molti di loro il riposo l'otterranno davvero; un riposo eterno.
L'ironia svanisce pensando alla crudeltà di quello che sta per succedere. Ma in fondo è decidere tra la morte dei federali e la nostra.
Inspiro profondamente, poi urlo a pieni polmoni, con tutta la mia energia, il comando che tutti i soldati aspettavano.
"Fuoco!"
E una tempesta di proiettili si infrange sul muro umano dei soldati nemici.
Urla di sorpresa e poi di rabbia riempiono l'aria, mescolandosi ai fucili in un cocktail assordante.
Quando ormai già una trentina di federali giace a terra morta o ferita, inizia la risposta. Le armi da fuoco dei federali si attivano e le pareti della casa cominciano ad essere riempite di pesante piombo.
"No, Irmika!", risuona una voce di un'altra stanza della casa.
Dannazione!
Stringo i pugni sull'impugnatura della Tokarev fino a farmi male.
Uno dei nostri è stato preso.
Mi affacciò alla finestra senza pensare tanto, accecato dall'ira, e vuoto l'intero caricatore sui federali.
"Crepate bastardi!"
Mi ritirò appena in tempo per evitare di trovarmi il cranio trapassato da una pallottola.
A quanto pare Dio non mi vuole ancora lassù.
"Stia attento tenente, se non vuole lasciarci senza guida!"
Sento appena il grido di Milivovic, a causa del roboante rumore che travolge ancora le mie orecchie.
I nostri colpi si fanno sempre più frammentari e meno incisivi, mentre i federali avanzavano passo a passo.
Così non va.
Affacciandomi e tornando fulmineamente al coperto, constato la vicinanza del nemico. Attendo pochi istanti, respirando affannosamente, poi dò il secondo ordine che i miei uomini attendono.
"Olio!"
Non voglio rimanere con le mani in mano; chinatomi afferro una bacinella in cui è contenuto il liquido bollente, e lo lancio fuori dalla finestra.
Urla tremende si alzano dai nemici ustionati, che vengono poi terminati con una scarica di mitragliatrice.
La stessa cosa accade in tutti e quattro i lati della casa.
Bene.
Forse ce la faremo davvero, continuando così.
Con un maledettissimo tempismo la smentita mi arriva subito dopo, per voce dei miei stessi soldati.
"Ce l'hanno fatta! Sono entrati... Non possiamo tenerli!"
Urla di dolore e di armi da fuoco scoppiano sotto di me, nella grande stanza d'ingresso.
Ho dislocato tre uomini con una mitragliatrice di posizione, ma non possono reggere molto.
Ma il loro sacrificio non andrà sprecato.
Mi lancio di corsa verso l'ingresso con la velocità maggiore che le mie gambe mi permettono. Appena giunto la scena che si presenta ai miei occhi cala un cupo velo di tristezza sul mio cuore. Due dei miei soldati sono stati trivellati dalle pallottole; il terzo giace a terra, in un lago cremisi. Non li riesco nemmeno a distinguere, tanto sono sfigurati.
Davanti a loro giacciono molti corpi dei nemici, anche se, per i morti, questa distinzione non ha più alcun senso. I cadaveri renderanno ancora più complesso l'ingresso ai federali; tanto sono comunque troppi...
In un momento che sembra durare un infinità, dopo che i miei commilitoni cadono alla fine a terra, uccisi, non riesco pensare ad altro che alla vendetta: dopo aver tolto rapidamente la sicura con i denti, lancio poco fuori dalla casa l'ultima bomba a mano di cui disponevo.
Mi lascio cadere a terra, mentre alte grida di terrore e paura si diffondono tra i dannati federali.
Poi la bomba esplode.
L'intero edificio è scosso da tremiti, e frammenti insanguinati ricoprono la parete frontale della casa e la stanza d'ingresso.
Non vomito per miracolo.
Ciò che ho davanti agli occhi è a dir poco orrendo e disgustoso.
Una luce improvvisa, poi mi trovo a terra, dolorante.
Una tremenda esplosione improvvisa.
Il suono del crollo di una parete e le urla dei miei commilitoni mi investono violentemente, quasi fossi io sotto alle macerie.
Ma devo reagire. Per i miei uomini.
"Tutti i superstiti qui con me!", ordino rialzandomi lentamente e facendo contemporaneamente fuoco con la mia fida pistola sui nemici fuori dalla casa.
Due federali armati entrano improvvisamente, puntando il loro fucile verso di me.
Proiettili escono dalla canna in cui erano stanziati e si conficcano nella carne, provocando urla terribili.
I federali cadono a terra, morti.
Giro rapidamente il collo per capire chi diavolo mi abbia salvato la pelle: davanti agli occhi mi appare Goraz, con l'AK-47 in pugno.
Poco dopo arrivano anche gli altri sopravvissuti, armati e desiderosi di sparare fino all'ultimo proiettile.
Ci siamo esercitati insieme, tutti temprati da infinite battaglie...
Non ci saranno momenti morti di ricarica, tra una raffica e l'altra.
Un numero incalcolabile di federali cade, sotto i nosti colpi, ma altrettanti arrivano e rispondono al fuoco.
Per un attimo la mia mente riesce a mettere da parte la fredda furia che la domina, e con la coda dell'occhio osservo quanti dei miei siano ancora in piedi, armi in pugno.
Il vecchio Goraz e il possente Milivovic.
Nessun altro.
Chissà che mi dirà Dio fra poco.
Spero che lascerà un angolo di Paradiso per me e gli altri, dove raccontarci storie, parlare delle nostre donne...
Urla disumane mi riportano alla realtà. Provengono dalle fila federali, persino coloro che tentano di assaltare la casa si girano per osservare l'accaduto.
Meccanicamente i proiettili della mia Tokarev si infrangono sulle loro teste.
Zerpvic e Karik.
Non possono che essere loro.
Ma qualcosa non quadra; le urla di orrore e paura sono troppo forti.
Mi sforzo di osservare quello che sta accadendo fuori, quando un improvviso dolore si espande sulla mia testa.
Il dolore è sempre meno forte, quanto la mia presa sulla realtà.
Signore, sto arrivando...
Il mio corpo sfracella a terra senza che avverta il dolore della caduta, poi sento sono le grida di dolore dei miei ultimi commilitoni.
Un tenue e pallido sole si alzò presso il villaggio di Marik, illuminando le case, gli alberi e i corpi dei soldati caduti la notte precedente. Corvi volavano in circolo sopra al luogo del massacro, triste monito del ciclo che continua.
Ivo aprì a fatica gli occhi.
Le tempie gli dolevano e pareva che un martello stesse battendogli il cervello all'interno della testa. Il proiettile lo aveva colpito di striscio, ma ciò lo aveva comunque fatto svenire. Alzatosi, si guardò in giro; i corpi dei federali erano ancora lì, e producevano il disgustoso odore dolciastro tipico dei cadaveri, cosa che fece aumentare ancora di più l'emicrania del tenente.
Voltatosi, si accorse che invece i corpi dei suoi non erano più lì.
Alzandosi a fatica si diresse lentamente fuori dalla casa.
C'erano decine di cadaveri, ma il fatto più particolare era la tipologia delle ferite che essi avevano sul corpo.
Non ferite da arma da fuoco, ma di enormi e possenti artigli, che avevano straziato violentemente le vittime.
Pieno di sorpresa e orrore, il tenente alzò il capo e vide le figure di Goraz e Milivovic, entrambi feriti, che stavano seppellendo i loro compagni caduti.
La gioia illuminò il volto segnato dei soldati, quando videro il graduato.
"Tenente, ma allora è vivo!", urlò pieno di gioia Milivovic, interrompendo il seppellimento.
"Io sì... ma cos'è successo qui?"
"A quanto pare i mostri sono dalla parte dei serbi", sentenziò il vecchio Goraz.
Alcuni minuti dopo, i tre soldati abbandonarono per sempre Marik, entrando nella foresta dirigendosi verso nord.
In tre era possibile fuggire.
Camminando tra le fronde, l'odore di morte richiamò l'attenzione dei serbi.
Seguendolo come segugi, giunsero poco dopo davanti a due corpi orribilmente martoriati ai piedi di un possente albero. I volti devastati erano irriconoscibili, e gli arti barbaramente strappati. Solo dai brandelli di divisa rimasti e non lordati dal sangue, Ivo riconobbe i suoi commilitoni, Zerpvic e Karik.
Una nuova tristezza riempì gli sguardi dei sopravvissuti.
"I mostri non sono dalla parte di nessuno", disse allora con parole lapidarie il tenente.
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