Ragni di minime luci arrampicati sulle facciate affrante dei palazzi a far da cornice alla solitudine stanca della strada, che non sembra interessata all’aria di festa natalizia, così come il silenzio non si cura della musica.
Pochissime erano le stelle risparmiate dalla voracità delle penzolanti luci cittadine, annoiate, quando tutti le credono felici. Così monocromatico il cielo sembrava più del solito una semplice toile de fond.
Sapevo benissimo?" era scritto ovunque?" che sarebbe stato inutile sperare di trovare qualcosa di diverso dagli altri giorni in quella strada che ormai conoscevo bene, ma seguire il buon senso non mi sembrò stimolante e decisi di cercare.
Le aureole rosse delle insegne fuocolorate, l’asfalto che sparisce per un po’ sotto le scarpe, la striscia bianca impassibile a trasportarmi gli occhi. Guarda dove vai, dimmi con chi... e ti dirò chi. Chi va con... va sano e lontano. L’ontano, ma sono platani. Chissà se le lampadine sanno che cos’è la luce? Niente di nuovo stasera, sul fronte… quel soldato grigio in copertina. La professoressa con gli occhi dipinti di blu cattedrarrabbiata, signora potrebbe, ma non.
Era la sera adatta per un addio indimenticabile. “Non farla passare invano” mi disse non so chi altro e mi convinse a lasciare un pensiero in una zona d’ombra che si mostrò felice del regalo che le stavo facendo?" basta (con) il pensiero -.
Prima di entrare in casa sua lasciai alcune velleità nel portaombrelli, un sorriso mi aprì la porta a quell’ora di notte. “Accòmodati!”, dovevo solo farmi strada tra l’imbarazzo e gli oggetti sul pavimento che la penombra faceva del suo meglio per nascondermi.
Non potei far altro che limitarmi ad osservarla sedersi sul letto, sistemare i cuscini ocra abat-jour nell’impossibilità di ignorare le parole che i suoi baci di saluto avevano da dirmi.
Avrei voluto regalarle delle parole nuove, nuove note da accordare alla serenità con la quale mi guardava e mi raccontava della sua giornata: preferii lasciare al calore della stanza il compito di ospitare la luce dell’unica stella che quella sera si salvò dal giallogorio della festa.
Morbidambrata era l’aria e ondeggiante al passaggio dei nostri sguardi, tanto che chiunque altro ne sarebbe stato soffocato; lei giocava con il mio mite scompiglio. Una parola alla volta si riempì di parole la volta, quasi fossero nidi di rondine. Parole annidate, date dagli anni. “Dove siete stati in tutti questi anni?” Chiesi ai suoi denti, che in tutta risposta si nascosero dietro le labbra.
Con Agnese parlare era come guardarsi, dentro e fuori. Poca importanza avevano le parole dette in confronto a quelle taciute, quasi che si parlasse ad alta voce solo per consuetudine, non per necessità.
Distesa sul letto, come una Venere del Cinquecento, c’era la cosa più semplice e più imprevedibile che mi fosse mai capitata: non era mia e non lo sarebbe mai stata, ne avevamo discusso a lungo, ma mi piaceva dimenticarmelo ogniqualvolta ne avevo la possibilità. Agnesemplicemente impossibile.
“Ti va un caffé?”. Dovevo avere un’espressione stanca. Mi nascosi per un po’ nell’aroma nerotico del caffé, per un po’ non l’ebbi più di fronte e pensai che m’avesse abbandonato, il profumo perlato che sentì di lì a breve mi diede torto. I muri della stanza avevano tutta la mia invidia, nati com’erano con il solo compito di sorreggere cose che mai sarebbero riusciti a capire. A me in fondo restava solo da capire perché dalle mie mani non stessero ancora sbocciando garofani screziati.
Era dietro di me e divenne melodia, fu davvero troppo per me. Rimasi lì, ma me ne andai.