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Victor Marinetti e la talpa dislessica
Era una notte buia e tempestosa e, quindi non era il caso di uscire. Provai ad accendere la TV. Secco su FOX-CRIME, guardai due puntate di CRIMINAL INTENT. Un serial poliziesco d'ultima generazione basato sull'indagine a posteriori, sulle spinte omicide, di persone che compiono atti inumani contro i loro simili. Quello che mi colpì quella notte, fu che la vita di questi killer, figure da cui mai ti saresti aspettato che fosse capace di un'azione del genere, era d'un'intensità invidiabile. Macchinavano, si concentravano ed agivano, con entusiasmo giovanile, solerzia, alla realizzazione dei propri obiettivi. Alla fine, indagando nei flabili meandri mentali di questi individui corrotti, gli sbirri del FBI riuscivano a trovare un movente all'assassino, a spiegarne il processo psichico. Almeno fino alla terza serie. Il detective Goren (D'Onofrio all'anagrafe (questo era il nome dell'attore che interpretava il ruolo del protagonista)), è un personaggio patologicamente coinvolto nell'affrontare i casi psicologicamente più intricati. Il suo onere lo porta a dover ragionare con la logica di questi criminali e doverne spiegare le dinamiche dialettiche. A volte resta stupito lui stesso di quanto sottile fosse il limite di separazione tra bene e male, razionalità e follia. Fotografia di un mondo corrotto nella sua essenza, nei suoi principi fondamentali, la vita di certi individui è totalmente rivolta al compimento di atti criminosi, i cui colpevoli, nella maggior parte dei casi sono degli insospettabili che vengono beccati dopo anni e anni di prolifica produzione. In che mondo vivevamo? Chi era il nostro vicino di casa? Forse si trattava di un mussulmano, magari terrorista. Ma com'è possibile, un mussulmano biondo? Ormai si conciano proprio bene. Sono dappertutto.
La TV era la sfera magica cui veniva concessa la possibilità di comunicare alla tua anima. Quanto profonda fosse la spinta e la validità dell'argomentazioni, rispondeva ad esigenze di odience principalmente.
Sulla scia di certi pensieri, crebbero così, le mie paure. Le paure di una notte buia e tempestosa, partorirono in me questa consapevolezza: se un serial killer di quelli di CRIMINAL INTENT, avesse visto un telefilm sulla mia vita, si sarebbe annoiato a morte. Eravamo noi stessi causa del nostro male. Se io, per dirla alla Goren, fossi costretto ogni giorno a dover vedere in TV la vita di uno scrittore in fuga dalla noia, magari diventerei un serial killer. Ed ecco scoperto il movente.
Non c'era verso di rinunciare, andare a dormire, quietare l'anima in tumulto. Andai in bagno mi fermai sul lavandino, aprii il rubinetto dell'acqua fredda e, incondizionatamente, appoggiai i polpastrelli dell'indice e del medio della mano sinistra, dapprima sulle palpebre inferiori dell'occhio destro, poi quello sinistro. Il rumore dell'acqua che scorreva, spezzava il precario equilibrio della polvere di casa mia. Mi trasmetteva quel senso di vitalità, che solo l'acqua può permettersi di contenere. Dilatai le pupille. Cercai di osservare i dettagli dei capillari nell'iride riflessa. Piccole, sottili arterie che si intersecano, sovrappongono, in improbabili incroci, autostrade del sangue.
Tornai nella sala della TV, ma non era più tempo di guardare la TV. Tirai il portafogli fuori dalla tasca dei pantaloni sul pavimento e ne estrassi la foto del mio editore.
Era la persona più in gamba che mi fosse mai capitato d'incontrare. Victor Marinetti si chiamava e si trattava d'un uomo di una sagacia e un intuito, a dir poco, inusuali per un essere di questo mondo. Martinetti si! Come quello del manifesto del futurismo!
Portavo sempre con me la sua foto. Una di quelle foto tascabili, non una foto-tessera, qualcosa di un po' più impegnativo. Era una foto in bianchennero in cui stava seduto s'una panchina e osservava, con un sorriso di consapevolezza, il passaggio dell'aria davanti al suo naso. Gli avambracci appoggiati alle ginocchia, le dita delle mani incrociate all'altezza delle falangette; portava una giacca di velluto. Una di quelle giacche da scrittore per intenderci. La custodivo lì, in modo tale che, se ne avessi sentito il bisogno (cosa che succedeva spesso), avrei potuto appigliarmi a lei affinchè il mio orgoglio non smettesse di proteggere dagl'influssi negativi, la mia follia.
Fortunatamente, non succedeva spesso che la mia mente si sterilizzasse in congetture che non mi permettevano di andare avanti nella stesura dei miei romanzi. Ero un treno in corsa a quei tempi, un cavallo di razza per qualcuno. La mia fantasia partoriva storie su storie, su storie. Non soffrivo neanche in un momento, nel mio rapporto con la scrittura, si trattasse anche solo di un brevissimo attimo, della sindrome del foglio bianco, anzi no. Se così si può definire, la mia sindrome da foglio bianco, consisteva nel non riuscire a tenere davanti ai miei occhi un foglio senza svuotarci dentro le viscere. Ma si sa: la genialità, come il sapere, ti consuma. E così per me, allora, era la scrittura, bramosa di nuove sensazioni, nuove emozioni, nuove avventure. E lui stava lì, dentro al mio portafogli ad appoggiare, con la sua aria di sovrana benevolenza, le mie idee.
Ogni momento della mia giornata era un buon momento per chiamarlo e raccontargli di come evolvesse il rapporto col mio ultimo lavoro. E lui mi ascoltava. Non che assecondasse ogni mio pensiero malato, ma riusciva ogni volta a trovare la chiave che risvegliasse in me gli stimoli per andare avanti.
Alcuni giorni prima, stavo seduto al bar Garibaldi, con in tasca la copia del mio ultimo romanzo, "La talpa dislessica", che la critica aveva giudicato geniale solo a sprazzi. (Leonardo Palazzeschi, mi aveva chiesto di pubblicarne un capitolo s'un'antologia di letteratura contemporanea da Liceo Classico. Cosa che inizialmente mi aveva entusiasmato, ma l'entusiasmo iniziale, via via, era andato scemando in quanto, nelle note introduttive alla lettura, aveva scritto testualmente "... si riconosce nell'autore il talento di un genio in erba. Una battuta su tre è esilarante, le altre due sono robetta").
Solo a sprazzi? O sei un genio o non lo sei. Non ho mai amato lasciarmi andare a facili entusiasmi (GRANDISSIMA BUGIA, ho sempre adorato cavalcare l'onde alte, battere il ferro finch'è caldo), ma, per fortuna (mia), c'era il mio editore ad accompagnarmi sulle nuvole. "da qui tutto assume una prospettiva corretta, un bagno di luce... per i nostri simili intendo". Spendevamo tutto il nostro tempo nei grandi progetti che ci accomunavano e, come se non bastasse, anche quando eravamo lontani, (cosa non molto difficile, visto che abitavamo ai capi opposti della nazione (lui a nord, io a sud)), l'idea di donare briciole di poesia alla sterilità dei pensieri dilaganti dei nostri mondi, era il nostro chiodo fisso.
Decisi in quel momento, di scrivere un racconto per lui.
L'idea, inizialmente, sembrava avesse spazzato in un sol colpo, tutte le prerogative del mio attuale lavoro, ma ben presto, l'entusiasmo del mio progetto, si era tramutato in una sviolinata che non rispecchiava più l'obiettivo iniziale.
In una notte buia e tempestosa buttavo giù parole, senza pensare troppo a cosa sarebbe dovuto succedere e non ero soddisfatto del mio lavoro, ma sapevo che era importante andare avanti comunque. Quindi armato di buona volontà e irriverenza verso tutte le tradizionali forme poetiche, continuavo a scrivere pensieri senza contenuto. Mi versai del whisky.
D'un tratto ebbi l'idea di cambiare stile, abbandonare l'idea del racconto e provare con una poesia. Stavo per addentrarmi in quest'avventura, quando mi ricordai che per scrivere una poesia, bisogna avere un'anima. Se ricordavo bene, l'avevo barattata, pochi mesi prima per un pugno di fagioli (che i legumi fanno bene), e desistetti anche da quest'iniziativa. Ma non poteva finire così. Dovevo fare qualcosa per il mio editore, dovevo riuscire a trasmettergli la stima che provavo per lui.
Pensai che fosse il caso di rimandare ad un momento più appropriato il proseguimento di quest'attività, anche se ritenevo comunque di fondamentale importanza, non abbandonare i miei pensieri, concentrandomi esclusivamente sul bicchiere di Glen Grant davanti ai miei occhi. L'impresa sembrava ardua. Cominciai ad osservare i dettagli della consistenza del whisky nel bicchiere. Mi dava l'impressione di un miraggio nel deserto. L'aria rarefatta dal calore distorce le dimensioni, come il whisky per l'appunto, e dentro un bicchiere era più semplice riconoscere il deserto della ma anima. Bastava così. Ingollai in un sorso i vapori del Glen Grant, ed il suo senso di colpa, come i residui della mia anima, sparirono nello stomaco. Presi l'auto, chiamai il mio amore immaginario e corsi come una freccia verso il mare d'inverno.
Mi lasciò ad attenderla, come al solito, per una canonica mezz'ora sotto casa sua. Ma ero armato di buona volontà e pazienza. Per un racconto, per quanto breve fosse, era di fondamentale importanza avere un amore. Senz'amore non esiste una buona pagina. Quindi nell'attesa decisi di fumare dieci sigarette. Per amore. Era certamente un onere per un artista parlare del proprio rapporto col fumo. Libero dai sensi di colpa per quanto gradevole fosse il sapore del tabacco sulla lingua, non era mio compito quello di salvaguardare le giovani vite dei miei lettori, dal cancro ai polmoni. Alla terza sigaretta, fumata di filata, mi venne da vomitare. Scesi dall'auto, mi nascosi dietro una pianta d'oleandro e sboccai. Aveva poca importanza, infatti non appena fui in grado di farlo ne accesi un'altra e un'altra e un'altr'ancora. Per scrivere è fondamentale che i tuoi pensieri strabocchino d'amore. Forse era per questo che ero uno scrittore mediocre. Il mio amore mi faceva soffrire, ma non potevo dargliela vinta. Anestetizzavo il mio essere con divagazioni irriverenti sull'argomento.
Avevo corretto da poco il racconto di un amico scrittore vero, su un'esperienza d'amore con una prostituta. E mi era venuta voglia d'andarci anche a me. Si trattava d'un gran bel racconto, carico d'emozioni a tal punto da sembrare un uovo sodo, pro e contro. Credevo fosse un'esperienza imbarazzante quella di correggere il lavoro d'un amico, ma alla stregua, appunto, d'un uovo sodo, lasciato cadere (e non accidentalmente), per avere una scusa per non doverlo fare, quasi inavvertitamente, mi resi conto che, al contrario di come pensassi, quest uovo non aveva lasciato sul pavimento quel patatrac immaginato, al contrario era stato come metterne alla prova la consistenza, e la sensazione derivante dall'aver appurato che si trattava di un ottimo uovo, resistente, duro al tatto e immorale al gusto, mi aveva sorpreso a tal punto, da dedicarmi con passione a quell'attivtà. Credevo si trattasse di un ottimo lavoro e ne approfittai per sottoporlo all'attenzione del mio caro editore Martinetti. Stavo appunto per chiamarlo, per chiedere cosa ne pensasse, quando l'arrivo di Chiara s'impossesso delle mie percezioni.
Era inverno pieno. Febbraio. Lei si presentò in jeans, maglione verde, giubbotto da tracking e delle scarpe scandalose. La sua camminata strana era ridicola. Sembrava ciondolasse. Aveva un passo leggero, tanto da sembrare una cartilagine fluttuante.
"Max," - mi baciò - "portami al mare. Ho voglia di andare al mare, portami al mare. Voglio andare subito al mare. Presto, ti prego!"
"Max sarà il mio cane. Io mi chiamo Fido!"
Non reggevo quest atteggiamento nei miei confronti. Mi comandava a bacchetta. Doveva condurre lei, a ragione o per forza.
Onde evitare di innescare una polemica, visto che era anche un mio desiderio, decisi di assecondarla (non senza prima però aver dato una sbirciatina nel portafogli, alla foto del Grande Editore). Partimmo in fretta.
"Dove hai preso quelle scarpe? Sono orrende!"
"Le scarpe servono per camminare e queste sono comodissime!"
Sembrava non le importasse molto del mio parere.
"Ho letto il tuo romanzo: "La talpa cieca""
"Veramente è dislessica!"
"Chi?"
"La talpa".
"Non fare questi giochetti con me. Comunque non mi è piaciuto! L'ho trovato pesante, soprattutto sulle considerazioni politiche! Troppo macchinoso in certi punti".
I miei romanzi parlavano di politica quanto un documentario sulla savana. Non lo aveva letto, ne ero sicuro.
"Non è che a me interessi la politica più di tanto, ma sembra che tu debba necessariamente schierarti da qualche parte, purchè vada in contrapposizione con le idee di qualcun altro. Poi quella povera ragazza..."
"Ah, ecco a cosa ti riferisci, adesso comincio a capire..."
"Sai benissimo a cosa mi riferisco. Nei tuoi romanzi, le donne sembrano così stupide, vuote. Non sarai gay? Poi la fine, guarda, la fine è pietosa!"
"In che senso?"
"Dai Max, hai fatto morire quel poveraccio. Sei senza cuore,"
"Ti ho già detto che non mi chiamo Max, poi nei miei romanzi, decido io di cosa sia il caso di parlare o meno, o cosa debba succedere e a chi. Comunque non c'è niente d'inventato. È tutto vero!" - Prese una ciocca di capelli tra le dita e le fece schioccare. - "E non è colpa mia se quella ragazza non capiva assolutamente un tubo di politica. È la verità! Nuda e cruda!"
"La tua verità!"
Si riferiva ad una conversazione che avevo avuto con Consuelo. Sosteneva che la destra al governo in Italia avrebbe portato stabilità, più di quanto lo avesse fatto la Sinistra. Sosteneva che fosse la destra a conservare l'integrità dei valori costituiti dalla famiglia, la religione. Non è che non condividessi questi valori, solo che sentire parlare la triade del triumvirato che costituiva la punta dell'iceberg di quel movimento, di certi argomenti, mi sembrava poco credibile. Parlavano del valore della famiglia, quando loro erano tutt'e tre divorziati, parlavano di religione quando loro stessi la utilizzavano come strumento per sottolineare la disuguaglianza con quelli che definivano "comunisti". Ma non era il Vangelo a dire che tutti gli uomini erano uguali al cospetto di Dio? Non era Cristo a raccontare la parabola del figliol prodigo? Bah, non ero io a poter stabilire se fossero giuste o sbagliate certe considerazioni, ma di quei tre non mi fidavo affatto. Poi, comunque Consuelo me ne aveva fatte passare di cotte e di crude. I suoi tradimenti mi avevano logorato. Non era mia. L'idea del possesso distrugge i sentimenti, ma ci dev'essere qualcosa in più di banali conversazioni che finiscono sistematicamente con delle furiose litigate. All'inizio era tutto fantastico. Il sesso in primo piano. In breve avevo iniziato a considerarla la donna dei miei sogni. Era una ragazza giunonica, con una spiccata sensibilità verso le mie parti intime. Sosteneva che la sua missione al mondo fosse quella di farmi godere. E ci riusciva benissimo. Vivevamo in un appartamento di 220 metri quadri, vicino Piazza Cinque Giornate, a Milano. La casa era vuota e dopo un anno che stavamo lì, non eravamo riusciti neanche a fare l'allaccio del gas per la cucina, l'acqua calda. Dormivamo su un materasso per terra. I vestiti sparpagliati sul pavimento. Un tavolo con la base di marmo su cui erano appoggiati: uno stereo compact, un vhs, un dvd player, una play-station e quanto di più avanguardistico, dal punto di vista tecnologico, esistesse. Suo padre era un ex rapinatore, diventato industrialotto dopo la galera. Produceva autolavaggi self-services e le passava 500 euro a settimana per sbolognarsela. Sistematicamente spendevamo tutti quei proventi in droghe di vario genere: pasticche, coca, ashish, marijuana... insomma non ci facevamo mancare nulla in quell'ambito. In breve la follia prese il sopravvento. Tirammo avanti per circa un anno, tra botte (era una vergogna uscire di casa pieno di graffi e lividi), appassionati riavvicinamenti, abbandoni e amichevoli rimpatriate. Fino a quando mi lasciò, in una notte di pioggia, per uno sporco talebano. Non è che la mia opinione sulle donne fosse bassa, ma su Consuelo avevo pareri contrastanti, a seconda di cosa pensassi.
"Comunque si tratta di una vecchia storia... poi, sei riuscita a cogliere solo gli aspetti più superficiali della questione. All'amore non pensi?"
"C'era anche spazio per l'amore in tutto quello che hai raccontato. Credevo che la Talpa dislessica, l'avessi scritto per vendicarti!"
"Chiara alle volte sembri una cretina! Non pensi a quando l'accolsi, con le reni spezzate. Non so cosa avesse fatto in quei giorni, ma l'avevo trovata a dormire in macchina che non riusciva più a muoversi..."
"Si che lo ricordo! Eri stato freddissimo."
"Ah si? Eppure dopo quell'atteggiamento freddo, la misi a dormire nel mio letto, andai in cucina e piansi..."
"Ecco! Appunto! Sei anche un piagnucolone!"
"Lascia perdere... lascia perdere!"
Accesi la radio e misi AVRO Klassical Operette, almeno su questo andavamo d'accordo con Chiara. Ascoltammo la voce di Cristina Deutkom, mentre guardando il panorama lunare, coi suoi riflessi marini, sulla strada panoramica dello stretto, ci lasciavamo alle spalle Consuelo con le sue follie. Erano questi i momenti in cui adoravo quella ragazza. Sembrava empatizzasse con il walzer radiofonico. Sembrava si stesse trasformando in Albertine, la sensuale compagna di Fridolin di Doppio Sogno, quelli di Schintzler per intenderci. Elegantemente appoggiata sullo schienale dell'auto, si lasciava baciare dal vento. Vento freddo d'inverno tra i suoi capelli, riscaldava il mio cuore al suo fianco. Le presi la mano. Mi lasciò fare. In breve, mano nella mano, raggiungemmo la spiaggia. Presi le due coperte che tenevo nel portabagagli per questo genere d'occasioni e ci avviammo verso la battigia. Non si trattava di una splendida serata, ma il rumore delle onde che si rifrangevano sulla riva, il profumo di salmastro, contornavano il nostro funerale al cospetto della bara dei ricordi.
"Vuoi nuotare?" - Le chiesi.
"Sei fuori di testa se pensi che sarei disposta a fare il bagno con questo freddo".
"Guarda che è solo l'impatto ad essere traumatico. Dopo, tutto diventerà bellissimo!!!"
"No Max. Va pure se sei così pazzo, ma non aspettarti che ti segua!"
"Non mi chiamo Max!"
Si alzò e si diresse verso l'auto, indispettita.
"Aspetta un attimo!"
"Ti ho detto che non ho voglia di fare il bagno".
L'avvicinai e l'abbracciai. Mi baciò con un morso così forte da farmi sanguinare il labbro inferiore. Poi mi disse:
"Ecco tu sei così. Un momento così antipatico e un attimo dopo la persona più romantica che conosca. Con le tue paure e le tue follie. Sei questo. Ed è questo che mi piace di te".
Non le risposi, solo mi toccai le labbra e vidi che sanguinavano. Mi spogliai e mi diressi verso il mare, mentre lei, tornata in macchina accese lo stereo a tutto volume su un aria di Nicolai Gedda. Impattai l'acqua senza pensarci due volte. Subito il gelo prese il sopravvento. Dovevo nuotare più in fretta possibile per scaldarmi. In breve fui distante dalla riva, ma non provai nessun sollievo, anzi sentivo appesantire il respiro. Pensai al grand'uomo ch'era il mio editore e decisi che era questo il momento che volevo regalargli in prosa. La fatica iniziò ben presto a farsi sentire e le onde sembravano essersi coalizzate per rendermi il più difficoltoso possibile, tornare verso la riva. La fatica cresceva inversamente proporzionale alla speranza di venire fuori da quella situazione incresciosa. Avrei dovuto scrivergli di come un uomo si senta più vivo, quanto più si trovi nella difficoltà di respirare. Man mano che pensavo a come descrivere queste sensazioni nel mio racconto, le forze tendevano al cedimento. Non facevo in tempo a cinestetizzare le immagini che qualche nuovo evento ne distoglieva l'attenzione. Fino a quando non arrivò un crampo che mi rese ancora più arduo il compito.
Marinetti, so che tu puoi concepire l'eroismo di quest atto. Un romanzo di successo alle spalle e un amore immaginario in macchina, cos'altro avrei potuto fare?
Provai a lasciarmi andare sperando che la corrente mi riconducesse verso la riva, ma non fu così. In quel punto, a Capo Peloro, le correnti si alternano rapidamente e senza criterio. In breve la distanza dalla riva era raddoppiata e le forze per compiere il tragitto di ritorno dimezzate. Solo un miracolo poteva salvarmi. Provai a respirare profondamente e con tutte le forze residue m'impegnai nell'eroica ritirata. Se non fossi mai entrato in acqua, se avessi dato ascolto a Chiara, forse adesso sarei felice a fare l'amore con lei sulla spiaggia e a Martinetti avrei potuto mandare un bel racconto erotico, invece della fine ingrata di uno scrittore mediocre. Con la fatica, anche la vista cominciò ad annebbiarsi, le immagini e i pensieri a confondersi, anagrammarsi. Stavo diventando cieco. Ero la talpa dislessica del mio romanzo. Provai a chiedere aiuto ma dalla mia bocca solo dei suoni indistinti:
"adido mnodo cedrule!"
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- E un racconto geniale... tutti i geni hanno difficoltà a farsi conoscere... ma visto che sei già morto... il successo arriverà subito... personaggi magnifici... sublimi... 3 su 3 le battute... commentarla mi è impossibile.. dovrei scrivere un commento lungo il triplo del racconto.. sono pigro per natura e mi piace oziare.. solo in poche parole..
Si lasciava baciare dal vento
v
- nonostante le innumerevoli visite è eveidente che questo racconto non meriti alcun commento... è frustrante per l'autore... cmq secondo me, a mesi dalla stesura si tratta di un buon lavoro... BRAVO. me lo dico da solo... quasi quasi lo voterei con un bel 5 stelle

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