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pelle
La porta si richiuse piano. I genitori di Giovanni erano appena usciti. Fuori settembre era maturo: tutto si stava pian piano tingendo di braci luminose. Si alzò lento dalla sedia, lasciò in cucina la colazione ancora da mangiare. Si diresse in bagno: aprì l’acqua calda della doccia, e la fece scorrere. Si lavò i denti, pisciò e scivolò cauto nella vasca. Rimase per un po’ sotto quel getto caldo, che spandeva intorno a lui soffice e spesso vapore bianco. La sua pelle sudava. Cominciò dolcemente a masturbarsi: venne quasi subito, con violenza.
Per pranzo i suoi genitori non erano ancora tornati. I suoi quindici anni gli suggerivano di non preoccuparsi: non era la prima volta che suo padre era dovuto andare in ospedale; le cose da fare là dentro assumevano sempre un tempo più lungo del normale. Prese dal frigo uno yogurt, ci ficcò dentro dei cereali e pranzò, guardando di tanto in tanto la televisione: tante persone davano tanti consigli per tante belle cose. Tra telenovela, televendite e telegiornali scelse una quarta ipotesi: MTV. Smise di mangiare: sullo schermo c’era una procace più che trent’enne che si dimenava scoprendo parti interessanti del suo corpo liscio. Aveva occhi invitanti: gli dicevano vieni, potrei essere tua madre, vieni che qui sotto sono comoda e calda.
Non si accorse che la porta si era aperta, lasciando entrare sua madre. Si svegliò solo quando la sentì chiudersi: spense in un attimo il televisore e in due passi fu nell’ingresso dove sua madre si stava sfilando il soprabito. C’era solo sua madre.
“Papà?” chiese lui: per un momento sembrò preoccupato.
“Hai…hai mangiato, caro?” rispose Tiziana, senza neanche starlo ad ascoltare. Quasi lo urtò, andando dritta al divano in salotto. Voleva solo riposarsi: sistemò i cuscini del divano, entrò in cucina e mise sul fuoco un caffè.
A Giovanni queste divagazioni non piacevano: frequentava una scuola professionale, lui si sentiva anche troppo pratico di vita. Lui doveva andare a scopare quella tenera più che trentenne. Lui che poteva essere uno dei protagonisti dei romanzi di Pasolini senza saperlo: alto moro e sprezzante. Sentiva che il suo sesso stava per esplodere da un istante all’altro.
Si sedette di fianco a sua madre, intrecciò le dita delle mani e si mise ad aspettare, facendole semplicemente capire che avrebbe aspettato a lungo. Lei fece spandere per la cucina il sapore scuro di caffè, poi se lo versò nella tazza. Ne bevve un sorso per prendere fiato: era bollente.
“Sai, papà…” cominciò.
“…ha avuto la febbre a quaranta per due settimane.”
A volte si rendeva conto di essere un po’ troppo drastico.
“È per questo che siete andati in ospedale stamani…no?”
“Si; papà è stato ricoverato.”
“Che hanno detto…quanto gli ci vorrà per guarire?”. Era cosi, per lui ogni problema doveva avere una soluzione: sennò che problema era?
Tiziana bevve l’ultimo sorso di caffè. Disse:
“Vieni a darmi una mano: bisogna preparargli la valigia.”
In macchina promise di dirgli tutto quello che c’era da dire. In effetti gli disse tutto ciò che le avevano detto i medici: omise solo ciò che loro non le avevano detto, ma le avevano fatto capire con gli occhi. E con quelle stupide lunghe pause tra un frase e l’altra. Suo padre aveva un tumore al midollo: Tiziana aveva usato anche il termine ‘leucemia’. Si ricordava vagamente che un famoso giocatore di una qualche grande squadra doveva essere morto di una malattia del genere: suo padre Luca con il nipote fingeva sempre di essere stato un grande calciatore, di aver giocato con i migliori. Comunque era roba di tempo prima: nel frattempo le cure erano progredite, grazie alla ricerca medica.
La guida della madre pareva più pacata del solito. Pensò che dovesse essere la stanchezza. Aveva allungato a dismisura il percorso. Da borgo Milano a borgo Roma la via era semplice: si tagliava per la stazione. Stavolta no: la strada si contorceva su se stessa nell’attraversare S. Zeno, costeggiare le Rigaste, infilarsi nel fianco di Pradaval per sbucare in corso porta Nuova e finire nella larga via Piave. Poi da lì non è che potesse scappare più di tanto: oltrepassò la Z. A. I. e raggiunse il policlinico. Certo, proseguendo si arrivava in ogni modo a Ca’di’David, dove abitavano i nonni: non per poco Giovanni sperò che la madre fosse diretta la, ma fece finta di niente.
In ospedale Giovanni trovò una ragazza di vent’anni, ma dovette farselo dire per poterle credere. Sembrava in realtà un maschio: pelata e non ancora dimagrita dalle chemioterapie. Aveva la pelle grinzosa. Camminava agile, con al fianco una specie di porta abiti con le rotelline sotto e sopra bocce e boccettine appese. Era contenta: fra poco le avrebbero portato la sacca per la trasfusione del sangue. Trovò il padre in una camera bianchiccia e asciutta a metà corridoio. Prima di entrare doveva indossare una mascherina di carta: una minima precauzione contro le trasmissioni di batteri. Era ancora vestito. Guardava fuori la finestra: gli si leggeva in faccia il rammarico di dover andare sul pianerottolo delle scale per potersi fare una sigaretta. La prima cosa che fece fu mettersi gli occhiali, quasi non vedesse bene che li di fronte c’era suo figlio. Restarono li fino a tardi: i pazienti cenavano presto. Parlarono poco, e male: Luca veniva visitato di continuo, e quando aveva tempo libero voleva fumare, come al solito. La madre non aveva voglia di cucinare: quando furono dabbasso, presero un panino a testa al bar e si avviarono verso casa. Senza deviazioni stavolta.
Quando già si erano cambiati per andare a letto, sua madre lo chiamò da sotto le coperte.
“Hai sentito freddo ieri notte?”
Giovanni chiuse la finestra di camera sua. Si affacciò alla porta.
“Perché?”
“Vieni da me se vuoi…”
Era una supplica o una preghiera? Quasi facesse differenza…
“Non…non ho sofferto il freddo…” bisbigliò: non era più un bambino. Questo sua madre lo sapeva.
“Non riesco a dormire da sola…”. Il suo corpo fremeva, nascosto sotto le coperte.
Non poteva stare lì ad ascoltare i pensieri di suo figlio.
Le labbra di Giovanni si erano aperte in un piccolo sorriso. La madre si era accorta del suo membro eretto.
Rimase in mutande e canottiera: sentiva la pelle tesa sbattere contro le fibre di cotone. La luce di camera sua l’aveva già spenta. Entrando la spense anche in quella dei suoi. Incespicò un po’, poi si sedette al bordo del letto.
“Domani cominci scuola vero?”
“Allora dopo che sono venuta a prenderti andiamo a trovarlo eh?”
Lui si voltò, leggermente infastidito. Le posò l’indice sulle labbra: non c’era alcun bisogno di parlare. Scoprì che il letto da quella parte seguiva curiosamente le fattezze di suo padre.
Lievemente cercò di rimodellarle secondo il proprio corpo. Tirò su le coperte fino al naso, si distese, e mentre la madre tentava di abbracciarlo spalancò gli occhi al buio e cominciò a pensare a quanto morbida e accogliente dovesse essere la pelle di una donna, là sotto e dappertutto.
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