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GLI OCCHI NERI
La brezza disegnò alcune strisce nel blu profondo del cielo notturno. Si sentivano gli animali tutti intorno che intonavano un assurdo peana, ed era impossibile distinguerli l’uno dall’altro, ed era impossibile anche solo tentare di attribuire un verso ad una figura, ad una fisionomia. Era vivo, adesso lo sapeva. Sentiva fluire il sangue, caldo nelle vene, e fu come una liberazione, o una condanna, ancora non poteva capirlo; aveva un persistente ticchettio che gli martellava la scatola cranica dall’interno e ancora non aveva aperto gli occhi, forse avrebbe potuto farlo, ma ancora non l’aveva fatto. Si teneva rannicchiato a se stesso, quasi in posizione fetale, timoroso di rompere quell’equilibrio stentato ma sicuro in cui si era trovato: avvertiva, sul lato della schiena su cui era appoggiato, l’umido della terra, e una strana miscela di dolore e forza che gli sgorgava dalla ferita sulla testa. Ma era sangue, ne era quasi certo, un fiotto denso e abbondante che fluiva delicato dalla sua fronte all’erba, gli sembrava quasi di poterlo sentire che sgocciolava un poco per volta. Non era la prima volta che sentiva il sangue sulla propria pelle, era già successo, ma ancora aveva troppa confusione in testa per ricordare dove e quando. Percepiva il sangue sulla pelle eppure aveva quasi la sensazione di poterne indovinare anche il gusto, era incredibile, ma il tatto aveva richiamato il gusto, e senza un filtro della ragione, solo così, perché era la cosa più naturale di questo mondo. Poi riacquistò la coscienza un passo alla volta, con una calma estenuante, anche se dire quanto tempo fosse trascorso da quando si era trovato a terra, schienato era impossibile.
La notte aveva disegnato un cielo simile anche il giorno della Pentecoste di due anni prima, quando con sua madre si era spostato alla fiera del paese, c’erano gli zingari e gente che vendeva i calendari e tutti parevano divertirsi. Manola stava appoggiata allo steccato vicino alla chiesa, e faceva pendere dalle labbra uno stelo d’erba lungo e ricurvo, impregnato di saliva. Ricurvo, dava l’idea di una mezzaluna. Stava in braccio a sua madre, che era una bellissima donna dai capelli bruni e la pelle ramata. Portava sempre dei pendagli particolari al collo e ai polsi: erano piccoli intagli di ebano e corallo che amava portare come ornamento. Ma forse non era in braccio a sua madre quella sera, non, era già troppo cresciuto, e poi non avrebbe potuto ricordarsene così bene se fosse stato in fasce. No, era molto più grande, ne era ormai certo. Avvertì qualcosa che gli si insinuava tra le labbra, ebbe un brivido, aprì gli occhi: uno stelo d’erba, la prima cosa che vide. Lo zuccherino che aveva confuso col sangue era linfa, quindi non aveva sbagliato di molto. Provò a ruotare il capo senza smettere di tenersi abbracciato, ma era rigido nei movimenti e gli doleva una gamba, la caviglia destra. Lorenzo fece per tirarsi in piedi, ma indugiò, rimase a metà strada, seduto in modo innaturale su di un fianco e alla fine cedette di schianto e ricadde di schiena sul terriccio, ma non perse i sensi un’altra volta: era il fiume il più imponente dei fruscii, e solo ora lo distingueva. Il fiume era ancora a pochi passi da lui, anzi, di meno, era sulla riva, quasi in acqua ed era fradicio. Poi ricordò qualcosa. Il fiume, la barca, la corrente forte. Aveva rischiato di annegare, ma si era salvato in qualche modo, aveva perso i sensi ma era vivo. Pensò a sua madre in prima battuta, pensò che si sarebbe preoccupata a morte e che poi lo avrebbe sgridato, questo era certo; come si arrabbiava sua madre. Anche perché non l’aveva avvertita della sua gita sul fiume, sennò lei si sarebbe fatta prendere dall’ansia, succedeva tutte le volte che faceva qualcosa di avventuroso, e così era stato zitto. Aveva preso la barca a remi dello zio di Riccardino. Già, Riccardino. Non c’era più, forse se l’era portato via la corrente, che era ancora forte, non quanto prima forse, ma era più che sufficiente per prendere un ragazzino di dodici anni e trascinarlo fino al mare. Riccardino è forte, pensò, è uno con le braccia forti e le gambe di ferro, e poi nuota benissimo. Già, ma forse non era bastato. Lorenzo fece uno sforzo per alzarsi, ma non ci riuscì, e stavolta cadde sui glutei, picchiando l’osso sacro su un piccolo ciottolo seminascosto dal terriccio. Una lacrima gli colò calda e salata sulla gota, fino a lambire l’angolo della bocca. Con il cuore che batteva forte fece per avvicinare la mano alla caviglia, che sentiva pulsare quasi volesse rompere la calza, e con uno spunto deciso alla fine la toccò: la sentì dura, come un muscolo contratto e sentiva che gli faceva un male cane. E poi c’era il taglio sulla fronte, ma di quello, non sapeva neanche bene perché, si preoccupava di meno, sentiva che il sangue si stava già rapprendendo e che in un modo o nell’altro aveva smesso di fluire. Si guardò intorno: era capitato in una zona boscosa, in mezzo alle canne e agli arbusti e, qualche metro più in là, un vasto bosco di pioppi e di altri alberi che a causa del buio non poté distinguere. Era partito da casa alle tre del pomeriggio e ora era notte fonda, si intuiva qua e là qualcosa solo grazie al riflesso della luna, non riusciva a stabilire con esattezza quanto tempo fosse passato. Con uno sforzo improvviso si tirò in piedi, barcollò per qualche istante ma resistette al dolore, facendo leva sulla gamba sinistra per rimanere in piedi. Fu una sensazione sgradevole sentirsi addosso gli abiti ancora inzuppati d’acqua e fango, ma ebbe come un moto d’entusiasmo al pensiero di essere vivo, e in buone condizioni. Riccardino voleva tanto fare questa gita sul fiume, ma sicuramente era qualche metro più in là, bisognava solo trovarlo, chissà a quale punto la corrente lo aveva adagiato sulla riva, impaurito, perché lui fa tanto il grand’uomo ma è solo un bambino pauroso, e poi sviene alla vista del sangue, se lo ricordava bene Lorenzo quando era finito per terra come una pera ai tempi della vaccinazione a scuola, l’anno prima. Ancora lo prendeva in giro, e forse era per questo che Riccardino provava il desiderio di misurarsi con imprese sempre più temerarie, senza curarsi dei rimproveri dei genitori né delle batoste che prendeva ogni volta. Doveva essere uno che aveva preso anche tante botte durante l’infanzia, non dai coetanei, perché era bello grosso, ma dai genitori sì, dal padre in particolare, un omaccione con i baffi a manubrio che faceva il caporeparto in un’azienda di scarpe. A Lorenzo quell’uomo non era mai piaciuto più di tanto. Non sapeva il perché, era una di quelle cose a pelle, che si sentono così, d’istinto, e Riccardino non ne parlava, si presentava ogni tanto a scuola con qualche livido, ma diceva di essere caduto, anche se quando aveva un occhio nero era difficile credergli, perché c’è occhio nero e occhio nero, e un conto è andare a sbattere contro uno spigolo e un conto è prendersi un pugno. Ma agli amici che non hanno voglia di raccontare i fatti propri si può solo stare vicini, fare quello che si può, assecondarli fino ad un certo punto, e comunque non cessare mai di dare la propria disponibilità, di battere colpo quando si capisce che ce n’è bisogno. Era arrivato a questa conclusione Lorenzo, dopo dodici anni sotto il sole di Dio. E decise di andare a prendere Riccardino, nonostante i dolori e nonostante l’infreddatura che piano piano gli montava dal petto. Muoveva passi stentati in quella frescura densa che pare quasi di poter toccare: era una di quelle notti in cui l’aria non è proprio nera, ma quasi tende al blu, e ci si sente rassicurati, perché si sa che da qualche parte c’è la luce, e dove c’è luce c’è magari un po’ di speranza. Mica è detto, però è bello pensarlo. Ragionava così Lorenzo, che spostava il proprio scheletrino contuso un passo dopo l’altro seguendo la corrente del fiume, fermandosi di tanto in tanto per far fiatare quella caviglia che ogni tanto mandava una fitta più forte delle altre e che sembrava sempre più un pallone ad ogni passo.
La prima volta che Lorenzo e Riccardino si erano incontrati era stato alle elementari, in prima elementare, quando, per una serie di concause, si erano trovati compagni di banco, e c’era quella maestra, Rebecca, che vestiva sempre di nero perché dicevano che fosse in lutto per il marito e stava assente in continuazione, non si sapeva bene per quale motivo. Riccardo Mainardi era stato il primo amico di Lorenzo, anche se avevano litigato, magari qualche volta di troppo, ora aveva solo voglia di abbracciarlo e dirgli che solo con lui riusciva a vivere certe avventure che gli altri neanche si sognavano, e che lo perdonava per tutto, perché non c’era niente da perdonare, nemmeno la lavata di capo che Lorenzo si sarebbe preso da sua madre, neanche le botte prese durante questo strano naufragio. La loro prima avventura era stata bigiare la scuola in quinta elementare, dicevano proprio così, bigiare, ed era una parola che suonava proibita e splendida sulle bocche degli scolari che ancora smaliziati non erano, ma che presto sarebbero stati; si erano messi d’accordo per settimane, poi un mattino erano svicolati insieme fuori dall’atrio della scuola, avendo cura che né le maestre né il bidello li avessero adocchiati. Non che poi avessero fatto grandi cose: una passeggiata al parco, una puntata ad un matinèe del cinema (a quell’epoca si usava ancora, e il cinema era un po’ il porto franco dei piccoli furfanti, dei masturbatori incalliti, degli amanti e degli studenti svogliati, che tutti insieme formavano una grande famiglia peccaminosa, perché c’era come il tacito accordo che nessuno avrebbe detto niente dell’altro, e tutti avrebbero campato in pace) per vedere Maciste che affrontava qualche temibile avversario pelato e con i baffi. Ed erano stati bravi, perché nessuno li aveva scovati, forse solo la signora Gianna, la lattaia, una brava signora popputa e biondiccia, che però non aveva fatto la spia con nessuno. Mi senti, Riccardino? Lo facciamo ancora, anche se adesso siamo alle medie, mi senti? Lo facciamo ancora! Provò ad urlare, pensava che magari Riccardino se ne stesse solo rintanato per paura di prenderle, era coriaceo, avrebbe resistito giorni nelle brughiera prima di cedere e prendere una manica di botte dai suoi.
A volte Lorenzo ringraziava di non avere un padre. Non sempre, a volte, soprattutto quando era più piccolo, lo avrebbe tanto desiderato, ma da diverso tempo non lo desiderava più così tanto. Aveva provato a parlarne a sua madre, ma questa gli diceva che certe cose non doveva nemmeno pensarle, e così Lorenzo se le teneva per sé, perché i pensieri non si possono comandare né tantomeno tenere al proprio posto, ci sono e basta, giusti e sbagliati, e ad un certo punto tanto vale non dirli. Pensava che se avesse avuto un padre avrebbe preso anche lui i pugni che subiva Riccardino, e si sentiva in colpa per questo, perché sentiva che non era giusto: le piccole bravate che commettevano li vedevano complici in egual misura, non ci sarebbe stato motivo per cui le punizioni dovessero essere diverse. Eppure era così. Lorenzo riceveva spesso della lavate di capo da sua madre, e spesso anche prendeva degli scappellotti, ma erano le sberle di una donna, non i cazzotti di un uomo, c’era una bella differenza. E poi pensava che c’era modo e modo di picchiare, c’era un modo da genitore e poi ce n’era uno rabbioso, quello che lascia i segni addosso, gli occhi pesti e tutto il resto.
Lorenzo si spostò dalla riva del fiume. Il terreno cominciava ad essere troppo fangoso e si vedeva ormai affondare nel pantano fino ai malleoli. Si appoggiò al tronco di un solido faggio e riprese fiato. Non sapeva da quanto stesse camminando, ma aveva la sensazione di non aver fatto poi molta strada, certo per colpa di quella dannata caviglia che pulsava e rimbombava come se stesse per scoppiare, e anche per quelle fitte alla testa, quelle proprio non gli davano tregua e si ripresentavano ad intervalli regolari. Ma almeno non perdeva sangue. Toccò con la mano destra la ferita alla tempia e sentì che il sangue si era coagulato attorno al taglio, si era come raggrumato ed era solido al tatto. Un’altra volta si era procurato una ferita del genere. Era caduto dalla bicicletta mentre correva in uno dei sentieri attorno al lago: una radice in mezzo al passaggio che non aveva visto e poi il volo. Anche quella volta era caduto di testa, e si era procurato un taglio alla base della fronte, come se qualcuno avesse cercato di fargli lo scalpo. Ecco, quella fu una delle poche volte in cui rimpianse di non avere un padre. Lo soccorse il padre di un suo amico, Marcello, che tutti pensavano fosse mezzo scemo visto che faceva fatica ad articolare le frasi, e invece si scoprì solo tempo dopo che era soltanto balbuziente. Quella volta si era fatto davvero male, ed era piccolo, aveva sì e no sei o sette anni, ma se la ricordava molto bene.
Lorenzo non aveva mai conosciuto il suo di genitore. Sapeva qualche aneddoto dalla madre, tutto qui. Sapeva che si chiamava Graziano e che era un bell’uomo (e questo lo aveva visto dalla foto di lui e mamma abbracciati, quella foto nella cornice d’ottone che stava sul comodino, in camera da letto). Elvira, sua madre, gli aveva detto che era morto prima che lui nascesse, in guerra, sulle Dolomiti, e che per questo era un eroe. Lorenzo non sapeva se sentirsi orgoglioso o no di suo padre. Non lo sapeva perché non lo aveva mai conosciuto e non riusciva ad immaginarsi come fosse; dalla foto pareva un uomo buono, con i capelli corti a spazzola e dei baffetti ben curati. Era sorridente, ma quasi tutti sono sorridenti quando fanno una fotografia, e, se la foto è in posa, cercano di mettersi meglio che possono, di lasciare in evidenza il profilo migliore, di darsi una pettinata. Una fotografia vecchia e sbiadita era troppo poco per dire se avrebbe potuto essere bello avere Graziano come padre. Senza contare che non conosceva la voce di Graziano, e la voce è fondamentale per capire se un uomo è buono o no. E questo, si rendeva conto benissimo, era uno di quei pensieri da non dire. Prima di tutto perché mamma ci sarebbe rimasta male, e poi perché non si esprimono giudizi su chi non c’è più, ed Elvira gli diceva sempre che i morti vanno lasciati in pace, non si deve dire più niente.
Riprese a camminare anche se cominciava ad avere fame. Sentiva una morsa allo stomaco, non mangiava da chissà quanto, e con la scusa della gita sul fiume aveva mangiato poco anche al suo ultimo pasto. Invidiava un poco Riccardino, che sembrava mangiare così poco ma che per chissà quale ragione aveva quel corpo così forte e nerboruto, a tal punto che Elvira mormorava sempre: “Si tratta di costituzione, è la costituzione.” Forse ad Elvira sarebbe piaciuto avere un figlio come Riccardino, non al posto di Lorenzo, ma in aggiunta, come se fossero fratelli, ma le cose si erano evolute in modo diverso, anche se questi due ragazzini in fondo erano come fratelli, e nel fondo di ogni loro comportamento reciproco si sentivano tali. Con le litigate, anche. Era normale tra fratelli.
Lorenzo provò un brivido lungo e profondo, ma non causato da un freddo che viene da fuori; era già giugno inoltrato, non poteva fare freddo. Era un brivido che montava dal di dentro, era il principio di un attacco febbrile, di quelli che prendono all’improvviso e se ne vanno in un paio di giorni. A Lorenzo almeno duravano un paio di giorni di solito. Solo che quello era proprio il momento sbagliato. Era perché era rimasto bagnato, ne era certo, e poi per le ferite, forse qualche piccola infezione, pensò. Era così difficile dire che cosa fosse vero e che cosa non lo fosse in quel buio, con il fiume che si intuiva appena attraverso i guizzi pallidi illuminati qua e là da un raggio lunare. Vedeva anche delle cose muoversi innanzi a lui nella penombra, era convinto che fossero topi, non scoiattoli, perché gli scoiattoli non ce li vedeva così prossimi all’acqua. I topi invece sono furbi e cattivi, specie se pantegane, di quelle bisognava addirittura avere paura. Si ricordava di averne vista una due anni prima, quando era andato a pescare con lo zio Luigi: grossa, di colore marrone, stava ritta sulle zampe posteriori e aveva gli occhi iniettati di sangue, era come se stesse per decidere il momento più adatto per aggredirlo. Poi per fortuna era arrivato lo zio Luigi, con Nimbus, il suo pastore tedesco, e quella bestiaccia si era data alla fuga. Lo zio gli aveva spiegato che delle pantegane qualche volta hanno paura anche i cani. Non sempre i cani sono coraggiosi. Ma Nimbus era un animale eccezionale, di quello doveva avere paura anche la pantegana, perché quando doveva aggredire qualcuno era spietato, per davvero, era forte, muscoloso e non aveva paura di niente. Zio Luigi se lo portava anche per dare la caccia ai cinghiali e si sa quanto siano pericolosi i cinghiali, anche Nimbus lo sapeva, ma attaccava lo stesso, e qui stava il suo grande coraggio. Lorenzo pensava che nella situazione in cui si trovava Nimbus gli avrebbe fatto comodo di sicuro, e con il fiuto che si ritrovava lo avrebbe portato nella giusta direzione in quattro e quattr’otto.
Trovò un nuovo tronco a cui appoggiarsi. Era esausto. Non voleva cedere, ma sapeva di essere arrivato al capolinea delle proprie forze. E di Riccardino ancora nessuna traccia. Non riusciva a trovare una soluzione, gli venne per un istante da piangere, ma resistette, voleva essere all’altezza di Nimbus, che si era rivelato fin da cucciolo così impavido. Poi una luce davanti a lui, e delle voci, qualcuno che lo chiamava; per un momento gli si raggelò il sangue, era quasi dispiaciuto che lo avessero trovato, e che l’avventura fosse ormai giunta al termine. Per un istante provò un certo orgoglio, per essere ancora in vita e in uno stato decente, poi però un morso d’angoscia lo assalì al pensiero della ramanzina che lo attendeva. Era certo a quel punto che Riccardino fosse già assieme ai soccorritori e che magari gli avesse già addossato tutta la colpa della bravata. Sì, sarebbe degna di lui questa mascalzonata, pensò.
Gli si fecero incontro due carabinieri, uno alto e magro e l’altro basso e mingherlino, entrambi giovani; assieme a loro c’era il vecchio Nino, un pastore che teneva le sue greggi nella zona del fiume e che sbraitava ogni volta che qualche ragazzino tirava alle pecore qualche puntina con la cerbottana. “E Riccardino?” fu la prima cosa che chiese Lorenzo. I due carabinieri non risposero, gli chiedevano solamente se stava bene e che adesso lo avrebbero riportato a casa. E nemmeno il pastore diceva qualcosa: stava immobile sul retro della camionetta con la pipa in bocca e le braccia conserte, mentre il suo cane, un bastardino senza arte né parte, gli vagolava tra le gambe.
C’era una calma che pareva irreale. Si fermò un attimo per guardarsi attorno e notò che c’erano anche altri carabinieri nella zona. Avevano tutti delle torce in mano e stavano armeggiando in un punto a ridosso della riva del fiume. Provò ad avvicinarsi, ma subito un tizio in camice bianco, forse un medico, lo prese per un braccio e fece per allontanarlo, senza spiegazioni. Fu allora che notò una massa scura che usciva per metà dall’acqua, come se fosse stato un fagotto abbandonato che giaceva per metà in acqua e per metà sulla terra ferma. Era un’ansa, un’ansa che fino a poco tempo prima era un’ansa come tutte le altre, a meno di cinquanta metri dal tronco a cui Lorenzo si era appoggiato per l’ultima volta prima che lo ritrovassero.
Le torce tracciavano fasci di luce nell’oscurità, era un effetto irreale e inquietante. Lorenzo trascorse alcuni secondi senza pensare a niente, nel più totale isolamento. Si figurava davanti agli occhi immagini dell’amico, mentre correva, mentre nuotava, cose così, e tutto per un istante assunse contorni sereni, rassicuranti, quasi che tutti quei fasci di luce, quell’angoscia e quella solitudine potessero essere sopportati.
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