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una testa di maiale
Antonio non notò subito la nuova coppia che era venuta a stare di fronte a casa sua. I lavori per l’edificazione di quella casa erano durati a lungo: quasi non aveva senso per lui che qualcuno alla fine dovesse proprio andarvi ad abitare.
Il suo paese era un borgo fatto di dieci case.
Si accorse dei nuovi coniugi una mattina. Era chino sulla scrivania: aveva saltato scuola, ora stava recuperando con dedizione. Fuori era aprile: nevicava.
Di fronte a sé, stava guardando due figure nude rincorrersi per casa. Tenevano le finestre aperte: sembravano felici. Non erano giovani. Lei era molto bella. Lui incespicava dappertutto. Antonio sapeva già il necessario riguardo al sesso: aveva dieci anni, era cresciuto. Rimase in attesa che arrivassero al dunque. Era convinto che finissero col fare all’amore sul prato davanti casa.
Tutti erano al lavoro, nei campi: nessuno avrebbe notato quella piccola infrazione dell’ordine.
Andò in cucina, prese l’agenda nera che stava sotto il telefono: era vuota. Sempre con un occhio rivolto al cortile di fronte, annotò su di una pagina a righe regolari il giorno e l’ora di quello che aveva appena visto. Scrisse anche gli anni che dovevano avere quei due: l’età dei suoi genitori, più o meno.
Fu così che cominciò ad annotare pezzi di vita altrui sulla sua agenda. Era un semplice gioco: gli faceva scoprire nuovi aspetti della realtà, lo faceva sentire nuovo, in quel posto.
Per aiutarsi, andava a casa dello zio, a consultare i suoi libri: erano la biblioteca del paese. C’era molto di più di quanto gli servisse, lì dentro: ad Antonio non dispiacque, aveva dieci anni, e la possibilità di avere il tempo per raccontare le storie di tutti, con ordinata fantasia.
Si rinchiudeva per ore, in quella casa: la scuola era finita, l’estate picchiava forte sui muri delle case, sgretolando gli intonaci. Non riusciva a capire bene se l’afa fosse più fuori, o lì dentro: sudava, piccole gocce cadevano dal collo e si schiantavano sulle pagine perfettamente conservate.
Quando usciva da quelle stanze, si guardava intorno. Riconosceva ad occhi chiusi ogni cosa: quando era stata costruita la chiesa, con quali pietre. Dopo la guerra, lo sapeva, fu interamente ricostruita con lo stesso tipo di pietra: era stata distrutta, ma con pazienza furono raccolti i pezzi vecchi che rimanevano, e se ne cercarono di nuovi identici, o che per lo meno vi assomigliassero.
Lo zio Gianni lo portava ogni tanto al vecchio cinema. Davano solo film western. Per l’occasione, Antonio indossava la maglietta che sua madre aveva fatto per lui: era bianca, con un bel dipinto a tinte ocra e verde ruggine sopra. Il dipinto lo aveva fatto sua madre, con le proprie mani: davanti, c’erano degli uomini a cavallo in un deserto, una tipica scena western, insomma. Dietro c’era, appena abbozzata, la figura di un buddah appeso alla parete. Raffigurava due famosi film, di Peckinpah e di Schroeder, così gli avevano spiegato: non ne riusciva a ricordare i titoli.
Ad Antonio piacevano, i western: aveva chiamato il suo cane Sam, era un nome che ricorreva, in quel tipo di film.
Si era anche preso un cappellaccio da cowboy, per farsi notare dai suoi nuovi vicini. Non andavano mai al cinema, loro.
Il cinema era ospitato in quella che era la casa più vecchia del paese. Aveva scoperto che era stata abitata per primo da un suo antico avo il quale, risalito il fiume alla ricerca di un insediamento migliore per il poco gregge rimastogli, si era riparato dalla pioggia fra quelle mura diroccate. Non sapeva da chi fosse stata costruita. Quella casa era poi col tempo passata nelle mani di suo nonno. Lui l’aveva regalata al paese appena finita la guerra, ed aveva tirato su una casa più grande sull’estremità alta della via, con i profitti degli affari conclusi giù in città.
Antonio abitava là: i suoi nonni già erano morti, ma nonostante questo la casa per i suoi genitori era stretta.
Li aveva sentiti, un giorno, per telefono: mamma era via, in uno dei suoi soliti viaggi. Mamma era un’artista: esponeva le sue opere, allora era costretta a stare fuori di casa, delle volte. Ultimamente ci stava spesso, in giro: si vede che finalmente stava riscuotendo il meritato successo.
Tiziana stava rivendicando i suoi spazi. Le avevano sempre negato quelle opportunità che le avrebbero dovuto, almeno come possibilità. Enrico stava ad ascoltare: guardava fisso il filo del telefono cingergli la mano. Ogni tanto allontanava la cornetta dall’orecchio, e buttava indietro la testa, facendo cantare le giunture del collo. Poi disse, calmo:
“È tornato Ettore, lo sai?”
La voce femminile dall’altra parte, dimenticandosi di parlare al telefono, rispose, alta e gentile, in modo che veramente tutti la potessero sentire:
“Me ne vado”.
Enrico sbatté la cornetta sul muro, e la lasciò cadere inerte sul pavimento. Il cane si mise timidamente ad abbaiare.
“Vieni, Sam”, lo chiamò piano Antonio, per non farsi sentire, “non sono affari tuoi”.
“E neanche miei”.
Da quando sua madre se ne era andata definitivamente, la scuola era appena ricominciata, Antonio non notò cambiamenti significativi in suo padre. Tutte le cose di lei stavano ancora lì intorno.
Andava ancora al lavoro fischiettando le sue solite canzoncine country. Lo chiamavano ancora il bel vaccaro. Aveva la miglior stalla del circondario, e avrebbe avuto anche la miglior porcilaia, se l’avesse tenuta: l’aveva ereditata da suo padre. Ora al suo posto vi stavano le cave per l’estrazione del marmo: con quello avevano costruito la nuova casa di Ettore, proprio di fronte alla sua.
Enrico aveva notato di sfuggita la compagna di Ettore. Lei si era presentata, molto composta, e si era offerta di riparare il loro steccato: allora c’era ancora Tiziana in casa. Aveva detto di essere figlia di un falegname: era proprio ridotto male, quello steccato. Enrico aveva sorriso, in direzione della sua casa, poi era salito sul trattore, fischiettando allegro un motivo country: ne conosceva a bizzeffe.
Allontanandosi, sentiva lo sguardo di lei posarsi piano su di lui. Tutte lo amavano, in qualche modo. Soprattutto le mucche.
Ogni venerdì suo padre passava al bar, a riscuotere le vincite delle corse ai cavalli che si tenevano in città: come il nonno. Ad Antonio mica lo aveva detto, suo padre, che giocasse: per questo ogni venerdì era lì al tavolo con lui.
Uno di quei giorni però Enrico lo sapeva: non sarebbero stati soli. Era ottobre, le foglie erano già tutte cadute. Uno di quei giorni al tavolo di fianco sedeva un uomo: davanti a sé, un bicchiere di whisky. Tamburellava nervoso con le dita sul tavolo. Quando entrò Enrico si drizzò, e si mise a fissarlo, lo sguardo perso.
Fece per alzarsi, ma si fermò.
Enrico si rivolse al barista, ordinando un succo d’arancia per il figlio. Allora l’uomo si mosse verso di lui. Urtò contro il tavolino, facendolo traballare. Enrico si sporse, a prenderlo per il braccio.
“Ettore…” sussurrò.
“Grazie”, disse lui, secco, ”è una vita, che non ci vedo”.
Indicò Antonio, con un’esattezza inaudita.
“È mio figlio…”, disse Enrico, in modo che fosse chiaro.
Ettore scosse un poco la testa, a destra ed a sinistra, approvando con poca convinzione.
Antonio guardava Ettore negli occhi. Non riusciva a credere che i suoi occhi fossero veramente mirati a vuoto: cercava di sbattere gli occhi come facevano i suoi. Enrico in silenzio gli intimò di piantarla.
Lui alzò le spalle: tanto non lo avrebbe visto.
Antonio tornò a casa presto, in ottobre gli piaceva passare quelle vuote serate in veranda, ad annusare l’aria: le ricordavano sua nonna, quando l’unica cosa rimastale da fare era stare seduta, poi neanche più quello. Rovistando, aveva trovato nella cassa sotto la scrivania di suo padre una cosa strana: una testa di maiale, imbalsamata, con una freccia infilata fra i denti. L’aveva tolta dalla teca in cui era stata posta con cura. La freccia portava attaccato un bigliettino. Lo sfilò, e lesse ciò che c’era scritto.
Doveva essere una gara. Ciascuno ha dimostrato all’altro ciò di cui è capace veramente. Sono sicuro che mio figlio crescerà bene, con te. Di lei non mi preoccupo. Due frecce scoccate lo stesso momento, nella stessa direzione: quale delle due ha colpito, quale delle due ha centrato l’obiettivo sbagliato?
Non aveva capito cosa significasse, tutto quello. Si era affrettato a sotterrare la testa di maiale da qualche parte, in giardino.
Poi si mise ad aspettare, sulla sedia di legno, con lo sguardo rivolto al sentiero che conduceva alla stalla. Enrico sarebbe arrivato fra poco: non gli avrebbe chiesto di quella cosa, ormai era nascosta giù in giardino.
Vide un uomo avvicinarsi sul sentiero che portava a casa sua: in una mano teneva un bastone, con il quale tastava il terreno, nell’altra aveva un arco, ed una freccia. Era Ettore.
Se avesse potuto entrare nei suoi pensieri, Antonio avrebbe provato l’intima sicurezza di chi sa di essere il miglior arciere della zona. È come essere Robin Hood: oltre a sapere di essere il più bravo, sai anche di essere dalla parte giusta, in qualche modo. Camminava lento: aveva il minor tempo possibile per ciò che doveva fare. Attorno a sé, l’erba era come un tempo: tagliata male. Ogni tanto le fronde degli alberi gli fendevano gli occhi.
Il fieno gli bruciava gli occhi feriti, e gli grattava la pelle.
“Sei spettinato”, aveva detto lei, scostandogli molle i capelli dagli occhi. Lui aveva sorriso. Le aveva cinto i fianchi, senza accorgersene. Erano pieni, di una pienezza da donna incinta. Una voce li chiamava, instancabile, per tutta la collina.
Lui la salutò, definitivamente: quello che stava per affrontare sarebbe stato un lungo viaggio. Lei guidò le sue mani, sicure nel buio. Fecero l’amore, lì, nel fienile.
L’odore acre del fieno appena tagliato gli pungeva la pelle. Arrivò fin sotto la balaustra della veranda, salì i gradini. Poggiò il bastone per terra, e si piazzò eretto, a gambe larghe, davanti la porta della casa. Antonio non sapeva che fare: non riconosceva neanche di che legno fosse fatto quel bastone. Ettore voltò un poco il busto, disse:
“In casa da qualche parte dovrebbe ancora esserci una testa di maiale, con una freccia fra i denti. Cavagli la freccia, voglio che tu mi rilegga cosa scrissi su quel bigliettino”.
Antonio si morse il labbro. Entrò in casa, facendo finta di rovistare in giro. Gli veniva da piangere: aveva sotterrato tutto, insieme alla testa di maiale. Per recuperarla doveva passare davanti ad Ettore. Trovò la sua agenda: era colma di iscrizioni, che non dicevano nulla. Voleva scrivere qualcosa, ma lasciò la penna dove stava: ultimamente aveva avuto a che fare con troppe novità.
“Sai che c’è di nuovo?”, aveva detto Ettore cercando di guardare fisso davanti a sé. Le bende intorno agli occhi erano sporche, dovevano essere cambiate. Enrico non rispondeva, rassegnato.
“È tutta un po’ troppo una questione di prezzo, non vedi?”.
Enrico si rigirava fra le mani una freccia: aveva cercato di pulirla, sulla punta era in ogni modo rimasta una piccola chiazza colorata di sangue.
“La cosa buffa è che tu dipendi da quello che farò, più di quanto la mia perduta vista sia dipesa da quella freccia che tieni di nuovo fra le mani”.
“Dove andrai?”, chiese il più distrattamente possibile Enrico.
“Non troppo lontano, voglio stare comodo. E vorrei rivedere prima o poi Antonio. Sapere se è veramente mio figlio”.
“Non per sapere questo facemmo quella stupida gara”, disse acido Enrico. Stava per dire qualcosa di saggio sulla loro porcilaia appena svenduta a quattro aguzzini. Non gli vennero parole adatte.
Ettore si trattenne.
“Vai, che stanno per cominciare le corse dei cavalli. I tuoi amici ti aspettano”.
Poi proruppe in una fragorosa risata. La vallata si riempì della sua eco. Nel raccogliere la testa lasciata lì a terra, Enrico sentì che la pelle morta del maiale tremava. Le urla lontane della città si fecero deboli.
“La freccia!”, urlò qualcuno dal di fuori.
Antonio tornò in silenzio sulla sedia a dondolo. Fece scricchiolare le assi bianche. Fissava per terra: un chiodo era piantato storto, faceva tenerezza, così raggrinzito.
“Il bigliettino…”, si lamentò Ettore. Sam si lamentò anche lui.
“Papà!”, esclamò allora Antonio, scattando in piedi. Ettore ebbe un sussulto, poi si calmò: era ancora lontano. Si sistemò, tese un braccio, con l’altro tirò la corda dell’arco, tenendo ben ferma la freccia. Enrico vide Ettore, non lo riconobbe subito: non era troppo sorpreso. Ettore rinunciò alla fatica di immaginarsi la sua faccia. Sarebbe apparso bello come sempre. Enrico si fermò. La freccia era partita.
Sam era sceso in giardino, per la sua solita pigra scampagnata. Aveva fiutato insistentemente sotto un cespuglio, e cominciato a scavare. Sentiva odore di carne.
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