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LINDSAY NON PIANGEVA MAI
Lindsay imparò presto a fuggir dalla nostalgia offertale dalla realtà quotidiana, rifugiandosi nelle sue più intime e fragili favole solitarie.
“Non parlare questa sera”, mi sussurrava posandomi dolcemente l’indice sulle labbra ogniqualvolta sentiva il bisogno di solitudine, laddove la mia presenza pareva turbarla, confonderla.
Accarezzava i suoi cioccolatini preferiti chiedendosi se ogni mia movenza fosse reale o meno.
Gustavamo del buon assenzio in compagnia dei ricordi; lei fece da sempre sue le opinioni di vita di Borget.
Provocava tenerezza ed un’insolita irresistibile eccitazione la sua triste semplicità; mi faceva ridere! Mi piaceva ridere delle disgrazie, altrui e personali.
Una volta ricordo risi in faccia a mia cugina Noemi allorché suo marito, operaio edile, morì sul cantiere.
Le chiamano morti bianche. Morì poco prima di Natale. Nevicava. Nevicava neve bianca, come la morte. Ciò mi fece ridere e allora risi!
Risi della bizzarra morte del marito di mia cugina Noemi del Natale classe 1983.
Si chiamava Gaddo.
Alcuni giorni più tardi scoprii parlò al telefono con Noemi, confidandole che quel pomeriggio, dopo il lavoro, si sarebbe recato in centro per comperarmi un regalo.
Non disse nulla nemmeno a lei sulla natura dello stesso.
Chissà cos’avrebbe voluto regalarmi?
A questo pensai il giorno del funerale, e quando pensai a questo risi meno.
Smisi di ridere. Piansi. E piansi ancora, e tanto, e ancora.
Anche Noemi pianse. Pianse tanto; pianse più di me, più di tutti, più di lei.
Lindsay invece non pianse… Lindsay non piangeva mai.
Lindsay si rifugiava nelle sue favole solitarie, ti posava dolcemente l’indice sulle labbra per paura delle parole, del silenzio generato dalle parole, dalle inutili parole.
Sognava il Principe Azzurro.
Come tutte, direte voi. Invece no! Lo sognava come solo Lindsay poteva sognare un principe azzurro; il suo Principe Azzurro.
Principe il quale conobbe a quel ballo titubante; l’orologio rintoccò dodici volte e lei doveva scappare, doveva correre lontano, doveva…
Perse la sua converse di cristallo azzurra, lui la recuperò e la inseguì a bordo della fidata Vespa Special color avorio: “Come potrebbe mai scordare la mia creta?”, pensava il Principe dai capelli color del sangue.
Creta. Si modellarono e si lasciarono modellare: si amarono, si amarono sempre e comunque. Si amarono ovunque essi fossero; si amarono sempre e comunque. E ovunque.
“Ti ho riportato la tua converse di cristallo”.
Dove sta la fregatura? Chiederete voi. Eccola, ribatto allora io.
Lui la tradiva; la tradiva sempre e comunque e ovunque. E Lindsay, povera Lindsay innamorata, scoprì, un pomeriggio a casa di Noemi, quei di lui segreti notandolo passare sullo sfondo di un vecchio filmato d’una gita di quest’ultima a Firenze.
Era in compagnia di Orietta.
Orietta l’amante, Orietta dagli occhi color del cielo, Orietta dai capelli color del fieno. Orietta la quale taceva ogniqualvolta prendeva il suo posto sotto quelle lenzuola, sul tavolo della cucina, nell’ascensore, sul tappeto del salotto, sulla fidata Vespa Special color avorio.
Orietta dalla bellezza irresistibile, Orietta per la quale i due si lasciarono: “È triste dividersi in Primavera”, pensò Lindsay quel pomeriggio vagando per il centro dell’indifferenza.
Poi una rondine. Forse un ritorno. Forse non solo Primavera.
“Non parlare questa sera”, disse posandomi dolcemente l’indice sulle labbra.
Moriremo, come tutti; uno di noi ricorderà e piangerà l’altro.
E poi il Principe Azzurro, Orietta, Noemi…
La resa dei conti si presenterà nell’ora fatale, cadrà dall’alto come la merda di piccione, e ciò sembrò bastar a Lindsay per non voler tornare.
E nell’epilogo divenni uno di quegli scomodi racconti, ai quali fatichi a donar finale.
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