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Beatrice
“…: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice”
DANTE ALIGHIERI
Se non recassi ancora un segno tangibile degli strani eventi da me vissuti in quel pomeriggio della mia adolescenza, ahimè ormai lontana e vagheggiata come dal naufrago sono gli usati luoghi e i suoi più cari affetti, crederei d’esser io vittima d’un di quei tranelli di cui tanto copiosamente il dio disseminò la vecchiezza umana, onde ridurre a saggezza e umiltà quel ch’erano la sfrontatezza e l’impeto della gioventù. So bene quanti e quali oltraggi del tempo sia costretto a patire, primi fra tutti quelli del mio corpo logoro e stremato, pronto a rassegnarsi al ciclo delle cose per rinascere in forme nuove e a me imprevedibili. Ma ancor di più conosco e patisco l’oltraggio dell’uomo e le beffe di quanti hanno ascoltato questa mia storia e m’hanno in conseguenza detto pazzo o mentecatto, bacato nelle mie facoltà mentali dal peso degli anni. Che la mia mente non sia più quella di una volta, lo riconosco e ne sono consapevole; la lama affilata ch’era il mio ingegno è ad oggi un coltello arrugginito e smussato nella punta. Ma quel po’ delle mie forze che ancora sopravvive in me monta in furore contro chiunque osi denigrare o mettere in dubbio il mio racconto. La vita ha saputo nutrire e rafforzare il mio spirito e certezze vieppiù nuove si sono sostituite alle precedenti, ma sarei disposto a dubitar di me stesso piuttosto che di quanto vidi e vissi in quel pomeriggio. Negherei il mondo e questa mia stessa mano che, tremolante, riporta incerta in lettere ciò che io penso e intendo scrivere, ma non negherei o sarei incerto di quei fatti. Ahimè, quanti, dinanzi a tanta risolutezza, ridono e si reggono lo stomaco, portati alla derisione e ad assecondarmi piuttosto che alla comprensione!
Ed io ne ricevo, così, uno dei più intensi dispiaceri della mia vecchiaia, già tanto sofferente e triste. Ho tuttavia risolto che, se è intenzione dei miei conoscenti non prestarmi fiducia; se è loro opinione ch’io sia pazzo per davvero; se è loro volontà internarmi a breve in qualche ospizio per folli; allora ho deciso di lasciare in queste pagine un resoconto di quelle ore, vive in me più del ricordo di mio padre e di mia madre.
Al tempo in cui m’inerpicavo lungo la fase ascendente della parabola della mia vita terrena, unica o prima tra le mie vite?, lontano dalla fase calante più di quanto fossi lontano dal culmine della stessa, vivevo in un piccolo e isolato villaggio nel nord della regione, in luoghi in cui la presenza umana era più che sopraffatta dagli ampi boschi che, digradando giù dai declivi, scorrevano fino a valle. Terre fredde e umide, ma belle, rigogliose, fertili e verdi come mai ne vidi nei miei viaggi, forti della bellezza dei ricordi d’infanzia e d’esser state scenario delle mie passioni giovanili. Qui, insieme a mia madre e a mio padre, unico figlio d’un tormentoso matrimonio conclusosi con la prematura morte di mio padre, avvenuta pochi anni prima dei fatti di cui intendo parlare, vissi la mia puerizia e la mia adolescenza, fino alle soglie del mio ventitreesimo anno d’età, allorché il venir meno di mia madre m’indusse a mutar domicilio.
Non definisco quegli anni felici (né riesco in sincerità a definir tali quelli che sono seguiti fino ad oggi), ma neanche tristi, giacché la tristezza, intesa come afflizione profonda e senza scampo, mi è sempre stata in qualche modo estranea. Sofferti è il termine più adatto, a parer mio, ed è come tali che intendo dichiararli. Sofferti in ragione d’un male, di cui la causa sfuggiva alle conoscenze mediche di allora, come sfugge a quelle di adesso, che, affliggendomi le corde vocali o non so qual altro organo preposto a modulare quelli che sono i fonemi che confluiscono nella parola e nella voce, m’impediva di parlare o, meglio, m’impediva di emettere suoni più chiari e netti d’un flebile rantolio strascicato. Per tutta l’infanzia soffrii di questo problema, che andò fortunatamente risolvendosi con l’ispessirsi delle mie corde vocali dovuto alla pubertà, ma che ancora oggi mi impedisce d’urlare a dovere. In quegli anni, ora infatti mi ci sono abituato, questa mia menomazione mi pareva insopportabile, per le complicanze che mi arrecava sul piano della vita di tutti i giorni. Non dirò delle discriminazioni da parte dei fanciulli, prima, e dei ragazzi, poi, miei coetanei: non faccio loro accuse, ben conoscendo la serena innocenza dei primi e avendo condiviso il cinismo dei secondi più d’una volta. Piuttosto, m’è duro ricordare quanto il mio male mi fosse d’intralcio in tante altre piccole cose, e in tante altre grandi cose. Mi sovviene, tra i tanti ricordi che associo a tutto ciò, un evento, a me noto più per gli apprensivi racconti che mia madre me ne ha fatti che per diretta memoria, allorché mi si ritrovò ferito e sanguinante, a causa d’un degli attrezzi di mio padre con cui m’era montato in testa di giocare, impedito di scappare perché da un ferro bloccato, impedito d’urlare perché dal mio morbo ammutolito. Il rischio che la mia bocca si chiudesse per sempre fu forte: impiegai dieci giorni a riprendermi, mi hanno detto, e fu per un pelo. Ben altro e più significativo fu il risvolto che il male ebbe sullo sviluppo della mia personalità. Impedito d’’esternare, com’ero, le mie emozioni, impressioni o paure per mezzo della voce, feci del pensiero la mia sola forma di comunicazione. E giacché il pensiero non si presta ad essere ascoltato da altri che dal pensatore stesso, subii un fortissimo ripiegamento in me e nei libri e nelle pagine che leggevo e scrivevo, grazie all’insegnamento d’uno zio prete che m’aveva fatto dono di quel po’ di conoscenza. Introverso più che palese nelle mie emozioni, solingo più che portato all’amicizia, autonomo più d’altri della mia età, silenzioso, per forza e per volontà, come nessuno in quel villaggio, rincorrevo, passeggiando nei boschi, i miei pensieri e i miei sogni. Questi, infatti, non mi mancavano, anzi. Quante dolci fanciulle del mio luogo natio li hanno lungamente popolati, elevate a muse d’amor passionale e poesia. Oh, credo che pochi nel villaggio amassero come me, sicché spesso ritenevo esserci più amore tra me e una creatura della mia fantasia idealizzante, che tra un giovane e una giovane, in carne e ossa, di quei luoghi. Spesse volte mi si accusò, da più parti, per il mio astrarmi dal mondo, ma la sopportazione degli insulti e dei rimproveri, che una forte dose di forza interiore mi rendeva semplice, mi permise di ammutolire tutti e ne fui lasciato in pace del tutto. Divenni sempre più poeta e spirito etereo, sublimante ogni piccola emozione, passeggiatore dei boschi e dei sentieri meno percorsi, come dei sentieri della mente meno conosciuti al mondo. A chi mi chiedeva se mi sentissi solo, sapevo fare intendere la mia autosufficienza, soprattutto alla luce del fatto che tanto il mio cuore s’era raffinato nei suoi gusti, che nulla di miseramente terreno avrebbe potuto saziarlo. Le mie donne recavano i nomi di Berenice, Eleonora e Luisa, ragazze del mio villaggio, che si trasformavano in Beatrice e Laura, creature della poesia a me ben note, grazie alle letture di Petrarca e Dante procuratemi da quel mio zio. Erano creature perfette, recanti in sé la mia impronta, più che quella del loro creatore. Solo una donna che non subisse questo processo idealizzante era in grado di tenermi ancorato a terra: mia madre, l’unica con la quale non avevo bisogno di parole, ma di sguardi. L’attaccamento verso di lei fu forte ed aumentò quando, alla morte di mio padre, divenne a tutti gli effetti l’ultimo appiglio che mi impedisse di volare nell’iperuranio dei poeti e dei sognatori alla ricerca della mia bella.
Una bella che, me ne convincevo, non poteva esistere affatto e che, pertanto, ancor di più mi ostinavo ad amare col pensiero. Passeggiavo insieme a lei, nella brezza del mattino o incontro al tramonto, sul calar della sera. La creavo, la crescevo, la costruivo giorno dopo giorno: la conoscevo e l’amavo. Non so in che misura sbagliassi allora; non so se quell’amore non era, a conti fatti, amore verso me stesso proiettato in quelle immagini di fanciulle. Ma non mi si accusi per questo: traevo più forza io da quelle immagini, che molti uomini dalle loro presunte gioie!
Eppure, sopraggiungendo i miei diciannove anni d’età, un nuovo spirito, fascinoso e crudele, stranamente ritardatario, si affacciò nella mia anima. Il corpo mi si svegliò come in un impeto di tempesta e una brama nuova, di passione carnale, più che di passione del cuore, mi prese. Trovai modi molteplici per saziare il mio corpo, bello e forte a quei tempi, quanto stomachevole a vedersi oggi. Non nascondo e non nego, a chi me ne accusi, giacché la cosa, con rammarico di mia madre, divenne di pubblico dominio nel villaggio, che spesse volte feci ricorso alla più piacente e gentile delle ragazze del villaggio. Erano, quelle, le sole occasioni in cui riuscissi a rapportarmi a qualcosa di materiale: gli ansiti di quei furenti amplessi pagati con i miei risparmi mi scuotevano il corpo senza imbarazzare il mio animo muto, perché dove parlava il corpo nei suoi orgasmi taceva il mio cuore. Febbricitante, d’una passione morbosa e insaziabile, per giorni interi cercavo questa bestiale possessione, come può farlo un animale sospinto dal conato dell’istinto, invocando le braccia di quella meretrice, creatura compassionevole dei miei desideri giovanili.
Eppure, la cosa non mi soddisfaceva appieno… Il mio spirito aveva bisogno di amore, non meno del corpo. Anzi, più di esso voleva cure e passioni. Così, quella pratica finì com’era cominciata, lasciandomi in ricordo il senso di colpa per aver tradito il mio primo essere e una sete nuova, non meno inestinguibile della precedente, che alla precedente si mesceva in velenoso calice. Ora, infatti, chiedevo agli angeli che mi accompagnavano per il bosco non solo amore spirituale, ma anche fisico! Nei miei amati e conosciuti boschi, ormai, non mi limitavo a camminare, assorto nei miei pensieri: correvo, volavo, piangevo, abbracciavo gli alberi, mi rotolavo a terra, ruggivo interiormente per i furenti fremiti del mio corpo teso nello slancio della possessione. Da fauno, mi ridussi insomma a satiro, speranzoso di adescare una ninfa alla quale fare violenza, per godere della sua bellezza sulla terra umida. Quale bisogno inconsulto, il mio: desiderare una donna che sembrasse venuta da cielo in terra a miracol mostrare a questi miei occhi, ma che pure ardesse delle voluttà dell’inferno!
I miei modi, ben presto, mi logorarono, mi infiacchirono, degradando le mie membra. Frenai, per bisogno e ingiunzione del medico, assiduo frequentatore della mia casa, questi miei impeti e rallentai le mie corse, senza riuscire a sopire in me la molla delle mie azioni.
Fu in questo snervante stato di cose che, ciò che mi accadde, accadde.
Fu un pomeriggio, caldo, afoso, in estate. Ero particolarmente contrariato quel giorno, giacché sentivo tornare a galla quel fremito che mi aveva condotto dalla puttana del villaggio, e temevo di precipitare nuovamente in quello stato di cose. Qualunque cosa mi capitasse sotto agli occhi mi induceva alla rabbia, alla stizza, alla furia. Non credo nessuno di voi sia stato completamente estraneo a simili giorni dalla luna storta; a me era storto l’universo intero.
A mezzogiorno, litigai con mia madre. Salii in collera per qualche sua parola sul mio modo di fare, sul mio non aver ancora messo testa a qualcosa di concreto; aveva ragione, ma io non glielo riconobbi. Sentii, in quel momento, rotto il nostro legame. Non riuscivo a comunicare con lei come al mio solito, ma mi sforzai di parlare. L’agitazione mi ridusse a un ridicolo gesticolare che mia madre tentò di placare amorevolmente. Ma io me ne vergognai e uscii di casa, in fretta e furia, lasciando mia madre come mai avevo osato fare. M’incamminai per i miei sentieri.
Vi dirò che, alle spalle di casa mia, si ergeva una collina più alte delle altre tutt’intorno. Mai avevo completamente percorso quell’altura, sebbene così vicina alla mia dimora, perché volgeva ad oriente e, per tanto, restava scarsamente illuminata, per il fianco rivolto verso casa, fino a mezzogiorno; ciò, in effetti, era scomodo, soprattutto in inverno. Non so come, forse nella furia del momento, mi ritrovai a percorrere proprio quella salita. Il sole, a picco sul villaggio, illuminava intensamente ogni cosa: tra gli incroci dei rami degli alberi, macchie di sole, alternate ad ombre, chiazzavano il mio cammino. Ero molto teso. M’ero sentito impotente e ridicolo, arrabbiato ma senza sfogo, desideroso di attaccare, ma senza artigli. Si aggiungeva a ciò un altro elemento frenante: era mia madre la causa di questa esplosione e, per qualche strana ragione, non solo non mi riusciva di attaccarla, ma ogni sentimento negativo che sviluppavo contro di lei, mi si ritorceva contro, portandomi alle lacrime. Fu, in effetti, piangendo, che percorsi la prima mezz’ora di cammino. Tra rami, tronchi, ed erbe, me la cavavo più che bene, così che potei avanzare per molto e senza problemi. Il tempo continuò a scorrere e con esso il suolo sotto i miei piedi. Rivolgendo lo sguardo a quei boschi che tante volte, almeno fino ad una certa altezza, avevo percorso, un po’ come si suole fare quando si rivisitano posti dell’infanzia, dove si è giocato con qualche amico, allorché all’amico si ripensa, non potei fare a meno di pensare alla mia compagna di strada. Il mio furore si calmò e, continuando a camminare, cominciai a pensare alla mia dolce amica. Dove fosse, le chiedevo; e perché mai s’ostinasse a tormentare il mio cuore nel suo non esistere; e perché mi sembrasse così vera; e perché proprio io l’amassi. I sospiri del mio animo furono, in quel mentre, tanti. Avrei volentieri ucciso dentro me quell’angelo. Io l’avevo creato, io l’avrei ucciso, mi dissi. Era l’unico modo che avessi per andare avanti. Se fossi rimasto intrappolato ancora in quell’incanto d’amore, non sarei sopravvissuto a me stesso. Ora che gli anni son passati, lo avverto con chiarezza, ma allora per la prima volta realizzavo un simile pensiero. Ripensavo a ciò che mia madre m’aveva detto: sul mio essere tormentato dagli spiriti della mia mente, della mia fantasia contorta; sul fatto ch’essi m’avrebbero solo dato tristezza. Cominciò a farsi strada, dentro di me, l’esigenza di farla finita; non con la mia vita, ma con Beatrice. L’avevo presa in prestito dal poeta; l’avevo fatta mia, io stesso poeta; ora ne divenivo l’uccisore.
I miei passi avevano continuato a salire su per il pendio. In un momento di maggior impeto di queste mie considerazioni, mi gettai a terra e sedetti, stanco, su una radice che sporgeva dal suolo. Mi guardai intorno. Stupii quando m’accorsi d’essere arrivato ad un punto della collina che, fino ad allora, mai avevo visitato. Era la vetta. Stupivo, non solo perché non me n’ero avvisto affatto, nel mio procedere, ma perché il luogo era sommamente incantevole e piacevole a vedersi. V’era in quel punto di bosco un’aura di diffuso chiarore, né troppo flebile perché non ci si vedesse, né troppo intenso da abbagliare. Il tripudio dei fiori, poi, e delle piante, mi indussero a pensare d’aver raggiunto un paradiso, o il Paradiso Terrestre, dove il padre Adamo e la madre Eva delle prime delizie conobbero il piacere. Un canto d’uccelli, tutt’intorno, acquietò i miei tormenti e mi convinsi d’aver trovato il luogo dove darmi pace. Passai alcuni minuti a godere di quelle bellezze, rimproverandomi solo di non aver mai raggiunto prima quella vetta, e di averlo solo fatto allora, dopo tanti brutti e tesi pensieri. Passeggiai, spensierato. Dimentico di tutti. Di mia madre, di me stesso. Di Beatrice. Ma lei era sempre con me.
Girai in lungo e in largo, rendendo grazie a quel riposante luogo. Mi sembrò, poi, d’udire dei rumori, come un fruscio e, stranamente, qualcuno ridere. Mi volsi curioso verso la direzione da dove mi sembrava giungere il suono. Era una risata allegra e felice, di quelle che solo un bambino può fare. Innocente e pura, acqua fresca e cristallina per le mie orecchie. Camminai, non poco. Mi parve poi esserci, unito a quella risata, un tramestio come frullare d’ali e scuotersi di fronde, più che altrove. Mi accorsi, alzando gli occhi, ch’erano uccelli di tante specie, lì riuniti a stormi e posati sui rami degli alberi. Oh, mi manca il cuore nel descrivere in quale paradisiaca atmosfera la vidi. La fanciulla: Beatrice.
Era seduta, graziosamente di bianco vestita, su di un ceppo vecchio, un trono sorto dalla terra a sorreggere il suo corpo. La veste, leggera e trasparente, era anche luminosa, più che di riflesso, ma di luce sua propria. Le braccia e i piedi, che dalla veste non erano coperti, erano delicati e chiari. Una pelle serica sembrava coprirli. Ella era appena chinata, leggermente volta su un fianco, verso un coniglio che, ai suoi piedi, si lasciava accarezzare senza timore. Un bionda cascata mi impediva di vederle il volto, che pure non tardò a manifestarsi ai miei occhi. Mentr’ella rideva, gioiosa a causa della presenza del coniglio, assisa sull’arboreo trono in mezzo a quel rigoglioso giardino, io m’avanzai appena, ma non tanto delicatamente da non far rumore. Il coniglio percepì prontamente il rumore e scappò via. Avrei voluto fermarlo, sapendo quale motivo di gioia veniva adesso meno alla fanciulla. Lei, resasi conto di ciò che aveva causato quella fuga, alzò gli occhi verso di me.
Non so quale forza mi resse in piedi. Quanta dolcezza sgorgava dai suoi occhi, quanta gioia e quanta bellezza! Mi sentii pronto a piangere, tanta commozione n’ebbi. Avrei chiesto a quegli occhi di portarmi con sé, di dare soddisfazione e pace a quel mio cuore; ma la vista della scollatura della veste e dell’angelico suo seno, mi conturbarono non meno di quella dei suoi occhi. Eccoti pensai mia bella Beatrice. Mio sogno impossibile, donna angelica e sensualmente terrena. Chiamami alle tue braccia, donami il tuo sorriso.
Ella mi guardava ancora e, notai, non smetteva di sorridere, anche verso di me. Mi fece cenno di raggiungerla; non mi feci ripetere l’invito.
Avvicinarla era una forte emozione: irradiava calore e serenità. Sentii d’amarla e d’averla già lungamente amata. Fui lontano da lei tre passi. Alzò leggermente lo sguardo verso di me e disse, con una voce così bella che sperai divenir sordo dopo averla udita, affinché mai le mie orecchie dovessero subire l’affronto d’una voce meno bella:
“Chi sei, tu che nascosto tra i rami contempli il mio corpo?”
Volli risponderle. Aprii la bocca. Ma una forte amarezza mi afferrò il cuore, ricordando di non poter parlare.
“Avanti, rispondimi. O hai perso la voce?” mi disse, quasi prendendosi gioco di me.
Il secondo invito m’indusse a sforzarmi ancora di più. Tentai:
“Sono colui che t’ama e t’amerò per sempre.” pensai. Ma in quel momento stesso io mi sentii. Era nuovo e strano per me, ma avevo parlato con chiarezza e senza dolori alla gola.
“ Ed io, che da te sono amata, cosa posso fare per te?” mi chiese lei. Sorrideva ancora, ed io sorridevo a lei.
Purché tu esista, pensai, non ti chiedo altro. Ma una forza che inutilmente tentavo da tempo di reprimere parlò in mia vece: “Sei tu..? Intendo: sei tu Beatrice, o creatura che felice mi sorride qui, in vetta al monte?”
“Mi conosci: io lo sono!”
“Amami!” le dissi.
“Amarti?”, sorrideva e non capiva.
“Amami, te lo ordino!”, le ingiunsi.
“Amarti?”, il suo sorriso s’era attenuato.
“Amami, te ne prego”, caddi in ginocchio davanti a lei.
“Amarti?”, non rideva più.
“Amami, ti supplico. Un solo bacio, nulla più”
“Intendi con un bacio placare le tue passioni?”
“Ben oltre t’amerei. Ti donerei me stesso. Lascia ch’io diventi questo tronco per reggerti per sempre. Fammi essere la terra che dovrà contenere il tuo corpo, o la veste che dovrà vestirlo.”
“Mi doneresti la vita, o colui che m’ama?”
“Lo dici, lo farei. Ma sei tu la mia vita, non ti donerei che te stessa.”
Mi guardò. I suoi occhi socchiusi. Non rideva più, l’ho detto, e me ne dispiacqui.
“Non hai chi t’ami laggiù?” Indicò la valle.
“Non chi io ami quanto te!”
“Eppure non mi conosci!”
“Eppure t’ho creata io stesso…”
“Credi? Chi sei? Sei forse un dio?”
“No, sono colui che t’ama!”
“Ami me o te?”
“Amo te!”
“Mi riconosci dunque a te estranea?”
“Estranea e parte della mia anima, ecco cosa sei.”
“L’amore che mi rechi: qual motivo ha?”
“Sei perfetta: non è forse abbastanza?”
“Lo credi? Credi nell’amore perfetto, nell’amata perfetta? Sei tu un perfetto amante?”
“Lo sono? Certo. Io t’amo più di me stesso.”
“Eppure chiedi a me d’amarti. Ma se è questo che vuoi prendimi qui, sotto questi alberi, tra queste piante. Baciami adesso.” Il suo volto era serio e determinato, ma non per questo meno bello.
Tesi il capo verso di lei, in ginocchio ancora. Vidi i suoi occhi farsi più grandi. Belli e intensi occhi di ghiaccio, vivi dei riflessi del sole e d’una loro interna luce. Chiusi i miei, e la baciai. Quel che sentii, in quel bacio, mio primo vero bacio d’amore, tante volte sognato, bramato, provato, m’è impossibile spiegarlo. Ero tuttavia appagato: non avevo altro motivo d’esistere perché ormai compiuto in me. Il cuore mi si allargò e lo spirito s’addolcì in quel lungo istante. Aprii gli occhi per guardarla, anima dolce e candida. Lei mi stava ancora innanzi. Eppure c’era qualcosa di diverso. Non vedevo più nei suoi occhi la luce, ma un freddo grigio di roccia arida; non sentivo più alcun calore, ma solo un gran freddo al cuore. Mi guardai intorno. Tremai. Tutto ciò che era il paradiso, era adesso desolato e marcio. Il terreno, tramutato in fango, accoglieva, sparsi, scheletri contorti in mille posizioni innaturali. Tutti, però, guardavano la mia Beatrice, animati da un fuoco d’amore simile al mio. Mi sentii afferrare il braccio, da una mano viscida e fredda. Mi volsi e vidi che la mia Beatrice era scomparsa, sostituita da un’altra, pallida, decaduta, sdentata. Ella non rideva, ghignava. La bionda cascata era divenuta arida stoppa, la sua pelle liscia cadeva raggrinzita, sottolineando le forme d’un orribile cranio.
Mi chiese: “Tu che m’ami, vuoi restare qui con me? In cima al monte, insieme a quanti m’ hanno amato. Vuoi tu morire al mondo come altri fecero per me? Vuoi tu finire come loro?” indicò gli scheletri d’intorno, che verso di lei allungavano le braccia, parlando con una voce profonda e in qualche modo multipla, come se più persone parlassero insieme. La pioggia, me ne accorsi, cadeva sulla scena, sostituitasi al sole di un attimo prima. Ebbi paura: era quella la mia fine? Potevo essere sicuro di voler morire d’amore?
Guardai gli scheletri scompostamente affondati nel fango: ne colsi la paura, la reverenza per quell’orrida regina dei perduti amanti, il dolore, la bramosia di colei che era stata causa della loro morte al mondo. Mi immaginai tra di loro e, dentro di me, guaii, come un cane bastonato.
“Tu che m’ami? Vuoi donarti a me stessa? Vuoi darti a me? Che la tua risposta riecheggi per questa tetra spianata!” Il concorso di voci era agghiacciante.
Ero chiamato in causa: dovevo decidere delle mie sorti. Il tribunale mi chiedeva di dichiararmi.
No, pensai, no. Non sia ch’io patisca questa sorte. Ma ora era diverso, la voce non usciva!
“Non odo la tua voce, uomo che m’ama! Vuoi tu essere tra quelli che disprezzarono il mondo pur d’amarmi? Che credettero d’avermi creata, loro, che altro non sono che miei schiavi?”
Sbarrai gli occhi e con forza tentai di svincolarmi dalla presa. Gli scheletri si avvicinavano sempre di più alla mia persona. Di lì a poco mi avrebbero catturato e costretto a onorare la loro regina. Gridai dentro di me: “NO!”
La voce venne fuori come d’impeto. Tirai il braccio indietro e l’artiglio del mostro mi straziò l’avambraccio.
“Io ti rifiuto, mostro, o chimera che tu sia! Torno al mio mondo; tu torna al tuo, spettro! Non possiederai questa vetta, come non avrai più il mio cuore!”
La mostruosa figura gridò, d’un grido agghiacciante e crudele. Gli scheletri d’intorno gridarono con essa, d’un grido di terrore. Come risucchiata nel nulla, la distesa di morte e fango fu aspirata da Beatrice, maledetta creatura, e in Beatrice tutto finì. Tutto si annebbiò davanti ai miei occhi, poi scomparve, lasciandosi dietro un fitto bosco bagnato dalla pioggia.
Mi ritrovai, sanguinante, senza poter gridare a causa del mio male. Mi alzai, sotto la pioggia torrenziale: chissà da quanto tempo pioveva, chissà per quanto tempo ero stato in quell’incubo! Pensai a mia madre, in pena per me di certo. Corsi verso la valle; corsi con tutte le mie forze. Rotolai più volte e mangiai fango nella discesa. Infine, fui a casa e, trovatavi mia madre, le corsi in grembo. Lei gridò per il mio braccio insanguinato. Io piansi senza rumore, di sole lacrime.
Non le raccontai cosa mi fosse accaduto. Non quel giorno, non in quelli seguenti. Mi attardai, la feci morire, quattro anni dopo, ma non lo seppe. Ma qualcuno deve capire come ho ricominciato a vivere al mondo. Ecco perché mi racconto a chi non mi crede e a chi leggerà queste carte. Credo di non essermi mai aperto così tanto.
Ora, mentre guardo la profonda cicatrice che mi segna l’avambraccio, rabbrividisco. Eppure, dovrei ringraziare quell’evento: mi ha salvato. Da me stesso, dai miei sogni. Mi ha ricollocato in questo mondo, il più perfetto che mi sia concesso di conoscere. Troppi hanno desiderato la morte e l’hanno avuta a causa di Beatrice. Io l’avevo rifiutata.
Quanto ho scritto, avrei dovuto dirlo almeno a mia moglie, mia Beatrice buona e vera, che già m’ha preceduto nel ritorno al Tutto, o in un altro mondo. Forse ci attende un paradiso? Chissà. Se è così, prego di rivederla proprio lì. In un paradiso, da qualche parte, sulla vetta del monte più alto del mondo…
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- Grazie per l'attenzione, Emiliano.
Mi rendo conto che cinque pagine possono spaventare. Anche io ho bisogno di prendermi il mio tempo quando decido di leggere un racconto più lungo di due facciate.
Scrissi questo racconto in quarto liceo, in un pomeriggio di pioggia ( e di pioggia ce n'è tanta nel racconto...), in un periodo in cui ero molto suggestionato dalla lettura di alcune opere di E. A. Poe. Se lo hai bazzicato, e credo di si, credo che capirai a cosa mi riferisco dicendo che il mio stile risentiva molto del suo. Non intendo paragonarmi alla sua qualità, ma i fronzoli che esasperano questo racconto sono in gran parte frutto della lettura delle sue opere. A ogni modo, questo racconto è stato fortemente voluto in questo modo. Non è uno sfoggio di parole difficili, ma un tentativo di emulazione (in parte incosciente) che feci a quei tempi.
Il tuo consiglio è apprezzabile e condivisibile, ma temo che non me lo vedrai mai applicare nello stile... Grazie ancora. A rileggerci.
- Mi sarebbe piaciuto sapere di più in materia per poterti criticare costruttivamente, in modo che saresti potuto migliorare in qualcosa, l'unico consiglio che mi sento di darti è una frase di bruce lee: "ogni giorno qualcosa di meno, fino a ridurti all'essenziale" (io lo applico anche nella vita). Cerca di eliminare tutte le superficialità affinchè rimanga lo stretto necessario per poter emozionare i tuoi lettori. Questo è un consiglio

- Nooooo!! Ti avevo scritto un commento lunghissimo e non me lo ha "pubblicato"! Vabbè comunque penso di sapere perchè hai dei commenti a tutte le opere tranne che a questa: 5. Si perchè hai scritto 5 lunghe pagine
... Ho notato subito il tuo "stile" e le parole "cercate" che hai usato. Ho notato anche che hai molto più talento di me e ne sai di più sulla scrittura e la narrazione. Mi sono piaciute anche alcune tue poesie. Non mi sento in grado di "criticarti" sul piano "tecnico" perchè ne so poco o niente, quello che conta per me è l'emozione che viene trasmessa, anche da una singola frase. Hai ragione sul fatto che io a volte "comprimo" il tutto in poche righe, sbagliando... ma quando scrivo devo finire tutto velocemente, quasi come se dovessi battermi con il mio avversario (pratico kickboxing) per stenderlo il più velocemente possibile, senza stare li a perdere tempo, per poi finire l'incontro (da sconfitto o vittorioso) con una sensazione di leggerezza. Buona fortuna per le tue future opere e saluti.

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