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Una tartaruga sul parquet
Erano le nove di sera, sera d’inverno dal freddo pungente. Malinconica periferia di una malinconica cittadina dei gloriosi Statiunitid’america. 2000 anni prima il Cristo s’era arreso su una croce. 800 anni prima uomini valorosi s’erano coperti di gloria in Terra Santa. 30 anni prima qualcuno aveva scattato fotografie sulla luna. Questo era il passato, e non aveva poi molta importanza. Quello che mi importava era il presente. In quel preciso momento, durante l’inarrestabile trascorrere dei secondi, avevo nell’ordine freddo-fame-sonno e sete. In tasca 12 dollari e 47 cents. C’era al mondo chi aveva di meno, ma questo non bastava a rincuorarmi. C’era anche chi aveva giacche di pelliccia e bottiglie di whiskey da 20 dollari e buoni pasto e letti rifatti a puntino e pantofole imbottite e auto col riscaldamento centralizzato e frigoriferi simili a piccoli supermercati ben forniti. Erano uomini vicini alla linea della felicità, o se non altro parecchio distanti da quella della miseria. Uomini che andavano in giro a testa alta, senza che la strada ridesse di loro, senza che la terra avesse la certezza di ricoprirli da un momento all’altro. Forse nessuno di loro avrebbe vinto il concorso di Mister Muscolo o un viaggio alle Hawaii, nessuno sarebbe diventato presidente degli States o premio nobel per la letteratura. Nessuno avrebbe vinto tre SuperBowl. Forse molti di loro avevano dentro vuoti abissali. Ma fuori erano pieni, pieni di oggetti e cose che migliorano la vita. L’inghippo era quello. Camminavano per la strada, tutti (o quasi) avevano due gambe due braccia una testa due occhi e due orecchie. A me sembravano diversi. Altra specie, altra razza. Altri animali, tutto lì. Avevano le loro tane per combattere la notte, e non era poco. Camminavo senza sapere dove andare. Gesù, un’altra notte al freddo, caffè e biscotti sullo stomaco. Il mattino dopo avrei sorriso al sole, 12 ore di tregua prima di una nuova battaglia. Fino a quando? Camminavo, stanco. Ero solo. L’uomo ha bisogno di compagnia. Non importa convivere, voler bene, neppure parlare. Ma la solitudine totale ubriaca il cervello. Mi sedetti infreddolito sui gradini di una vecchia chiesa, e abbracciai me stesso. Sentii delle voci provenire da dentro, e decisi di entrare. Un prete, poche donne vestite di nero, qualche bambino simile a un angelo. La funzione era in corso. Mi accomodai sulla prima panca che trovai libera, il caldo della chiesa mi fece rinascere. Le candele ballavano in un angolo. Il prete finì il sermone, le donne scossero la testa, come rassegnate. I bambini sbadigliarono. Io non mi mossi. Un DIO. Doveva esserci, per forza. Ok Dio, sono qua, nella tua casa. Stringiamoci la mano e diamoci un’altra possibilità. Verrò qua tutte le sere e ti ringrazierò, ti farò pubblicità agli angoli delle strade. Tu farai qualcosa per me. La colpa è anche tua se sono in questo pasticcio. La funzione finì, il prete ricordò gli appuntamenti. Le donnette uscirono in silenziosa processione, gli angioletti pensarono sorridenti alla settimana di libertà e riappervero come bambini. Io restai fermo, in silenzio, assorto nel mio dialogo con Dio, a gustarmi il caldo della chiesa. Dopo qualche minuto il prete, smessa la tonaca, mi si parò davanti.
-Devo chiudere figliolo-
-Sto pregando padre-
-Torna pure domattina-
Mi ritrovai di nuovo al freddo, il caldo della chiesa e l’odore delle candele se ne andarono sconfitti dall’aria gelida. Anche Dio aveva un orario. Anche lui aveva da fare, lassù, al calduccio del suo paradiso. Mi sedetti sul cofano di un auto. C’erano talmente tante cose che avrei voluto in quel preciso momento che fare una lista mentale mi sembrava un ostacolo insormontabile. Ci provai: un tetto, un caminetto acceso, un disco di janis joplin, un antidolorifico in compresse, una tartaruga sul parquet, uno stuzzicadenti, un hamburger col bacon, una birra, un libro di Prevert, un pigiama di lana... Basta, non riuscivo ad andare avanti. Niente, non avevo niente, niente soldi, niente musica. Niente, niente carne, niente alcol, niente di niente, niente speranze né sorrisi, niente tartarughe né parquet, solo freddo, povertà, solitudine e quel che restava della mia triste parentesi di vita. Ero un fallito, inutile pensare a mondi migliori che non meritavo e non avrei mai avuto. Dovevo smettere di pensare, ma avevo esaurito i pensieri di scorta, i rimedi contro la malinconia erano scaduti da un pezzo. Il freddo aumentò, via via che arrivava la notte. Le porte si aprivano e si richiudevano veloci, per non disperdere l’accogliente calore delle case. Luci basse illuminavano le finestre per lunghi attimi, poi tornavano a spegnersi in un sintetico clic.
Cosa avrei dato per avere una porta da chiudere e una lampada da spegnere. E chi aveva questa fortuna la riduceva a un meccanico gesto di quotidiana routine. Restai ancora più solo, a guardare dentro me stesso. Non sapevo più cosa provare, o meglio, non sapevo più cos’era ciò che provavo. Rabbia? E verso cosa? Autocommiserazione? Pena? Scesi giù verso il porto con i pensieri che si mescolavano nello stomaco vuoto. Camminavo come fanno i poveri, senza meta, fissandomi le scarpe logore a ogni passo. Gesù, che vita sprecata. Perché avevo lasciato il lavoro al negozio, perché avevo provato a scrivere? A cosa erano servite le mie poesie, le mie idee, i miei racconti? Il sole continuava ad arrivare e ad andarsene in perfetto orario senza bisogno delle mie parole. Gli uomini leggevano di tutto, dai volantini ai best seller, dai giornali ai menù delle osterie. Nessuno sembrava interessato a quello che avevo da dire. Ricordai le parole del mio vecchio datore di lavoro. Non batté ciglio quando chiesi la liquidazione. Mentre me ne andavo, sicuro del mio avvenire, senza staccare gli occhi dai suoi fogli borbottò: E così vorresti fare lo scrittore? Un sorriso sarcastico fu il suo ultimo saluto. Non ci feci troppo caso. Il mondo era diverso, io ero diverso. Avevo tre mesi di affitto pagato, i soldi della liquidazione, e soprattutto idee, speranze, futuro. Ora avevo solo la libertà di camminare verso il mare guardandomi i piedi. Mi sedetti con la schiena contro il muro, tirai su il bavero del cappotto e chiusi gli occhi. L’alba mi svegliò coi rumori del porto. Gli operai caricavano le casse, le navi scaldavano i motori. Un forte aroma di caffè in polvere invadeva l’aria, mischiandosi alla puzza di pesce e nafta. Fu un risveglio come tutti gli altri. Ero un fallito, non riuscivo a ricordarmi neppure l’alba del giorno prima. Tutte le mattine era come rinascere, sempre dalla stessa donna, nello stesso giorno e nella stessa squallida condizione. Qualcuno premeva il tasto reset mentre dormivo al freddo, ma Dio se ne guardava bene dal cambiare il copione. Mi guardai intorno. Gli uomini sembravano tristi. Loro, che avevano un lavoro, uno scarno conto in banca, case piccole e malmesse, mogli tozze e baffute, loro sembravano tristi. E chi era felice allora? Li guardai uno alla volta, scavando dietro alle barbe incolte e alle sciarpe di lana. Sembravano quadri appesi ad una parete, una variegata galleria d’arte contemporanea. Nessuno mi guardò, nessuno mi sorrise. Solo un costante, assoluto disinteresse. Il sole schiarì il cielo. Non mi sentivo né triste né allegro, né vivo né morto, né speranzoso né disperato, semplicemente presente. Ero lì, ero io. La morte non mi sembrava lontana, ma neppure dietro l’angolo. Annusai l’aria gonfia di odori e ne avvertii diversi. Il sale mordeva le narici, con lui profumo di pane, di benzina, di sabbia bagnata, di pietre unte, di pesce morto, di capelli non lavati, di dopobarba scadente, di vernice secca. Annusai con forza e ne fui pieno, in un attimo. Ero ricco, avevo qualcosa. Forse molto più degli altri che non si curavano di ciò che avevano intorno. Le barche si mossero lasciando scie nell’acqua nera. Le corde arrotolate sul molo si asciugarono al sole, piangendo disordinate lacrime di salsedine. Nessuno può decidere se essere felice, è il trascorrere del tempo che te lo impone. Quello che conta è fare di tutto per non darsi per vinti, è raschiare in fondo al barile in cerca di una goccia di momentanea ricchezza. Seduto in riva al mare, carico dei miei pensieri banali, per un secondo, o due, Dio solo lo sa, quella goccia l’avevo trovata.
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