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Mastru Niria
Niria in Sicilia sta per Andrea ed il titolo di “mastru”, che letteralmente significa maestro, serve in realtà ad indicare l’appartenenza al ceto degli artigiani, che, se poi vogliamo, tutti per lo più, nel loro campo, sono maestri nell’arte o mestiere che esercitano.
Mastru Niria era un calzolaio che io ricordo già in età avanzata, sui sessantacinque anni, magro ed allampanato, povero ai sensi di legge, scapolo e con pochi parenti alla lontana, sempre malvestito e costantemente raffreddato a causa dell’umidità del vano a piano di strada, dove svolgeva la propria attività ma anche abitava. Era un artigiano di modesto valore che non avrebbe mai saputo ritagliare un pezzo di pelle o di cuoio per farne una scarpa; era però insostituibile nel cambiare soprattacchi, risuolare un mocassino, effettuare qualche piccola riparazione e ciò non tanto per la sua eccelsa bravura, quanto a motivo che il corrispettivo richiesto era il più conveniente sul mercato. Il ciabattino, termine che non vuole essere dispregiativo ma che era la qualifica che più gli si confaceva, aveva poi una virtù che non possedevano altri della categoria: amava, e ne era fiero, riconsegnare ogni singolo paio di scarpe che riparava tirato a lucido come nuovo; anche se vecchie e con molteplici riparazioni nella loro storia, le calzature dovevano uscire dalle mani di Mastru Niria splendenti e tali da potercisi specchiare: era un suo punto di orgoglio e l’insegna della sua bottega.
Il suo carattere era gioviale ed aperto, gli piaceva tanto conversare con i clienti e commentare gli avvenimenti del paese. Aveva anche degli interlocutori fissi, alcuni amici pensionati che gli facevano compagnia discutendo del più e del meno, seduti sugli sgabelli pieghevoli che si portavano da casa, non avendo il padrone della bottega sedie da offrire oltre quella su cui sedeva davanti al suo banco di lavoro.
Però Mastru Niria, anche se non come artigiano, un animo d’artista se lo sentiva dentro: amava follemente la musica e tutti i suoi derivati. Appena indossava il suo bisunto grembiule da lavoro, gli era spontaneo ed automatico iniziare le sue esibizioni canore, con una voce un po’ stridula ma intonata; il suo repertorio più amato erano le arie da operette, ma sconfinava anche nella lirica e nella canzonettistica siciliana e soprattutto napoletana. Conosceva le parole di ogni brano, anche se le ripeteva con qualche storpiatura, specialmente quando non ne conosceva il significato.
Se una donna un po’ attraente veniva a lasciargli o ritirare le scarpe, il ciabattino, in preda a grande esaltazione di tutti i suoi sensi, ne accompagnava il ritorno in strada con canzoni ispirate all’amore; chissà, forse uno sfogo, un’allusione, un messaggio…
In occasione di certe ricorrenze festive, nella piazza principale era uso allestire un alto palco di legno, arricchito di fiori, palme e soprattutto luminarie colorate e dalle forme fantasiose, sui cui per tre giorni di seguito, il cosiddetto “triduo”, bande musicali scritturate da altre località siciliane offrivano alla delizia della gente, sempre numerosa ed interessata, il loro repertorio di opere liriche. Per mastru Niria quelle erano le grandi occasioni della sua vita. Lo si vedeva allora in prima fila, proprio sotto il palco, vicino alla prima tromba, quella che interpretava la voce del soprano e suonava gli assoli. Durante l’esecuzione era come assorto, con gli occhi socchiusi, trasognati, con la mano destra seguiva il ritmo, quasi a voler dare aiuto al direttore della banda e sull’onda della melodia cantava beato e commosso. Era uno spettacolo vederlo avvolto nella sua dimessa e corta giacchetta assaporare le note sublimi della Norma o della Cavalleria Rusticana in una dimensione fra l’onirico e l’estatico. Terminata l’esecuzione, mentre tutti gli astanti si spellavano le mani in applausi scroscianti, il nostro Niria si guardava attorno tutto soddisfatto e fiero, gonfiando il petto come a voler dire: “Avete sentito che bel pezzo d’opera? Questa è musica per intenditori come il sottoscritto. Questa banda ha suonato da dio e ve lo dice uno che di musica ne capisce!”
Quando la banda locale si esibiva per le vie del paese, in occasione di processione di santi o altre circostanze, il nostro simpatico amico chiudeva il suo esercizio ed entrava felice nel ruolo per lui tanto gratificante di portatore della grancassa. A percuotere lo strumento, piuttosto pesante, era un certo Felice Rinollo, un ultrasettantenne privo della vista, che appunto per la sua menomazione e l’età avanzata, aveva bisogno di un accompagnatore che gli reggesse lo strumento e gli offrisse il braccio per camminare.
E chi meglio di mastru Niria avrebbe potuto svolgere il prestigioso compito? Lui che conosceva a memoria tutte le marce che costituivano il repertorio del complesso bandistico e, per il talento musicale di cui era dotato, all’occorrenza, magari quando il titolare dovesse soffiarsi il naso, era perfettamente in grado di far suo il mazzuolo e, col massimo del sussiego, scandire il tempo per tutta la banda. Quello era il suo momento di gloria, l’apoteosi, il massimo dono che gli potesse offrire la fortuna.
Ma la passione per la musica non finiva lì, non era solo passiva, perché mastru Niria era anche un esecutore di tutto rispetto, in quanto fin da ragazzo aveva imparato a suonare il mandolino. Le sue misurate finanze purtroppo non gli permisero mai di possedere questo strumento, ma ne rimediava sempre qualcuno a prestito da qualche amico.
Era sua abitudine, quasi tutte le sere, dopo la chiusura della bottega, riunirsi con altri suonatori coetanei, presso il negozio di zi’ Saru, un venditore di brustolini, palloncini e caramelle nei pressi della piazza principale, appassionato di strumenti a corda, di cui possedeva diversi esemplari. Erano di solito due chitarre che accompagnavano il mandolino suonato da mastru Niria, nell’esecuzione di mazurche, polche, valzer e tarantelle, con l'immancabile finale d’un canzoniere napoletano. Molte le persone che, attratte dal suono, si fermavano ad ascoltare quella musica, col gradimento degli esecutori, che godevano del plauso di un pubblico, e la soddisfazione di zi’ Saru, che riusciva così a vendere la sua merce.
Ogni tanto gli capitava altresì di sfoggiare il suo talento di cantore e musico sotto il balcone di qualche ragazza da marito, cui uno spasimante voleva offrire una serenata per fare breccia nel suo cuore. Non ci sono parole per descrivere quanto sentimento mastru Niria, novello Cirano de Bergerac, mettesse a disposizione del committente. La sua era una profonda partecipazione all’importanza della circostanza, metteva tutto il suo animo nel canto e nel trillo del mandolino, consapevole e fiero di svolgere quella che definiva “una missione d’amore “. Questa missione in verità non era del tutto disinteressata, perché finiva nella classica "schiticchiata", una cenetta in trattoria a base di baccalà fritto ed olive condite, che puntualmente gli veniva offerta. Erano quelle le rare occasioni in cui il poveretto aveva modo di soddisfare in una stessa sera esigenze per lui vitali, come stare in compagnia, sfogare la sua vena artistica e non ultimo fare un abbondante e gustoso pasto.
Da quando l’unica sorella, che con lui condivideva quella vita di miseria, era passata a miglior vita, stroncata dagli stenti e dall’artrite, il nostro ciabattino, incapace di districasti in cucina, privilegiava il fast food, per lo più un pezzo di pane con formaggio o mortadella, accompagnato da cipolla cruda.
D’estate sognava di andare al mare, era il suo chiodo fisso, anche per l’avvertito bisogno di igiene personale, visto che in casa non aveva non solo una vasca in cui lavarsi, ma nemmeno l’acqua corrente.
La spiaggia l’aveva conosciuta e frequentata da giovane, quando le gambe gli consentivano di coprire a piedi, camminando a passo sostenuto per circa due ore, quella decina di chilometri che separavano il paese dalla sua marina e che diventavano venti col viaggio di ritorno.
All’approssimarsi della bella stagione, ne parlava in continuazione con un amico, certo Calogero Pistaciciri, stagnaio e suonatore di chitarra; progettavano assieme l’avventura, ne studiavano tutti i particolari, cosa portarsi da mangiare, a che ora partire e ritornare, in quale punto della spiaggia fermarsi a prendere il bagno
Ma c’era una difficoltà che li faceva desistere e rimandare di anno in anno la gita: per raggiungere il mare, ora che le gambe non avevano più il vigore di un tempo, bisognava avere un mezzo di locomozione, che allora era rappresentato esclusivamente da una cavalcatura; in definitiva i due sognatori avevano bisogno almeno di un asino, su cui montare per realizzare la loro legittima aspirazione, ma non avevano mai trovato un’anima buona disposta a prestarglielo. ed intanto si consolavano vagheggiando bei tuffi in acqua, passeggiate a piedi nudi sulla battigia, spaparacchiarsi sulla sabbia a prendere il sole, cercare conchiglie, catturare granchi; ma ciò che più faceva brillare i loro occhi, era la prospettiva di incontrare qualche donna in costume da bagno.
Nella mente di due attempati scapoloni, quel miraggio doveva avere un peso importante specie in un'epoca in cui le femmine del paese indossavano gonne lunghe fino alle caviglie e, al di fuori delle spiagge, non era possibile scorgere un centimetro della loro pelle che non appartenesse al viso o alle mani.
Troppo avevano aspettato i due amici la favorevole occasione di potersi levare quello sfizio, quando, spinti dalla disperazione, decisero di forzare la mano al destino.
Poco fuori dal paese, esisteva a quei tempi un mulino che faceva servizio a domicilio, una specie di porta a porta dell’epoca, consistente nell’assicurare il ritiro dalle case dei clienti fissi del sacco di frumento da macinare e restituire, dopo la molitura, lo stesso sacco con farina pronta all’uso
Questo servizio era disimpegnato da un certo Rosario, detto “Saru u’ mulinaru”, uomo piuttosto robusto, assai bonaccione che sorrideva sempre a tutti, preciso nel suo lavoro. Egli, per il trasporto dei sacchi, si serviva di un vecchio asino, che tutto il giorno si rimorchiava dietro con un pezzo di corda legata al collo dell’animale.
Mastru Niria ed il suo compare, tutte le volte che Saru passava davanti alla bottega, fra serio e faceto gli chiedevano se qualche giorno avessero potuto prendere in prestito il ronzino, anche a pagare qualche lira, ma il conducente rispondeva con il suo solito sorriso, che non era un no ma nemmeno un sì.
Fu così che un bel giorno i due decisero che era arrivato il momento di fare di testa loro.
Una mattina assolata d’estate scorsero "u’ mulinaru" passare per il consueto giro e fermarsi a qualche passo dalla porta del calzolaio. Legato l’asino, ancora privo di carico, ad un anello di ferro piantato nel muro, Saru era entrato in un portone che immetteva in un cortile dove avrebbe trovato il sacco di frumento da ritirare.
Per Niria e Calogero guardarsi in faccia, intendersi e decidere fu un tutt’uno. Chiusa in fretta e furia la porta del negozio, senza esitazione alcuna sciolsero l’asino e tirandolo per la corda, gli fecero girare l’angolo della strada, avviandosi verso l’uscita del paese, in direzione della marina, attraverso un vicolo stretto e non frequentato, per passare inosservati,. Appena superate le ultime case, già lontani da occhi indiscreti, uno alla volta salirono sul muretto di recinzione di una vigna e da qui montarono entrambi sul quadrupede, che certo non entusiasta di tutto quel peso sul dorso, a fatica e con molta lentezza avviò il suo passo.
Ci vollero due buone ore per raggiungere la destinazione, perché si resero necessarie parecchie soste per fare riposare l’animale e giunti che furono, non volendo fare il loro ingresso in spiaggia in compagnia dell’asino, lo parcheggiarono sotto un albero, in un terreno non recintato posto in zona alta rispetto al mare. Da quella posizione, fu istintivo per mastru Niria dirigere lo sguardo verso quella sottostante distesa d’azzurro e cosa non videro i suoi occhi? Immerse nell’acqua c’erano delle donne, di cui sentiva anche le voci giulive; scorgeva solo le teste che affioravano in mezzo alle onde. Fu così che in preda a grande esaltazione, rivolto al suo compagno che stava legando l’asino, pronunciò quella storica frase che rimase nella memoria paesana: “Calì, Calì, fimmini ci su’!”, che tradotto significa: “Calogero, Calogero, ci sono donne”.
A quel grido di battaglia seguì una corsa precipitosa dei due verso il litorale, dove arrivarono con la bava alla bocca.
Intimorite dalla presenza dei due assatanati compari, le bagnanti si affrettarono ad uscire dall’acqua, mostrando la loro identità: si trattava delle monache del Collegio di Maria, le quali possedevano nella zona una casa di villeggiatura e quel giorno di gran caldo avevano deciso di prendere il loro bravo bagno.
Esse usavano immergersi completamente vestite della loro tunica, con calzari ai piedi ed una cuffia di panno bianco che imprigionava il capo, lasciando scoperto solo il viso.
La delusione, la vergogna, l’imbarazzo dei due amici furono tali e tanti, che non trovavano nemmeno il coraggio di guardarsi negli occhi.
Avevano di colpo perduto ogni entusiasmo per il mare, per il bagno, per quella gita che ora volevano entrambi concludere al più presto.
Quando le monache si furono allontanate, essi si portarono sulla battigia, toccarono appena l’acqua con la mano e decisero all’unanimità che per loro era troppo fredda e non sarebbe stato prudente immergersi.
Mentivano a se stessi, era chiaro; in realtà il mare era tiepido, il sole scottava e la sabbia era rovente.
Il loro viaggio di ritorno non li vide molto loquaci; erano impacciati e melanconici e non vedevano l’ora di arrivare.
Odiavano in cuor loro quell’estate, la strada polverosa e sconnessa che stavano percorrendo, quel maledetto asino su cui erano a cavalcioni, che spesso inciampava ed era tanto lento.
Arrivarono all' ora in cui tutti in paese erano a tavola a pranzare e per le strade deserte toccava loro, digiuni dalla sera precedente, sentire invitanti profumi provenienti dalle cucine e dovere inghiottire saliva e veleno: un supplizio, un’autentica provocazione!
Nessuno li incontrò, ma molti li videro senza essere visti. In paese si era già sparsa la notizia della scomparsa dell’asino del mulino e quando per la strada si sentì il rumore degli zoccoli sul selciato, furono in parecchi a spiare da dietro le persiane o le porte socchiuse, per sapere chi fossero i responsabili del furto. Un mezzo sospetto, in verità, l’avevano avuto in tanti, ma ora avevano la certezza che erano stati quei due poveri diavoli gli autori della bravata.
Per la stima che nutrivano soprattutto nei confronti di mastru Niria, per non creargli imbarazzo e non fargli subire una mortificazione, i compaesani fecero finta di niente e nessuno mai commentò l’accaduto in sua presenza. Nemmeno il proprietario del mulino, cui apparteneva l’asino, se ne dolse mai con i responsabili, ma tutto il paese trovò l’accaduto molto divertente e ne parlò e rise per settimane.
Quanto ai nostri simpatici personaggi, dopo che ebbero legato l’asino allo stesso anello da cui l’avevano sciolto quella mattina, essi tornarono alle consuete abitudini, fermamente convinti che la loro marachella fosse passata del tutto inosservata.
Solo dopo qualche tempo, mastru Niria, in un momento di particolare allegria suscitato da un buon piatto di baccalà abbondantemente annaffiato da generoso vino siciliano, si lasciò andare a raccontare agli astanti la sua avventura.
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1 recensioni:
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- Un bel racconto ed uno spaccato di vita paesana. Le case, gli ambienti, la vita sociale sono una dignitosa cornice per presentarci il personaggio del racconto: Mastru Niria. L'Autore si è mostrato abile nel raccontare la vita di questo calzolaio ma in parallelo anche la vita della comunità in qui opera che si proietta nelle feste patronali "in occasione di certe ricorrenze festive, nella piazza principale era uso allestire un alto palco di legno, arricchito di fiori, palme e soprattutto luminarie colorate e dalle forme fantasiose, sui cui per tre giorni di seguito, il cosiddetto "triduo". Assaporiamo assieme all'artigiano i dolci tradizionali e ci prepariamo assieme a lui ad ascoltare il concerto bandistico che viene eseguito la sera della Festa per la delizia degli appassionati.
Bel racconto, non c'è che dire.
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