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Quale dio
L’esplosione è sorpresa e stupore, e subito dopo spasimo violento.
Vengo sbalzata con forza incredibile, l’incontro con la terra è un irriverente oltraggio alle mie ossa, alla mia pelle. Perdo i timpani, questa è la sensazione. Forse le mie orecchie decidono che non è possibile accettare tutto quel rumore.
Così comincio a fluttuare, come corpo che annega, sprofondando e riemergendo in cupe ondate di incoscienza e consapevolezza. Cinico o caritatevole, è il dolore a risvegliarmi, ed è sempre lui a ripiombarmi nell’oblio.
Avevo atteso più di un’ora prima di salire sull’autobus, per evitare l’affollamento del primo mattino e per ascoltare Rashid, che era angosciato per il clima teso degli ultimi giorni.
“Perché non aspetti che torni Amir? Ti può portare in città con la macchina, ha anche il permesso del ministero così non perdete tempo ai posti di blocco” mi aveva ripetuto per tutto il giorno.
“Amir non arriva prima di domani sera, e a quell’ora avrò perso la possibilità di dare l’esame” avevo obiettato con calma.
Rashid era molto preoccupato, assillato dal fanatismo crescente e dalle schermaglie alla frontiera.
“Pazzi incoscienti, se si fa’ un passo avanti loro riportano tutto al punto di partenza, se non peggio” lamentava parlando delle estenuanti trattative di pace che parevano essere ad un punto morto.
Nel cortile un leggero alito di tiepido vento portava sentore di primavera, mentre le lenzuola stese ostentavano orli e ricami in una danza sinuosa.
Ambulanze, sirene, polizia, urla e lacrime, sangue, tanto sangue da tingere il sole. Ed io in un continuo accendersi e spegnere, on off, dentro fuori, invisibile alla gente tutt’intorno a me, forse perché mi credono morta.
Non parlo, né urlo. La bocca satura di terra, denti, sangue e parole che non riescono ad uscire.
Nemmeno penso, se lo facessi perderei immediatamente la ragione. Mi limito a sopravvivere istante dopo istante, abbasso la leva sperando che la slot machine mi rimandi figure tutte uguali, ma le immagini girano e girano e non sembrano volersi fermare.
Chiudo gli occhi un’altra volta.
Mamma ha preparato la minestra, dal gusto strano e misterioso grazie alle spezie che compra dal rabbino pentito, come lo chiama lei.
Però è buona, la mangiamo sempre volentieri, a volte trovo che il suo sapore particolare è il sapore stesso di mamma. Spesso penso che quando lei non ci sarà più, solo un piatto di quella minestra potrebbe consolarci, ma mi rattristo al pensiero che solo lei è capace di farla.
Riapro ancora gli occhi. Vorrei censire il mio corpo, ma una barriera mi impedisce di farlo, come un buon consiglio datomi dal cervello: aspetta, non farlo ora, più tardi conterai quante dita e quante gambe, quanta pelle e quanti capelli fanno ancora parte di te. Raccolgo il consiglio, funziona: torno a farmi avvolgere dal buio.
L’esame, con impazienza ho aspettato che arrivasse il giorno dell’esame. Questa volta molto tranquilla, perché la materia mi ha appassionato fin dalle prime lezioni. La certezza di prendere il massimo dei voti, di portare a casa la lode per far sorridere mamma e baciare contenta il mio Rashid.
Torno per l’ennesima volta nell’inferno. Ora qualcuno mi sfiora e urla: vedo la bocca spalancata e le vene del collo gonfie e pulsanti. Mi sfiorano in tre, non capisco come facciano ad issarmi sulla barella solo sfiorandomi, comprendo che i miei sensi non ci sono più, forse anche il vedere ciò che vedo è solo parte dell’incubo.
Mamma non c’è più, siamo tutti tristi per questo. Seduti attorno al tavolo, ognuno di noi ha davanti un piatto vuoto. Sento l’angoscia salire, e diventare un peso opprimente. Decido dunque di non soffrire oltre, e libero tutto il mio dolore in un fiotto di lacrime calde, che in silenzio colma uno ad uno tutti i piatti. È a questo punto che ritroviamo il sorriso, perché davanti ad ognuno di noi, calda e profumata, è tornata la minestra di mamma.
La leggera brezza che muoveva le lenzuola nel cortile si è trasformata in un robusto vento imperioso. Solleva la sabbia dal deserto, e me la scaglia con forza sul viso, che sento trapassato da spilli roventi. Non trovo il mio velo, devo trovarlo per coprirmi, fa’ molto male, ho bisogno di coprirmi perché fa’ troppo male.
È un medico, è molto giovane, piange mentre mi parla e, anche se non sento le sue parole, leggo il suo volto ed è disperazione.
So leggere i volti, io. O forse ciò che so leggere è proprio la disperazione.
Quella di mio fratello, quando l’ho visto apparire per qualche istante.
Quella di mia madre, nelle sue mani d’ossa che tremanti si coprono la bocca.
Quella di Rashid, avverto la sua presenza accanto a me nell’ambulanza che urla impazzita senza riuscire a muoversi.
Non so spiegarne la causa, ma in questo momento l’angoscia maggiore è per me non poter fare l’esame. Mamma ci teneva tanto, ed io glielo dovevo.
Invece sono qua, carne corrotta e puzzo di carburante, nervi scoperti al vivo dolore, anima labile pronta a sfuggirmi.
Perché la morte, mi chiedo. Quale dio vuole tutto questo, quale motivo giustifica tanto sangue, quale fede?
Lo vorrei urlare: “quale fede? Ditemi perché!” ma dalla mia gola scappa solo un sibilo, un impercettibile rivolo d’aria che si perde dentro la maschera ad ossigeno.
Quel filo d’aria è il mio urlo, che dentro me cresce d’intensità fino a riempirmi le orecchie, ed oltre. Fino a fondersi col grido della sirena, che mi accompagna verso il mio destino.
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0 recensioni:
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Anonimo il 15/04/2010 12:34
La Fede è soltanto un credere o un non credere, ma è un errore identificarla all'Assoluto che ne genera l'urgenza. La fede può essere anche soltanto una giustificazione alla propria incapacità di capire le ragioni della gioia e del dolore e, in quest'ultimo avamposto dell'infelicità, è ancora un errore più grande assimilarla all'Assoluto che la induce. La Fede può essere necessaria a molti, ma non è mai assoluta a propria volta, ed è in questo suo limite l'origine di molti mali e di molte guerre. L'Assoluto si esprime in una molteplicità indefinita di piani d'esistenza e sarebbe un altro errore giudicare ciò che accade su uno solo di questi piani, non riuscendo a conoscere le conseguenze sugli altri livelli a quello connesso, nei quali continua a esprimersi l'esistenza.
P. S: "fa" si scrive senza apostrofo, quando è la terza persona singolare del verbo fare. L'apostrofo si usa quando c'è un'elisione che origina la contrazione di una parola che dev'essere mostrata, affinché non sia confusa con una parola che le corrisponde avendo, però, un significato diverso. Tutto ciò che ho scritto non toglie nulla alla qualità delle tue intenzioni e delle tue inclinazioni pregiate verso il raccontare...
- Complimenti, miè piaciuto molto il suo racconto, cordiali saluti.
Anonimo il 13/01/2009 16:11
Siamo solo noi, o loro, come li vogliamo chiamare. Dio e' solo capro espiatorio. È fame di sangue, tipica e classiac di noi poveri bipedi. Molto in tema e' il libro che sto leggendo e consiglio a tutti "L'Attentatrice".
Ciao
- "quale Dio", ho letto qualche riga, ma è tardi e debbo sbrigarmi, mi ha incuriosito il tuo modo di scrivere, al mio ritorno lo leggero' con attenzione, un saluto.
- ridondante prosa, stavolta sono riuscito ad arrivare a metà... forse è meglio quando improvvisi haiku...
- volevo ringraziarti xi tuoi commenti.. ho letto qualche rigo di qst racconto e mi ha attirata come una calamita.. sn sicura che cè da emozionarsi.. ma data l'ora rimando la lettura che farò con piu gusto a mente lucida... alla prossima. aurora
- grazie Carla e Fulvio, spero di continuare a meritare i vostri elogi!
Anonimo il 03/05/2008 12:41
Una scelta fantastica, quella di raccontare questo brano in prima persona. Dato che non seguo la poesia, conoscevo solo le tue notevoli risorse umoristiche e satiriche. Sei davvero ricca e completa
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0