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San Matteo
Io non so oggi a cosa pensi un ragazzo tra i dodici e i tredici anni.
Io allora pensavo solo a tre cose: giocare a pallone, andare a scuola e cercare di finire i compiti.
La mia vita era scandita da regole certe. A 10 anni ero andato in collegio. Al mio paesino non c’era la scuola media ed io, che in un impeto di orgoglio ( forse più dei miei ) avevo saltato la quinta, dovevo dimostrare che quei due investimenti erano stati saggi e oculati.
Praticamente avevo due classi, una in collegio, composta per l’ottanta per cento dagli stessi compagni che rivedevo a scuola e l’altra, nella scuola statale, la sezione E, composta appunto di soli maschi.
Nella pausa pranzo mi scatenavo con il calcio, con squadre a 5 o 6, nei due campetti del San Matteo. Niente magliette o pantaloncini, niente scarpe bullonate, ma i vestiti e le scarpe di tutti i giorni, che necessariamente restavano impolverati e sudati. Mi sono sempre chiesto se o come mai noi ragazzi non emanavamo quel odore di sudore che oggi si sente subito.
E poi il pomeriggio per oltre 4 ore mi immergevo nello studio, o meglio nell’ approntare i compiti, l’algebra, le versioni dal latino e in latino, l’Odissea, la letteratura italiana, le poesie dei nostri autori, che ancora oggi talvolta, con meraviglia della memoria, recito.
Un avvenimento è entrato con forza nella la mia vita di ragazzo-bambino.
Avevano distaccato alcune aule dalla sede in una succursale, in via Napoli.
In ogni paese del sud c’è una via Napoli, ma quella portava effettivamente a Napoli, dopo 4 ore di viaggio, attraverso i paesi della Valle di Diano, Casalbuono, Padula, Polla, la salita dello Scorzo in pieno Cilento, quando ancora non era stata costruita la Salerno-Reggio Calabria nel tratto lucano.
E quella mattina di inizio febbraio ero più incuriosito di vedere le nuove aule che i compagni delle classi vicine alla mia.
Dal collegio a scuola si arrivava sempre con largo anticipo.
La nostra giornata d’altra parte iniziava alle 6 e trenta, quando suonava la sveglia; qualcuno aveva composto anche una canzone musicata con una marcetta sui tempi scanditi della nostra vita; dopo una mezz’ora di studio e la colazione, alle 8 si partiva per la scuola.
Nel cortile esterno, sul lato destro prima della porta principale, vi è un gruppo di ragazze della nostra età, che mai avevo notato o avevo avuto la possibilità di notare nella sede centrale.
Stanno tutte compatte quasi a proteggersi anche dagli sguardi.
Lei è lì, si confonde con le sue compagne, eppure è tanta diversa: è alta, di quell’altezza che si sta formando negli anni della crescita, anzi un pochino curva; le calze, i calzettoni rossi con un cappotto verde marcio; e poi i capelli biondi, biondo cenere che scendono sul suo viso allungato e chiaro di un colore latteo. Non avevo mai visto un sorriso che promanava non dalla bocca ma dagli occhi; e quando lei accentua il suo sorriso, che non la lascia mai, le guance si contraggono ed evidenziano la sua fossetta sul mento.
Adesso capisco il poeta quando alludeva agli occhi ridenti e fuggitivi.
Avrei voluto anche io scrivere: appena ti vedo subito non posso più parlare, la lingua si spezza, un fuoco leggero sotto la pelle mi corre, nulla vedo con gli occhi e le orecchie mi rombano, un sudore freddo mi pervade, un tremore mi scuote. Sono più verde dell’erba e poco lontano mi sembra di essere morto.
Ma la poesia e l’arte in genere sono una trasposizione della realtà.
Mi ricordo di un’intervista a Picasso. Gli chiesero di spiegare la sua Guernica. E Picasso rispose: se sapessi descrivere con le parole Guernica avrei fatto lo scrittore e non il pittore.
Descrivere una sensazione è molto più difficile che viverla.
Io l’ho vissuta, ideale, pura, pulita, la stessa che è stata tradotta da Petrarca o Dante o dalla stessa Saffo.
E me la tenevo per me.
E me la sono tenuta per quasi 50 anni.
E voglio tenermela ancora, senza contaminarla, per un tratto sicuramente minore e poi… per sempre.
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