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Another Zombie's Tale
Prologo
“Con le ultime energie rimaste, mi appresto a scrivere questo lascito e ad assicurarlo come meglio posso, perché giunga al mondo esterno come testimonianza inconfutabile dell’esistenza di creature soprannaturali. O forse come ultima memoria della lucidità che mi sta abbandonando.
Mai più avrei creduto che certe creature potessero esistere, che potessero essere qualcosa di più di miti o leggende; che si potessero vedere al di fuori di un film o di un libro o di un brutto sogno. Eppure non ho più dubbi, non riesco più a darmi risposte, giustificazioni, per quello che ho visto e, ancora peggio, mi ha toccato ancora poco fa.
Ho ancora un intero caricatore nella mia pistola d’ordinanza, ma un colpo sarà più che sufficiente per andarmene con dignità e, forse, con meno dolore; so che sembrerà estremo come gesto, ma oramai è l’unica cosa sensata da fare. Sono chiuso come un topo nella sua tana, senza cibo nè acqua, senza via d’uscita.
E loro sono li fuori. E sono troppi.”
Capitolo 1
Erano sei mesi che lavoravo continuamente, tutti i giorni della settimana, senza prendere aria; la metropoli mi stava soffocando: ovunque luci, rumori, caos, sguardi sconosciuti. Avevo bisogno di staccare, e fu una vera fortuna che il mio diretto superiore, Kingsplan, avesse notato questo mio bisogno: fu lui a propormi un congedo momentaneo di un mese, perché in quelle condizioni ero oramai un peso per il caso che mi era stato affidato.
Decisi di fare tutto con calma, quindi sfruttai i primi giorni del congedo per decidere la meta più congeniale; certamente avrei evitato mete turistiche di massa, preferendo a queste qualche paesino rurale dell’Europa.
Quello che mi fece scegliere Bled, piccola cittadina slovena, furono le foto ed i documentari che trovai navigando su internet: un piccolo centro abitato circondato da boschi e catene montuose; pochi abitanti e pochi hotel soprattutto: ciò riduceva le possibilità di incontrare altri noiosi americani ed il rischio di dover condividere le vacanze con altri connazionali.
Animato dalla poca intraprendenza rimasta, prenotai viaggio ed hotel senza ricorrere ad agenzie di sorta e, dopo tre giorni dall’inizio delle ferie, ero già in volo sull’Atlantico, diretto verso Lubiana, la capitale.
Arrivato li, presi uno dei tanti treni che si diramavano dalla città per raggiungere tutte le cittadine; nonostante il caos e le corse fatte per preparare documenti e biglietti, mi godevo quei momenti, immaginando che sarebbero stati gli ultimi, per molti, molti giorni.
Capitolo 2
Raggiunsi la piccola stazione di Bled in una quarantina di minuti, dopo un viaggio silenzioso e quieto, interrotto qua e la da qualche sobbalzo dovuto ai vecchi binari ferrosi; per la maggior parte del viaggio avevo ammirato il paesaggio: qua e la recinti con mucche al pascolo, tratti di boscaglia così fitta da rendere difficile il passaggio ad un uomo, ed infine tante collinette di un verde scuro e intenso.
La stazione di Bled era consona al paesaggio circostante, implementata perfettamente nell’atmosfera semplice e rurale delle campagne circostanti, e ciò non fece altro che rincuorarmi, aspettandomi una cittadina altrettanto quieta e anonima.
E così mi si presentò: una trentina di abitazioni di uno o due piani, dove non era difficile vedere una o due pareti ancora fatte in pietra, e dove viottoli ciotolati formavano un labirinto affascinante ed insidioso per chi non era del posto.
Chiesi indicazioni ad un paio di ragazzini che giocavano a palla in un cortile, cercando di farmi capire e aiutandomi col depliant dell’hotel Kompas; lo raggiunsi in pochi minuti, mentre mi sforzavi contenere la curiosità che mi portava a sbirciare dietro le finestre o in qualche vicolo più ombroso. Arrivai di fronte all’hotel un po’ accaldato per il peso delle due valige che avevo portato con me; era ormai il tramonto, e notai che tutti gli abitanti stavano rincasando: un’immagine impossibile da vedere a new york, la città che non dorme mai.
Alla reception mi accolse un uomo austero, alto circa un metro e novanta, calvo e dal viso oblungo: con poche parole mi fece firmare sul registro, e mi diede le chiavi scusandosi per non potermi accompagnare a causa di un dolore dovuto ad una caduta, dopodiché lo abbandonai, per salire la rampa di scale che portava al primo piano.
La prima impressione di un buon hotel era decisamente sbagliata, e lo constatai notando la muffa in qualche angolo, oppure le grosse travi di legno ormai malconce e cigolanti, per non parlare dei muri che perdevano intonaco color panna. Ma in fin dei conti, non era ciò che avevo cercato? Abbandonare la modernità, la frenesia della tecnologia, ritornare al calmo passato della casa dei nonni della mia infanzia. Decisi di dare una possibilità a quella vecchia stamberga, quindi iniziai a disfare le valige.
Capitolo 3
Avevo cenato presso il ristorante dell’hotel, constatando di essere l’unico cliente ad usufruirne; tuttavia non avevo visto anima viva nemmeno nei corridoi o nella hall, né avevo sentito rumori provenire dalle camere adiacenti alla mia. Ero un po’ perplesso, dopotutto vi erano molte stanze nell’albergo, e la primavera aveva portato un clima piacevole in quel paese; iniziai a fantasticare su complotti degni di qualche film horror di serie b, e ridendo fra me e me, pensai che il lavoro mi avesse letteralmente rotto qualche rotella se ero giunto a pensare certe cose.
Andai a dormire presto, dopo aver letto per un’oretta, circa verso le dieci di sera; fuori era già buio, eppure non sentivo nulla dei rumori che mi sarei aspettato: nessun ronzio, nessun fischio o ululato, niente di niente; alla fine mi lasciai andare nel sonno, sfinito dal viaggio, dal pensare troppo a tutto.
Capitolo 4
Dovevo aver dormito per poche ore, perché quando l’incubo mi fece svegliare si soprassalto, fuori era ancora buio; passandomi la mano sul petto e sul bacino, sentii di essere bagnato dal sudore, e lo stesso era per le coperte, anch’esse fradice dal caldo sudore.
A tentoni riuscii ad infilarmi una felpa leggera e dei jeans, deciso a scendere nella hall per riprendermi da quel brutto sogno che mi aveva svegliato: ricordavo solo poche immagini, era molto confuso, come tutti i sogni del resto. Ricordavo tre o quattro persone, con vestiti bianchi ed imbrattati di sangue, che mi tenevano fermo mentre cercavo di divincolarmi; avevo provato ad urlare, ma come in tutti gli incubi non usciva nulla dalla mia bocca. Decisamente da brivido, ed era riuscito a rovinare pure la mia prima notte a Bled.
Nel frattempo ero sceso nell’atrio della reception e, non trovando nessuno, ero andato verso le cucine: anche qui nessuno. Scorsi il frigorifero delle cucine e, tentato dalla sete e dalla mancanza del personale, lo aprii in cerca di qualcosa di dissetante; presi un cartone di succo d’arancia e, senza troppe formalità, lo bevvi avidamente.
Dio solo sa cosa avevo bevuto, perché come avevo deglutito, avvertii un bruciore fortissimo allo stomaco, che mi costrinse ad inginocchiarmi in preda al dolore, mentre vomitavo il resto del succo. Possibile che avessero usato un cartone di succo per sostanze acide? E soprattutto, senza mettere alcun tipo di etichetta? Doveva essere così, perché il dolore era insopportabile, era come se mi stessero sciogliendo le viscere.
Portai lo sguardo verso il bacino, e capii di essermi sbagliato, fin dal primo momento: non era il succo a causarmi quel dolore atroce. E non era nemmeno sudore quello che mi aveva inzuppato il letto e sporcato il corpo. Era sangue. E fuoriusciva, lentamente, da un orrido squarcio alla destra del mio ombelico.
Misi da parte ogni pensiero, ogni possibile teoria, ogni visione infernale e risalii le scale, per tornare nella mia stanza; presi i miei documenti con dei soldi, una giacca e la pistola d’ordinanza che, fortunatamente, m’ero portato appresso.
Ridiscesi le scale rapidamente ma in silenzio, attraversai la hall e tentai di aprire la porta; come misi la mano sulla maniglia, caddi a terra, e persi i sensi.
Capitolo 5
Fu l’odore di ruggine e acqua stagnante a svegliarmi, assieme al bruciore di varie escoriazioni che avevo sulle braccia, e sul viso; non avevo più la felpa né la giacca. E ovviamente, mancava anche la pistola.
Cercai di mantenere la calma, come anni prima ci avevano insegnato in accademia, ed iniziai ad osservarmi attorno, per capire dove ero e come potevo uscire.
A prima vista, per quel poco che la luce lunare permetteva di vedere, dedussi di essere in uno scantinato, sicuramente sotto al livello terreno; dovevo essere in una nicchia di circa un metro quadrato, per tre lati avevo pietre e cemento, di fronte una schiera di sbarre che, per quanto fossero arrugginite, non avevano la minima intenzione né di piegarsi né tanto meno di rompersi.
All’improvviso, un rumore. Un rumore continuo, ritmico, familiare. Tendendo l’orecchio, percepii quello che sembrava un lento respirare umano, rauco e debole, ma con la tipica cadenza; cercaii di capire da dove provenisse, non doveva essere lontano.
Forse non ero solo, forse era anche lui o lei una vittima dell’albergatore; probabilmente era in ballo il traffico di organi umani, questo pensai; la ferita ricucita alla buona, lo stordimento, la mancanza di altri ospiti.
Dopo aver affrontato indagini del genere, ero io ora la vittima in prima persona di un furto d’organi; e da come stavano andando le cose, forse non avrei subito solo quel furto.
Dovevo uscire, se volevo salvarmi, dovevo trovare una via d’uscita.
Decisi di correre il rischio, e fischiai per richiamare l’attenzione di quell’altra presenza la sotto; niente, ancora quel respiro continuo, sofferente e stanco, ma nessuna risposta. Riprovai a bassa voce, chiedendo aiuto, chiedendo se anche lui era in una cella come me. Ricevetti una risposta, ma incomprensibile; qualche sillaba, un colpo di tosse gracchiante, poi un lento strisciare.
Forse era in condizioni peggiori delle mie, e quindi non avrei potuto contare su di lui; una porta, presumibilmente in fondo allo scantinato, si aprì di colpo, e qualcuno entrò, iniziando a venire nella mia direzione. Mi accasciai, fingendo di essere svenuto, in attesa di vedere cosa sarebbe successo.
Sentii due voci distinte, parlavano inglese bene, dovevano essersi fermate di fronte alle mie sbarre.
“Guarda, fortuna che l’abbiamo fermato, ancora un po’ e se lo sarebbe sbranato tutto!”
La seconda voce, più bassa e seria, rispose: “Si, dobbiamo controllarli meglio, non possiamo permetterci che girino per l’albergo. Vieni, aiutami a portarlo di sopra, è meglio controllare la ferita per sicurezza, non voglio perdere una cavia inutilmente”.
Aprirono la celletta, e fui preso alle spalle e alle gambe; avevano percorso alcuni metri, quando decisii di sfruttare l’occasione: rapidamente colpii in faccia l’uomo che mi stava trasportando per le gambe. L’altro rimase dietro di me e, colto di sorpresa, lo colpii con un gancio destro, girandomi rapidamente; concentrai la rabbia di nuovo sull’altro, che ora mi appariva come un ragazzo, sotto il chiarore della luna. Con numerosi calci in faccia gli feci perdere i sensi, controllai poi anche l’altro, già svenuto, per sicurezza.
Attraversai di corsa la cantina, incurante delle fitte al bacino, in cerca dell’uscita: trovai la porta ma mi fermai proprio dinanzi a essa; avevo visto altre sagome nelle cellette della cantina, e non potevo lasciarle li, condannandole a morte certa. Tornai dai due uomini e, rovistando nelle loro tasche, trovai un mazzo di chiavi; a causa del buio non fu facile aprire le celle e, una dopo l’altra, scuotevo l’occupante per svegliarlo e farlo uscire. Compresi di essere l’unico vivo o quantomeno ferito in maniera leggera, perché o non si alzarono o si limitarono a trascinarsi a fatica fuori; forse era egoistico, ma non potevo aspettarli ne aiutarli, quindi uscii dalla cantina.
Mi si presentò una stanza quadrata, con al centro una sorta di tavolo chirurgico, e lungo le pareti diverse librerie, scaffali con strumenti chimici e quant’altro. Ad est di essa si diramava una seconda serie di celle che aprii con le rimanenti chiavi; ritornato alla stanza quadrata, presumibilmente un laboratorio, iniziai a procedere a tentoni lungo le sue pareti in cerca di una porta.
Niente di niente, ed il buio non aiutava nella mia ricerca; nel frattempo, altri prigionieri arrancavano dentro il laboratorio: alcuni avevano anche trovato la forza di alzarsi e camminare, anche se a fatica.
Per sicurezza, tornai dai due uomini svenuti e li rinchiusi in una celletta; tornai quindi nel laboratorio, chiedendo aiuto ai miei compagni di sventura; nessuno però rispondeva, nessuno era in grado di aiutarmi: si limitavano a fissarmi ciondolanti, incuranti delle mie parole.
Non volevo perdermi nello sconforto, riprovai di nuovo a ispezionare le parte della stanza quadrata: ecco, finalmente, qualcosa di simile ad un’ interruttore generale; lo feci scattare, e finalmente diverse luci al neon illuminarono i vari locali.
Ebbi un attimo di smarrimento, a causa dell’essermi abituato al buio, ed impiegai diversi secondi per mettere a fuoco le immagini. Ora vedevo il gruppo di prigionieri, una decina in piedi, di fronte a me, credo fossero nudi, dalla pelle scura per colpa di chissà quale trattata mento.
Ma, dopo alcuni secondi, capii che qualcosa non andava bene; erano sfigurati, orrendamente sfigurati: alcuni avevano delle mutilazioni estreme, altri ferite da cui fuoriuscivano in parte le loro viscere, e quasi tutti avevano in parte sul corpo nugoli di vermi e mosche.
Quelle persone non erano vive. Non potevano essere vive.
La lucidità che fino ad allora avevo cercato di tenere alta, era crollata del tutto e, iniziando ad urlare come un matto, cercai con ancor più furore una via d’uscita; entrai nel corridoio lungo ad ovest, quello con alcune cellette in riga, fino a trovare una porta di legno che doveva essermi sfuggita con le luci spente. La sfondai, entrai e la richiusi dietro di me, assieme all’immagine di quelle orride creature.
E commisi l’errore della mia vita: come uno stupido, mi ero rinchiuso di fretta in quello che doveva essere uno sgabuzzino; di fronte a me solo cianfrusaglie, scatoloni e, magra consolazione, i miei indumenti e la mia pistola. La fuori, quelle “cose” si stavano avvicinando, sentivo il loro lento strisciare dei piedi, il loro ansimare rauco e malato; iniziavano a battere i pugni contro la porta, presto sarebbero entrati, e non avrei avuto via di fuga.
Non so dove trovai il coraggio per farmi un’ultima risata, al pensiero di tutto quello che mi era successo: immagino fossero il delirio e la pazzia oramai a condurmi, e così pensando, puntai la pistola alla mia tempia. Era l’unica cosa sensata che potevo fare, ormai.
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- bravo mi è piaciuto veramente il tuo racconto. complimenti.
- bravo
- Complimenti al tuo racconto! Gli zombi sono da sempre i miei mostri "preferiti" e tu li hai saputi rappresentare con l'adeguata tensione e l'orrore possibile. A quando un seguito?
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