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Fermata
V'è mai capitato di credere d'aver sbagliato epoca?
Voglio dire, di non essere nel giusto periodo storico.
A me sì.
Io vorrei essere un uomo medioevale. Un uomo dell'alto medioevo, del basso no: c'erano già troppi aratri e pochi buoi.
Non fraintendetemi - per carità- non sono un esperto di storia. Non sono esperto di nulla, per definizione e di fatto sono uno studente. Ma credo che sbagliare periodo storico è un po’ come sbagliare tempo in musica: si ha la sotterranea sensazione di non trovare mai l'armonia, la giusta sincronia tra il metallico martellare dei tamburi in sottofondo e il battere del nostro misero cuore, fatto di sangue e carne.
Sarà forse per questo che sono incapace a ballare? Sarà forse per questo sbaglio prenatale, nel redarre la mia data di nascita, che odio la discoteca?
Ancora - vi prego - di non fraintendermi: non sono un moralista, non sono un bigotto, cerco di stare al passo dei tempi, d'altronde sono uno studente. Ma il guaio è che sono lievemente misantropo: c'è chi è lievemente astigmatico, io sono lievemente misantropo. La differenza è che ancora si devono inventare le lenti che ti fanno apparire belli gli altri.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Se fossi un esperto di storia, per consolarmi, potrei scrivere un saggio su come si viveva nel medioevo e convincermi che in fondo è meglio una fila alla posta che un'orda di barbari assatanati. Se fossi un esperto di fisica, per consolarmi, potrei scrivere un saggio sul tempo e convincermi che in fondo esso è relativo. Infine se fossi un esperto di psicologia, per consolarmi, potrei scrivere un saggio sui sintomi della malattia mentale che questi pensieri precorrono e convincermi che in fondo è tutto razionalmente giustificabile.
Ma sono uno studente. E, a ben pensarci, per spiegare il perché di queste sensazioni e di quella domanda, dovrei arginare il ruscello sotterraneo con una diga di grigio cemento inerte per prelevarne un campione, brulicante di germi di sensazioni oscure, e analizzarlo.
Ma così come potrei poi irrigare i miei verdi campi interiori? Mi seccherei tutto, diverrei un arbusto decrepito, rinsecchito dall'eccessivo calore del Sole: un cadavere con una provetta di se stesso fieramente serrata nella sua mano destra e il sorriso ebete di chi si è giustificato stampato sui denti in mostra.
Forse, in generale, per spiegare razionalmente noi stessi dobbiamo prima ucciderci?
Forse, in generale, per spiegare razionalmente la natura, gli animali, il mondo, il cosmo, dobbiamo prima logorarli, torturarli, sterminarli?
Ma poi che ce ne faremo di un cadavere?
Di solito i morti si celebrano.
Così a volte gli uomini fanno con se stessi : per essere celebrati si uccidono in modo che gli altri li possano celebrare poiché puzzano di decomposizione, di putrefazione, di cadavere verace.
Altri che non sono così "ambiziosi" si devono difendere. Da che cosa? Credo dal freddo contatto col prossimo. Tutti temiamo il gelo profondo del cuore altrui che secca i nostri frutti amati, quelli custoditi in serre artificiali il cui accesso dispensiamo con molta parsimonia. Nulla di biasimevole, meglio dei morti il cui contatto col prossimo non li spaventa: nulla hanno più da perdere, o meglio da guadagnare. Quelli meno "ambiziosi" amano avvolgersi in odiate armature.
Ma un'armatura cos'è?
Un pezzo di freddo metallo morto che ti protegge la calda pelle rovente e delicata. Uno strumento di difesa pesante e oppressivo che quando cadi non ti rialzi più, come uno scarafaggio che il vento ribalta. Togliersi un'armatura. Quanto è difficile e lungo e lento togliersi un'armatura. Ma, mi si potrebbe ben obiettare, è pure difficile penetrare un'armatura.
Tutto sta a capire quale è il limite tra una ferita e l'Esistenza.
Tutto sta a capire quanto è vantaggioso poter finalmente vedere ciò che scorre di più vero e proprio dentro di noi, ciò che c'è di più rosso e vivo: il nostro invisibile sangue. La sofferenza che causa un rivolo o un fiotto di sangue che scorre limpido e rovente sulla nostra morbida pelle ad irrigarla per una nuova stagione, può divenire un'insana e piacevole abitudine.
L'abitudine di Esistere.
Ed io? Io sono uno studente. A dir la verità sono uno studente vigliacco.
Ben si intenda, un vigliacco con se stesso, con gli altri non ci faccio caso e neppure mi interessa. D'altronde che gusto c'è a scappare di fronte a chi ti può far provare il tepore caldo e oscuro della tua linfa interiore, della mistica energia liquida del tuo sangue che non puoi mai vedere ma solo immaginare? Molte volte, però, mi consolo convincendomi che i morti sono stati talmente vigliacchi con se stessi da uccidersi e gli uomini con l'armatura hanno avuto talmente pudore e paura del proprio corpo da coprirsi.
Ma questo non basta a salvarmi.
Io sono un vigliacco perché quando mi trafiggono mi anestetizzo, così vado avanti, cammino, inciampo storpio e malsicuro. A volte in questo modo riesco anche ad essere ridicolo. Essere ridicoli può essere conveniente se ti prendono con simpatia. Ma spesso non si distinguono le due cose. Non si distinguono le cose. Così io non distinguo i morti dai vivi, né, a volte, un albero in fiore da un palo della luce.
Ecco così io sono ridicolo.
Non riesco a capire e a farmi capire, quando mi sembra che qualcuno abbia capito quello che volevo dire, non mi sembra più che io l'abbia detto. Sono malato? Forse, ma meglio malato che morto.
In confidenza credo soltanto di essere un po’ autistico. No - l'ho già scritto - non ne so nulla di psicologia, ho solo letto il vocabolario.
Mi capita di essere convinto di avere detto una cosa che forse mi sono semplicemente ripetuto dentro. D'altronde, signori miei, chi è che non lo fa?
Tutti quanti, ad esempio si ripetono date, appuntamenti, eventi, nomi, idee, numeri di telefono e di autobus, così sono convinti che esistono.
Che cosa?
Bè, sia loro sia l'autobus.
O meglio, se esistono è perché sono convinti che esistono date, appuntamenti, eventi, nomi, idee, numeri di telefono e di autobus.
Non vi pare credibile? Vi sembra la sparata di un misantropo autistico e anche lievemente astigmatico? Bene, per persuadervi, vi racconterò una storia, una storia vera vissuta dal sottoscritto poco tempo fa. Una storia che renderà giustizia a ciò che sostengo riguardo all’esistenza e all'autobus, nonostante i suoi contorni lievemente ameni e bizzarri.
2.
A volte capita che l'autobus non passa.
Molte volte capita che l'autobus non passa.
Allora li puoi vedere impalati alla fermata, rabbiosi, che digrignano i denti o si masticano una sigaretta accesa - il che li rende ancora più rabbiosi quando arrivano al filtro. Alcuni leggono, altri ammirano le figure del giornale sfogliandolo, altri ancora sbirciano il giornale di questi ultimi, ma i più scrutano in direzione dell'autobus come se guardassero i risultati del Giudizio Universale.
Unico punto di riferimento fermo, fisso, immutabile, eterno: il cartello della fermata. Esso è il simbolo, il totem di questa tribù di cittadini, è il segno esteriore dell'attesa forzata: nel suo intorno la gente è obbligata a fermarsi, ad attendere, ad aspettare. Non a caso l'hanno fatto giallo, colore che, se non erro, significa proprio 'attesa'. Questo è il problema principale:
La fermata, l'attesa.
Attendere non implica essere passivi. Ma, come dicevo sopra, è difficile distinguere e si confonde spesso l'attesa con l'essere passivi. Attendere penso sia più apparire passivi che esserlo. Ma poiché, come dicevo sempre sopra, è difficile distinguere, si confonde spesso l'essere con l'apparire.
D'altronde cosa fanno loro? Fanno finta di essere attivi leggendo, guardando, fumando, digrignando denti, ecc. Ma se riescono a convincersi di essere attivi, non riescono a esserlo. E, se non si riesce ad essere, è la signora Esistenza la prima a inquietarsi.
Io, dal canto mio, sono nato pensieroso. E pensavo, come mi è solito fare, con un libro in mano. Lo faccio nella vaga speranza che la magnanimità spirituale dell’autore, anche se morto, potesse trasmettersi dalla copertina di plastica alla mano di carta fin su al mio garbato cervello, in una mistica osmosi.
Dico vaga perché è una di quelle credenze che superficialmente rinnego ma a cui mi ancoro negli abissi. Difatti quelle rare volte in cui ne ho parlato a qualcuno la descrivo ironicamente con quel tono di burla di chi sa che mente. Di chi sa di mentire sul fatto che scherza, cioè che mente.
In quel momento mi capitò proprio di perdermi in questi arzigogoli, di pensare a come pensavo. E mi tornarono in mente, non so perché, le parole di una mia cara professoressa dell’università:
“Nell’ottocento c’era il tabù del sesso, poi venne il femminismo e oggi c’è il tabù del misticismo”.
Che c’entrava questa riflessione con i miei pensieri?
La risposta fu quasi immediata ma venne dal profondo trascinando con sé, come un fiume in piena, ciottoli di vergogna e di pudore: il mio imbarazzo velato dall’ironia nel parlare dell’osmosi mistica deriva proprio dal tabù del misticismo che affligge il nostro secolo. Come qualsiasi tabù tutti sappiamo che esiste ma nessuno ne parla oppresso dal ritegno collettivo.
Ma ora voi mi chiederete scocciati, cioè turbati, da tutte queste inezie: “Caro studente che c’azzecca l’autobus col misticismo?”.
Non vi preoccupate, abbiate fiducia.. un po’ di pazienza.. voglio dire, lasciatemi l’opportunità di rendermi ragione, di giustificare certe connessioni.
Anzi non devo giustificarvi nulla. D’altronde vi avevo già avvertito: io sono uno studente pensieroso. Perciò, in qualche modo, sono uno studente vigliacco.
Sono nato pensieroso, e chi pensa è in attesa e voi dovete, sottolineo dovete, aspettare che io pensi. Forse dovreste avere pazienza, ma non giustificarmi.
No Grazie.
D’altronde chi pensa aspetta un autobus che forse non passerà mai.
Ma, quel giorno, neanche il 171 sembrava che avesse l’intenzione di passare: aveva deciso di attendere, aveva deciso di far pensare.
Gli autobus che non passano sono oramai una delle poche cose che obbligano a riflettere.
Dopo una buona manciata di quarti d’ora, l’atmosfera era divenuta molto, troppo tesa. Quando si pensa il cervello si surriscalda e successivamente, come è noto, si comincia a fondere. Questa fusione innesca una reazione di tensione, una tensione verso l’interno: una riflessione interiore, un’introspezione. Un’implosione che solleva detriti di mondi sepolti e spoglie di offuscate emozioni, lontane e nere come terre remote. Offuscate dalla disabitudine ad essere consapevoli, che cozza inevitabilmente con la necessità di aspettare, di fermarsi, di non poter mettere più scuse. Ma v’è chi non è abituato a sopportare tutto il peso del proprio sguardo che crolla pesante dentro se stessi. V’è chi non è abituato a patire questa snervante tensione che s’apre nell’abisso, più o meno fragile, del “se stessi”.
Purtroppo, uno di questi, trasformò la sua implosione in un’esplosione.
E l’esplosione colse proprio me.
"Cavolo! Mi dica se esisto o non esisto!!"
Mi urlò sul naso, disperato perché l'autobus non passava. Mi aveva preso per il bavero della mia camicia verdina e aveva la bocca carnosa proprio all'altezza del mio naso, sicché potevo anche avvertire con facilità il cattivo odore del suo alito. Il cattivo odore di cadavere verace.
Rimasi sorpreso, allibito, esterrefatto: che fare? Allora, curvando nervosamente nel palmo della mano il libro, mi sono messo a pensare alle vigenti teorie 'su ciò che vi è -quante cose si pensano quando qualcuno o qualcosa ti urla in faccia.
Essendo uno studente di filosofia almeno qualcosa potevo dirgliela per consolarlo. Ma il grande guaio di questioni così grandi è che per ogni risposta ve ne sono almeno tre che la contraddicono -la filosofia è nota per questo. Non mi sembrava giusto propendere per una piuttosto che per un'altra, ma un'ennesima zaffata di malodore del suo fiato cadaverico mi convinse a fare una scelta, accantonando così qualsiasi problema di ordine deontologico - quante zaffate di morte fanno accantonare altrettanti problemi deontologici o morali. Alla fine mi risolsi per la teoria della relatività ontologica di W. V. O. Quine: una buona teoria di compromesso, ancora abbastanza recente da avere anche un pizzico di quel particolare fascino effimero che è la Novità.
Ma una sensazione di pericolo immediato cancellò tutti questi pensieri, qualcosa mi stava investendo dal profondo...
"Te levi o ce famo notte?!?"
Era l'autista del 171, finalmente giunto, che mi chiedeva gentilmente di spostarmi dalla strada per fare accostare il mezzo alla fermata.
"Secondo W. V. O. Quine v'è un problema di..."
Mi stavo accingendo a rispondere al signore quando mi accorsi che era repentinamente salito sull'autobus: con passo deciso e qualche gomitata voleva riandarsi a prendere l'Esistenza che gli avevano rubato, che un numero, il 171, gli aveva rubato. Salii anch'io sul bus e osservai bene il signore: era un uomo di mezza età, alto, robusto anzi oserei dire un pochetto obeso - più si è corpulenti più è difficile tenere insieme tutta quell'Esistenza - lievemente canuto, ma con un volto curato e ben proporzionato, senza barba e baffi. Feci capolino, tra tutte quelle teste multiformi e quegli arti protesi, e lo individuai. Ora incedeva deciso e sicuro verso la prua, verso il conducente, che, in questi casi, viene anche creduto il rapitore privilegiato delle Esistenze altrui. Il signore travolgeva nella sua marcia esistenziale qualche inutile passeggero che gli si era frapposto. Ma anche questi esseri dovevano recuperare la loro signora Esistenza: fu così che si scatenò un acceso e confuso turpiloquio tutti contro tutti.
Il turpiloquio del 171: "il ratto delle Esistenze".
Nessuno mirava a capire cosa accadeva, ognuno puntava a riacciuffare la propria esistenza. Tutti urlavano con il primo che gli capitava sotto mano, o a volte sotto ascella - di solito questo primo era infatti più minuto e più basso. Acchiappavano per i capelli la loro Esistenza.
Quella che una fermata fa perdere.
Chi non aveva il coraggio di urlare, o che sfortunatamente apparteneva alla classe dei "più minuto e più basso", si limitava a bofonchiare qualcosa tra le labbra: quel flatus voci era sufficiente a richiamare la loro Esistenza.
Quella che una fermata fa perdere.
Quest'insensata reazione a catena durò piuttosto poco: le nostre signore Esistenze sono, in fondo, brave persone. Basta poco per farLe fare quel poco che appaga il passeggero medio.
E il signore dall'alito pesante?
Data la sua mole trasbordante era ancora impegnato in un alterco con il conducente. Questi, però, era uno di quei tipi con armatura di piastre scintillante e al completo. Così ci volle più tempo per saziare la fame del nostro signore, o meglio della signora Esistenza del nostro signore.
Finito il diverbio si voltò nella mia direzione. Allora decisi di lasciarlo perdere, vedendo nei suoi occhi riaccendersi il fuoco fatuo di una qualche sicurezza riconquistata col sudore dell’aggressione. D’altronde lui rimase immobile guardandomi, non so ancora perché, con un’aria tra l’altezzoso e lo schifato. Evidentemente, pensai, nulla oramai lo poteva più scalfire, neanche qualche gomitata o il puzzo di umanità che non poteva trapassare il suo nauseabondo di cadavere verace. È vero che ancora doveva aspettare per arrivare al suo amato alveare di cemento, ma adesso poteva perdere il suo sguardo nello scorrevole paesaggio urbano circostante, e magari borbottare qualcosa sul traffico o sui parcheggi o sugli extracomunitari ai semafori. Questo avrebbe giovato a riassestare definitivamente la sua Esistenza, la sua signora Esistenza.
E io? Bè, io sono uno studente. Uno studente tranquillo. Non ho mai avuto tanto bisogno di reclamare col prossimo per la mia Esistenza. Ma questo, vi garantisco, è un grosso guaio per me. Già perché la mia signora Esistenza è un tipo piuttosto incontentabile. Infatti, anche in questo caso, fece i suoi dannati capricci e si vendicò.
Si vendicò facendomi accadere qualcosa di gratuitamente illogico, una di quelle cose che quando accade non sai con chi te la devi prendere, ma è proprio ciò che le rende gratuite o illogiche. Voglio dire, quasi sempre ciò che è illogico è gratuito e viceversa.
Ma questo era illogico e gratuito.
Finito il turpiloquio, quando tutti furono soddisfatti e paghi dei loro reclami, cominciò il forno: tutte quelle Esistenze, calate contemporaneamente sul povero autobus, lo avevano riempito fino all'orlo rendendolo un carnaio di umanità rovente.
L'odore aggressivo e nauseante di cadavere verace si mescolò a quello asettico e freddo del ferro delle armature, e io esultavo quando risultava positiva la sottrazione tra le persona che scendevano e quelle che salivano.
Mentre ciò mi suscitava sempre più forte un ricordo acre e nostalgico della scuola elementare, delle somme, delle sottrazioni e dei problemini svolti alle elementari, cercai una soluzione per distrarmi da questa soffocante sensazione di sovraffollamento.
Cercai allora di alzare il libro di Dostoevskij che avevo in mano fino ad un’altezza leggibile. Non era un’impresa semplice data la densità di membra, organi e arti che schiacciavano e seppellivano la mia povera mano, la quale a sua volta, come una madre premurosa col proprio figlioletto, teneva stretto il libro fin quasi al soffocamento.
Subitanea mi tagliò la mente una causalità che mi fece sbottare in un’amena risata: Il titolo del libro era grottescamente adatto alla situazione che la mia povera mano stava soffrendo:
“Memorie dal sottosuolo”, e il sottotitolo, sentenziò da dentro una voce sardonica, ancora di più alla situazione generale:
“storia di una nevrosi”.
Spegnendo il fuoco delle risate che -non sia mai- urtano il ritegno del passeggero medio, come se la pressa collettiva non dovesse essere presa sottogamba, sollevai con sforzo immane il libro quanto basta per poter appena decifrare i caratteri e farsi così calare la vista di un paio di diottrie in una manciata di minuti. Lessi, se non ricordo male, proprio queste righe:
“Del resto cosa sto dicendo? Lo fanno tutti; delle proprie malattie la gente mena vanto, e io, a dirla franca, più degli altri. Non stiamo a discutere: la mia obiezione è assurda. E tuttavia io sono fortemente convinto che la consapevolezza, non solo eccessiva, ma qualunque consapevolezza, sia una malattia”.
Sorpreso e affascinato, mi sono soffermato a pensare un attimo. Non solo ero pienamente d’accordo con quello che vi era scritto, ma avvertivo la strana sensazione di un’empatia forte verso quest’uomo, questo personaggio, verso Dostoieskij. Come se la consapevolezza di cui lui parlava fosse un corpo oscuro, un organo dimenticato che questa lettura mi aveva risvegliato. “Ma forse non è proprio questa consapevolezza che mi fa provare una insana voluttà nel farmi ferire, nel lasciarmi schiacciare dalla eccessiva comprensione? Dalla comprensione, dall’inglobamento dell’altrui Esistenza?
Tutto sta a capire qual è il limite tra una ferita e l’Esistenza, tra la comprensione e l’essere schiacciati, come in quest’autobus, dall’obesità dell’altrui Esistenza.
Tutto sta a capire qual è il limite tra il dolore della ferita e il piacere del proprio sangue che genera quella strana abitudine: l’abitudine di Esistere”.
Mentre ribollivo di queste domande balzane, ebbi una percezione bizzarra, in qualche modo connessa a quelle domande. Era come se a posto del libro reggessi la sua eccelsa testa che, con quel tono amaro, e quell’animosità rabbiosa, mi sputava in faccia quelle parole leggendole (lui e non io) dal mio animo. Già, ma la cosa più strana e che poi il libro, cioè la testa, mi sussurrò queste altre parole, senza che le leggessi:
“Lo dico davvero: probabilmente avrei saputo trarre anche da questo una sorta di piacere, si capisce, il piacere della disperazione, ma è appunto nella disperazione che si scovano i piaceri più ardenti, soprattutto quando ti rendi conto che la situazione è senza via d’uscita”.
Gettai immediatamente il libro in preda al panico totale: avevo avuta l’empia sensazione di non stringere la copertina di plastica del mio libro, ma la superficie un po’ viscida e morbida di una chioma unta, e con i polpastrelli avevo anche sfiorato, forse, ciò che assomigliava al cuoio capelluto. Voltai immediatamente lo sguardo alla ricerca disperata d’aiuto verso il passeggero che mi stava più vicino, molto vicino.
Era una signora sulla sessantina, il cui sguardo eloquente recitava più o meno maternamente: “Alla tua età già soffri di sclerosi?”.
Forse aveva visto solamente l’istante in cui avevo lanciato il libro in preda a spasmi di panico?
Forse non aveva notato l’impossibile metamorfosi della plastica in carne, della copertina in volto, delle pagine di cellulosa in capelli di cheratina?
“Forse non è Consapevole, cioè, non è malata?” pensai improvvisamente colto da una sensazione bruciante di inquietudine stabilizzata, ovvero di fredda Consapevolezza. E mentre riuscivo a convincermi che non v’era alcuna malattia vagante, nessun germe che si trasmetteva tramite quelle inerti pagine, fissavo col sorriso inebetito di chi si deve giustificare per non aver commesso nulla, ma per aver infranto qualche specie di ritegno, quella signora.
Passato qualche attimo mi tranquillizzai, mi feci forza e guardai in basso: tra una foresta di arti inferiori di bipedi saccenti individuai il mio libro, oramai pressato in tal modo da aver acquistato lo spessore di un manualetto di istruzioni per elettrodomestici inutili.
Mi rassegnai a raccoglierlo quando l’autobus si sarebbe sfollato.
Nel frattempo mi calmai, anzi, mi dovetti calmare, visto che nulla calma di più se non lo sguardo ibrido, metà sdegnato e metà indifferente, dei miei numerosi vicini di corsa -chissà perché nulla tranquillizza di più dell’opinione pubblica sdegnata o indifferente?
C’era chi mi fissava corrucciato come se avessi un’enorme macchia di sugo sulla camicia (“o forse di muco?”mi domandai scrutandomi). C’era invece chi mi squadrava con aria disgustata come se qualche escrescenza fosse fuoriuscita dal mio corpo in modo orripilante. Infine menziono il tipo peggiore: quello che ti guarda con aria paternalistica, come certi papà guardano i loro bebè che hanno commesso una bighellonata: “dai, su, forza, non è colpa tua è che sei semplicemente un povero idiota”. È uno sguardo di pietà e pena che ti fa sentire un vero imbranato.
È lo sguardo proprio di chi non riesce più a considerare gli altri come degli esseri viventi, perché lui stesso non è più un essere vivente.
Comunque nessuno, dico nessuno, osò degnarmi di una parola o accennare a un gesto per riprendere il libro, o addirittura, e son conscio che la mia adesso è pura utopia, lanciarmi un sorriso di rinfrancamento, di consolazione, di comprensione, oserei dire di solidarietà umana.
“Non c’è dubbio”, pensai in quell’istante preso da un rancore infantile, “l’Indifferenza è la sorella della Tecnica”.
Ora vi spiego, non equivocate.. abbiate pazienza.. ve l’ho già chiesto. Non sono un tecnofobo o un bioeticomoralistateologospirantesanto. Difatti, essendo uno studente, uso il computer (coi videogiochi mi diverto molto), l’automobile (anche se odio guidare), la lavatrice, la lavastoviglie, il rasoio elettrico, l’orologio portatile digitale multifunzione (con missili Patriot incorporati), la macchina fotocopiatrice in miniatura (sicché puoi fotocopiare solo francobolli), Internet (con cyberfricpunkwebserverspazio), il videoregistratore, le mutande fosforescenti a intermittenza (modello albero di Natale).. ecc.
Non sono, quindi, un tecnofobo ma il pensiero riguardo all’Indifferenza e alla Tecnica che ebbi sull’autobus è giustificato da quella che ho soprannominato la
Legge dell’asfalto
La solidarietà umana è direttamente proporzionale al rapporto tra la densità di materia organica e quella inorganica nel volume considerato. È da considerarsi materia inorganica ciò che appare come materia organica ma che in realtà appartiene alla classe dei morti viventi (volgarmente detta “non-morti”, ad es. Vampiri, Nosferatu, individui che ti guardano con aria paternalistica nell’autobus, ecc).
Tale legge trae spunto ovviamente da constatazioni empiriche: provate a confrontare il comportamento dei bipedi saccenti allorquando si immergono nelle scatole di latta, dette “automobili”, scambiandosi metafore colorite o gesti eloquenti o strombazzate offensive, con l’inaspettata gentilezza dei passeggiatori di montagna, ove capita, molte volte, che i bipedi saccenti si salutino tra di loro sebbene siano perfetti sconosciuti. Trarrete anche voi di buon grado, spero, la conclusione che vi deve essere una sorta di problema di materia organica, di Esistenze alla base di tali fenomeni antropologici.
E fu proprio qualcosa di strettamente connesso con questo problema che, mentre provavo quel rancore infantile, provocò in me una sensazione ingiustificata di freddo: un brivido bianco mi corse su per la schiena e trillò nel mio cervello garbato. Non mi sembrò possibile per la densità di carne calda, farcita di tiepida Esistenza appena riconquistata, che affollava l'autobus.
"Sarà stato uno spiffero" mi disse, il mio cervello, per tranquillizzarmi. E, per sviare l’attenzione da tutti questi strani fenomeni e da queste occhiate multivoche, multisenso e multicretine (il mio garbato cervello) si mise a ripassare l'esame che stavo preparando. Accade spesso, quando si avverte la scomoda sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di illogico e di gratuito (come la tesa di Dostoievskij, o chi per lui, che ti piomba tra le mani), che ci si rifugi subito nel cantuccio teporoso dei propri “problemi quotidiani”. Invero mi accade una cosa analoga quando vivo un contrasto interiore o sono teso a causa di troppe preoccupazioni: la reazione fisiologica immediata è quella di dormire, di ripiegare le energie, cioè il Tempo, in un altro mondo, che credo (un po’ come l’osmosi mistica) essere collegato direttamente, in qualche modo, con quello “reale”, con quello dell’autobus.
Comunque, di solito, tutti i problemi appartengono alla classe che ho denominato "problemi quotidiani", nel senso che i “problemi quotidiani” sono ritenuti i veri e unici problemi. Il resto o è chiamato "problema eccezionale" - volgarmente detto "sciagura" - o non è un problema.
Ecco quello che mi è accaduto, quello che la mia signora Esistenza mi ha fatto succedere, è stato un "non-problema". E come tutti i non-problemi era stato causato dall’Amore.
Amore.
Ora vi prego di comprendermi: quando dico “Amore” non intendo quella cosa a forma di cuore calda e soffice, dai contorni ben definiti, su cui uno s’adagia comodamente per dormire.
No. Intendo quella cosa a forma di specchio nera e spigolosa, dai contorni offuscati, che quando la scruti nell’ombra dell’insicurezza ti accorgi che stavi dormendo.
Ecco, anche nel mio caso, con la mia signora Esistenza, fu così, vi fu un problema amoroso.
Ma ora, se mi fate la cortesia di non interrompermi più con questi incisi sui problemi e i non-problemi, sulla “legge dell’asfalto” e gli sguardi multicretini, che sono ovviamente ancora un non-problema, potrò finalmente continuare la narrazione dei fatti che mi accaddero.
Grazie.
Quando improvvisamente mi risvegliai dal fitto ripasso di date, eventi e uomini pensanti, trapassando dal cosmo della cultura al mondo dell’autobus, mi accorsi che dovevo scendere. Così mi feci largo verso il campanello che serve a prenotare la fermata - toglietemi una curiosità, è necessario prenotare la fermata perché essa è una cosa tanto rara? O semplicemente perché si deve programmare anche quando fermarsi?
Allungai il mio lungo arto superiore destro al pulsante di plastica bruciacchiata arancione. Mozzai un paio di orecchie e cecai qualche dozzina di persone prima di averlo quasi raggiunto.
Un altro brivido di freddo, più forte, più violento, mi distrasse per qualche secondo, il tempo necessario affinché un'altra giustificazione fosse sfornata dal mio cervello: "hai la febbre!".
Ma il tracollo, della mia povera scatola pensante, fu sfiorato quando esso mi sorrise. Dilatò le sue estremità mostrandomi la parte priva di vernice, bianca, emettendo un rumore acuto simile a quello provocato dalle unghie che grattano sulla lavagna:
il pulsante mi sorrise.
No, meglio, ora che ricordo non fu un sorriso, piuttosto un ghigno. Un ghigno che, più o meno, recitava così: "Prova a schiacciarmi, stupido inEsistente!".
Come potreste immaginare rimasi orripilato per qualche minuto. Questa volta ero convinto che era successa qualcosa che non sarebbe dovuta succedere.
Ma, ovviamente, nessuno si accorse della mia posizione da idiota, con il dito, del mio lungo arto superiore destro, che sfiorava millimetricamente il bottone arancione e il mio tronco slanciato ad arco sopra e contro il volto di qualche altro comune passeggero.
D'altronde l'indifferenza, insieme al ritegno, è una delle doti principali per domare l'Esistenza. Certo, è vero, ci vuole anche una grossa capacità nel non voler comprendere l'altrui non-problema. O meglio una grossa capacità nel voler classificare l'altrui come un non-problema.
Ecco, siete riusciti nuovamente a farmi scrivere un non-problema parlando dei non-problemi. Prego gli individui più attenti tra voi, quelli che si distraggono di meno, di farmi evitare queste inezie interiori.
Per quanto è possibile.
Lo stupore passò e mi convinsi di non stare molto bene. D’altronde “non stare bene” è comunemente un sinonimo di “problema amoroso”, che è simile a “non-problema”, che significa, appunto, inezia interiore.
Per quanto è possibile.
Comunque quei minuti, che a me sembrarono un'infinità, in cui rimasi immobile coll’indice puntato verso il pulsante, il vuoto siderale intorno a me, e il suo ghigno impresso in mente, bastarono a farmi saltare la mia fermata e parecchie altre.
Guardai avanti: erano scesi.
Mi voltai: erano scesi tutti, tutti tranne l'autista ovviamente.
I brividi di freddo oramai erano continui. Una goccia di sudore gelato mi tagliò la fronte fino a schiantarsi sulle sopracciglia. Le mani mi tremavano terribilmente - come quando temi che quello che desideri s'avvera, sicché non avrai più nulla da desiderare.
"È febbre, son sicuro che è febbre". Mi ripeteva, ormai con tono flebile il mio povero cervello, che, con un colpo di coda finale, fece emergere, a poco a poco, da dentro, una strana sensazione di sfida. Una sfida che quel malefico pulsantino arancione m'aveva lanciato.
Non potevo non raccoglierla: dovevo suonarlo, colpirlo, schiacciarlo come un verme. Lo fissai strizzando gli occhi, digrignando i denti e gonfiando i muscoli delle dita. Caricai il mio indice longilineo dalle unghie rosicchiate e i polpastrelli ben in rilievo e.. sparai.
Cilecca.
"L'ho mancato, non ha suonato" cercai di convincermi per qualche lungo minuto.
Convincermi, perché, ora che ci ripenso, mi costrinsi a credere di averlo mancato. Se la mia molle massa cranica fosse stata consapevole di averlo centrato e oltremodo trapassato (senza aver suonato) credo che sarei stato colto da una grave crisi di grasse risate isteriche.
Ma non fu così.
3.
L'autobus s'era appena fermato al capolinea e l'autista dopo averlo spento era sceso dalla porta anteriore, lasciando chiuse le altre, non essendosi accorto della mia presenza -e non credo che se mi avesse notato mi avrebbe detto qualcosa.
Tutt’intorno v’era la campagna.
Campi arati e selvaggi si mescolavano nel chiarore argentato della luna, in lontananza si potevano scorgere le luci della strada che avevo percorso immergersi e poi fuoriuscire da una collinneta. Qualche fattoria solitaria sbucava dai prati scoscesi e macchiati da alberi sfogati e irriconoscibili, mentre l’autista si stava fumando una sigaretta passeggiando lentamente come se la mancanza di altre macchine, di altre persone, avesse rallentato il battito del suo cuore e i suoi movimenti.
Questa linea collegava una zona molto periferica con una al ridosso del centro storico. Era una linea particolare in cui dovevo scendere in un momento particolare. Dovevo scendere poco prima che la comoda civiltà sparisse per lasciare spazio alla natura selvaggia e brutale.
Ma quel giorno avevo perso il momento giusto, qualcosa mi aveva fatto perdere il momento giusto e avevo oltrepassato il confine proibito, divenendo Consapevole di qualcosa che non avevo mai visto:
l’altro capolinea del 171.
Ma v’era qualche cosa, qualche cosa di indicibile che s’annidava da qualche parte in questo luogo. E aspettava. Aspettava strisciando nell’ombra ambigua della luna, nell’erba alta e aguzza dei prati.
“Oggi sono andato al di là del punto di non ritorno” pensai improvvisamente scrutando da dietro i finestrini l’ombra del gabbiotto del capolinea, cercando di scorgere se c’era qualcuno dentro.
“Nessuno. Non vedo più neanche l’autista con la sua minuscola fiaccola orale..”.
Fu allora che guardai nuovamente le distese sconfinate e buie per cercare la presenza di qualcuno. Invece notai soltanto che quella striscia di luce che segnava la strada assomigliava in modo ameno alla bava fosforescente di una gigantesca lumaca mostruosa.
“Quest’autobus mi sta inghiottendo, mi vuole ruminare, anzi quest’autobus è la gigantesca lumaca dalla bava fosforescente..” una claustrofobia schiacciante s’impossessò di me a tal punto che ancora ricordo il pulsante arancione gonfiarsi come un airbag impazzito fino a soffocarmi, ghignando divertito come un re folle al cospetto della testa mozzata del suo peggiore nemico.
Allora corsi giù dal bus: ormai quel maledetto pulsante obeso, la lumaca-autobus e l’autista desaparesidos mi avevano fatto saltare il sistema nervoso, mi avevano innervosito a tal punto che la sensazione di sfida mutò repentinamente in una oscura consapevolezza: la consapevolezza di aver perso.
No, non avevo perso la sfida, ma qualcos’altro.
Lo scoprii nel momento in cui, sceso dall’autobus, questo scomparve.
No. Non scomparve. Si trasmutò ghignando anche lui: “Ehilà misero inEsistente ora prendimi se puoi!! Ah, ah, ah!!”. L’eco delle risate dell’autobus mi bloccò il respiro (lo so che non potete avere un’idea delle risate di un’autobus, ma provate a immaginarle; d’altronde è pure difficile avere un’idea di un pulsante ghignante o, peggio ancora, dell’Esistenza). La vista mi si annebbiò e i sensi diventarono piacevolmente ovattati, fui rapito quasi da un senso di stordimento.
Ora credo che quella fu semplicemente la reazione del mio corpo, del mio povero cervello sempre giustificante, a qualcosa di troppo ingiusto per lui.
Adesso penso, spero di aver ricostruito ciò che era successo: quella burlona della mia signora Esistenza, per vendicarsi della mia indolenza, m’aveva fatto uno scherzaccio. Aveva fatto in modo che la perdessi e mi voleva anche colpevolizzare.
Aveva deciso di andare via un pochetto.
Cioè un pochetto di esistenza aveva deciso di andare via, ma non tutta. Credo che l’abbia fatto per gelosia. Anzi oramai son convinto: è stata una scenata di gelosia.
Come vi dicevo prima, se non vi siete ancora distratti e persi, fu un non-problema che derivava da una questione d’Amore. Se non fosse stato così non sarebbe potuto essere un non-problema: come può essere un problema qualcosa che non può essere posto come un problema? Qualcosa che non è analizzabile come un problema? Ma soprattutto, come può essere un problema qualcosa che non è giustificabile, o meglio, giustificante come un problema?
Ma, tornando ai fatti, mi potreste ben chiedere: “gelosia di che cosa”?
Io vi potrei ben rispondere: “la mia signora Esistenza era gelosa che in autobus io me ne stavo lì, immobile, a contemplare tutte quelle altre signore Esistenze che fluttuavano corteggiate da una parte all’altra, senza però dedicarle un minimo di attenzione, senza fare niente per riconquistarla”.
Già, fu sicuramente così che persi la scorsa rugosa della mia Esistenza, quella più vanitosa e gelosa; fu allora che un velo di calda Esistenza, intensa e sugosa come quella dei bambini, eruppe liberata dagli abissi dei ricordi, ove giaceva incantata dal suono del tempo, per devastare come una fiamma impazzita il mondo delle scorse rugose. E avanzava preceduta da schiere di mostri erranti, di pulsanti giganti, e autobus-lumache che brucano autisti e passeggieri lasciando pali della luce come bava fosforescente.
Ma fu paradossalmente così che si avverò un desiderio che sin da bambino avevo.
Un desiderio che, come tutti i desideri infantili insoddisfatti, si era mutato col tempo in domanda esistenziale.
In quella domanda Esistenziale.
Già, fu sicuramente così che tutto cominciò a muoversi, a fluttuare, distorto da singulti di Forma, come quando emerge un ricordo e il paesaggio danza seguendo la melodia delle nostre emozioni, seguendo gli spasmi delle nostre sensazioni. I brividi di freddo si trasformarono in vere e proprie scosse di ghiaccio. E più i brividi mi scuotevano da dentro, più l’autobus, o ciò che un tempo era l’autobus, si contorceva là fuori divenendo etereo, evanescente, con una forma imprecisata, o meglio, da precisare, ancora troppo acerba per essere un autobus, un autobus del duemila.
Sembrava che un Demiurgo folle avesse cominciato a giocare con la Materia, dandogli Forme cangianti, impossibili da intrappolare in queste statiche parole, impossibili da descrivere senza migliaia di contraddizioni: nulla aveva più i suoi contorni o i suoi colori determinati. Tutto appariva come quando ci si leva gli occhiali, come quando si rinuncia a vedere i limiti tra le cose per vederne i punti di fusione.
Forse, come la Luna sostituisce il Sole quando questi si distrae e sprofonda nel letto dell’Ovest, così un Demiurgo insano aveva appena sostituito quello sano, soffocato dalle bucce dell’Esistenza.
Forse accade proprio questo di notte: ci addormentiamo, si addormenta il Demiurgo sano e, di soppiatto, strisciando da sotto i nostri cuscini e da sotto i nostri concetti, il Demiurgo empio s’insinua sul picco del mondo a cambiare le Forme dei nostri pensieri.
Quel giorno il Demiurgo folle e idiota si stava gingillando con il 171. Si stava trastullando con l’Idea di autobus, il quale cominciò a traballare, a mutarsi con forti scosse e contorsioni, come assalito da colpi di tosse. E a ogni colpo sembrò sputar fuori una porzione della sua Esistenza, diventando una serie contemporanea di cose instabili:
Un camion.
(cough)
Un tendone.
(cough)
Una capannone.
(cough, cough)
Un telone.
(cough, cough)
Delle ruote.
(stracough)
Un carroarmato.
(caugh, stracough)
Un carroarmato senza cannone, ma con una tela.
(cough, stracough)
Cioè un telone con le ruote senza cannone.
(cough, stracough, megacough)
Un telone con le ruote, senza cannone, e con due quadrupedi:
(ipermegastrasupercoughissimo)
Un carro con due cavalli.
L’autobus, sfinito da tutte queste convulsioni spasmodiche, s’era finalmente trasformato in un carro.
Era un grosso carro marrone, inghirlandato da tocchi di fango e ornato da ruote sgangherate che infrangevano numerose leggi fisiche classiche e alcune moderne. Aveva attaccati, ad una briglia ovale, due piccoli cavalli tripodi con due occhi scuri e stanchi, solcati dai segni di tutta la strada che già avevano percorso. Il carro era poi ricoperto da una grande tela, ingobbita e ammaccata, bucata a puà(??) da piccole termiti fosforescenti che pascolavano indisturbate sui suoi pendii marci.
Ormai ero talmente scioccato da essermi rifugiato in un cantuccio di me stesso, sotto una fedele scorsa residua, in cui mi ripetevo, come una cantilena liturgica: “Coraggio misantropo studente vigliacco astigmatico, è solo un sogno”.
Il problema è che nei sogni non si sviene. O almeno a me non è mai capitato.
Sicuramente nei sogni può capitare che un palo, il cartello del capolinea, avanzi lentamente, quasi con un passo meccanico, lento, regolato dal peso di un grosso fardello che stava trasportando, o forse indossando: sembrava quasi, proprio, forse... un’armatura.
Certamente in un sogno può anche capitare che il palo, o almeno ciò che sembra il palo con armatura, ma che non dovrebbe esserlo, serri in qualche sua impossibile protuberanza una grossa mazza, e che, senza chiederti minimamente nulla e senza presentarsi o almeno accennare un saluto, un gesto offensivo, un preannuncio di ostilità, te la scagli in testa privo di rimorsi.
Ma non può capitare di sentire un dolore lacerante al cranio e crollare per terra privo di sensi. A me non è mai capitato. “Ma”, potreste ribadirmi con tono saccente e colmo di buon senso, ”c’è sempre una prima volta”.
“E allora”, io vi direi,” ammesso anche che tutto ciò possa accadere, spiegatemi - vi scongiuro - qual è l’origine di questo figozzo dolorante che mentre ora scrivo sbuca proprio al centro della mia folta chioma”.
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