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Il Diario
Prologo
I fatti che sto per narrare dovrebbero essere accaduti circa tre anni or sono; uso il condizionale, perché oramai non sono più certo di nulla: sono stato in cura presso svariati dottori, ho seguito terapie, assunto psicofarmaci, eppure nulla è servito. Potessi, ricorrerei volentieri all’elettroshock, con la speranza di dimenticare l’incubo da me vissuto, o, in alternativa, morire e porre fine ai miei dubbi, alle mie ansie, alla mia paura.
Sicuramente vi chiederete cosa potrà mai essermi successo di tanto scabroso, perciò mettetevi comodi, perché ciò che sto per narrare potrà sconvolgervi; e dovrete ritenervi fortunati, perché se a voi verrà un brivido lungo la schiena, pensate a cosa devo aver provato, essendo io stesso il protagonista di questa maledizione.
Capitolo 1
Il turno serale era sempre stata una scocciatura, e puntualmente io ed i miei colleghi tiravamo a sorte per evitarlo in ogni maniera; non so se fosse per il fastidio delle luci al neon on contrasto col buio fuori o forse perché a quell’ora chi restava sapeva di essere solo nel seminterrato, con la sola presenza del guardiano al piano terra.
Non era certo di conforto lavorare di sera, per via del nostro lavoro; ma si sa, la morte arriva a qualsiasi ora, spesso senza neanche bussare.
Ovviamente, quella sera toccò a me; che sia stata sfortuna, destino o semplice casualità, non lo so, ma so che odio qualsiasi cosa abbia deciso quella serie di avvenimenti che mi sconvolsero.
Ero arrivato all’obitorio alle otto meno un quarto di sera, in leggero anticipo rispetto al mio turno; stranamente ero di buon umore, e congedai Watson, che mi fu grato di averlo sostituito prima. Diedi un’occhiata al tabellone vicino all’armadio dei vari prodotti conservanti per le salme: erano in programma due cadaveri, uno da preparare per la mattina, l’altro solo da inserire in stato conservativo, siccome il funerale era ancora da stabilirsi.
Preparai la valigetta con gli attrezzi necessari, l’astuccio delle siringhe, due bottiglie da mezzo litro di liquido conservante, ago e filo per eventuali ricuciture; preparai poi il corpo, sul tavolo d’acciaio posto sotto ai neon, per avere una migliore luce.
Evidentemente era arrivato di fretta, ed i ragazzi apprendisti non avevano avuto il tempo di svestirlo e prepararlo per noi preparatori; tirai un sospiro, accennando un sorriso mentre immaginavo quei giovanotti che facevano gli scemi con le salme. Un tempo ero stato anche io nei loro panni, durante lo stage della facoltà di medicina, e solo il rettore sapeva quante volte fummo sorpresi a fare scherzi idioti ai nostri compagni.
Guardai l’ora: avendo solo due corpi, potevo andare con calma, cosicchè sistemai lo sgabello, accesi la radio e mi misi a spogliare il corpo canticchiando sulle note di “the house of the rising sun” dei The Animals.
Era un uomo, sulla cinquantina circa, alto circa un metro e ottanta, robusto e dall’aspetto sano; aveva parte del cranio palesemente sfondato, e leggendo il referto capii che si era suicidato gettandosi dal quarto piano di un condominio. Nulla di nuovo per chi lavora nel mio campo, perciò iniziai ad esaminare la regione cranica sinistra, ovvero quella dove probabilmente aveva battuto sul marciapiede; preparai del collagene, idrossiapatite ed alcuni alloinnesti per rendere il viso presentabile ai parenti.
Iniziai la mia opera, tagliando, inserendo, ricucendo e via da capo in un altro settore, mentre minuto dopo minuto, il viso riassumeva una parvenza decente, quasi come a volermi ringraziare di tutto il lavoro che stavo svolgendo.
Capitolo 2
Erano da poco passate le undici, mentre alla radio continuavano a passare vecchi successi degli anni sessanta e settanta; mi ero tolto il gilet, restando solo con la camicia ed il camice, concentrato al massimo sugli ultimi punti di sutura presso la regione occipitale della salma.
Durante l’operazione, avevo notato alcune irritazioni della pelle del viso, simili a pizzicature o piccoli morsi; il livor mortis, in seguito all’ aver portato il corpo a temperatura ambiente, aveva fatto riemergere quei segni sulla pelle, che all’inizio non avevo constatato.
Quando finalmente distolsi la mia concentrazione dal cranio, notai che su tutto il viso vi erano decine di quelle punture; per l’esperienza che avevo potevano essere frammenti della finestra dalla quale si era gettato, o forse ghiaia sparsa sul luogo della caduta, perciò mi limitai a preparare i trucchi per mascherare quelle chiazze rosse del tutto antiestetiche.
Mentre ero in piedi, spostai anche i vestiti del cadavere, quando all’improvviso cadde un libretto da una delle tasche; mi stupì, ma non più di tanto: come era successo già prima, pensai ai soliti apprendisti che dimenticavano di fare questo o quell’altro.
Dopo aver posato gli indumenti, tornai a raccogliere l’agendina e, vuoi per curiosità, vuoi perché ero in anticipo sulla tabella di marcia, iniziai a sfogliarlo.
Dio solo sa perché lo feci. Anche se ora dubito nell’esistenza di un Dio benigno, visto quello che mi successe.
Capitolo 3
Le prime pagine erano strappate, e da quel che rimaneva, si leggevano indirizzi e numeri di telefono; era stata un’agenda quindi, ma ora aveva assunto la funzione di diario; infatti, dopo una decina di fogli strappati, iniziavano pagine scritte fittamente, con una calligrafia curata, sebbene molto opprimente e calcata.
Spensi la radio e mi misi sullo sgabello, sfruttando appieno il neon mobile sopra il tavolo; l’inizio era firmato “Harrison P. Lawless”, e si proponeva di essere un resoconto riguardo alcuni strani avvenimenti non meglio specificati, successi in casa sua.
Sorrisi: se si era suicidato non doveva essere molto sano di mente, e quel presunto diario mi stava confermando una personalità paranoica ed impulsiva; sia maledetta la curiosità che mi fece proseguire, perché ero solito ignorare la natura che aveva portato alla morte del mio “cliente”: quella volta non resistetti, e volli sapere di più.
Le prime annotazioni riguardavano la scoperta di diversi nidi di corvi e cornacchie, comparsi quasi all’improvviso nel mezzo dell’inverno; l’autore spiega che in precedenza tali animali erano rari, o comunque preferivano le zone rurali, distanti dal suo condominio. Seguivano numerose pagine con spiegazioni più o meno scientifiche, che tuttavia si interruppero: si faceva riferimento ad un “episodio” avvenuto giorni prima, a cui il proprietario del diario attribuiva la comparsa dei volatili.
Potevo notare che la calligrafia era cambiata, era sempre calcata e decisa, ma ora più frettolosa, presentava molti errori dovuti all’eccessiva velocità di chi scriveva, forse detta dall’agitazione o dalla paura.
Incuriosito, saltai intere pagine per capire di cosa si trattasse tale episodio scatenante: finalmente lo trovai scritto esplicitamente; H. P. Lawless aveva visto nella comparsa dei corvi una sorta di “vendetta” per un volatile, della stessa specie, da lui ucciso in modo cruento, quasi sadico.
Doveva averne di fantasia, quell’uomo, per scrivere simili delirii; mi alzai ridendo tra me e me, mentre mi accendevo una sigaretta per distendere i nervi.
Ripresi la lettura, desideroso di scoprire altro, capire come potevano degli uccelli, grossi circa quanto delle galline, portare un uomo al suicidio.
Capitolo 4
Non badai nemmeno all’ora, mentre il fumo saliva silenziosamente al soffitto; scorrevo le pagine rapidamente, e con la stessa rapidità capivo che l’autore diventava giorno dopo giorno sempre più scosso, più paranoico.
Affermava di sentirsi decine di occhi addosso, aveva paura di quei becchi neri e immobili, gli vibravano i timpani al gracchiare di quelle creature; se inizialmente aveva cercato di ignorarle, dopo alcuni giorni affermava di aver chiamato più volte disinfestatori, giardinieri e altri conoscenti per ottenere aiuti più o meno pratici per cacciare quegli animali. Ma nulla era servito, tutti gli alberi del giardino circostante erano puntualmente addobbati dai nidi dei corvi.
Iniziò a limitare le uscite solo per lo stretto necessario, dopo che un paio di corvi si gettarono su di lui mentre entrava in macchina per andare al lavoro; essendo un ricco imprenditore, potè rinunciare a muoversi, delegando altri dei suoi incarichi.
Iniziò quindi a barricarsi in casa, mandando domestici a far le compere che, seppur anche loro stupiti dall’arrivo dei volatili, vedevano nel comportamento del loro padrone solo il timore ingiustificato di chi non ha mai vissuto in campagna, circondato da animali più o meno selvatici.
Un mese dopo la comparsa dei corvi, la cuoca si licenziò, affermando di essere stata sfregiata al volto ed alle mani da una decina di volatili, a detta sua violenti senza alcun motivo. L’autista fu licenziato, per il suo bene secondo il signor Lawless, una settimana dopo, visto che l’auto era ormai ferma da settimane, e lo stesso Lawless non aveva intenzione di riprendere ad usarla, dopo i fatti sconcertanti.
Alle sue dipendenze rimase solo il custode, che viveva però nella dependance a circa 30 metri dal condominio. Lo stesso custode che ritroverà il corpo ora qui presente.
Un rumore violento mi fece quasi cadere dallo sgabello; qualcosa aveva urtato uno dei vetri al livello della strada del seminterrato, probabilmente un sassolino urtato da un auto di passaggio, e siccome ero preso dalla lettura, i miei nervi mi giocarono un brutto scherzo.
Rimisi a posto lo sgabello, mi diressi verso il lavello dove mi risciacquai in faccia con acqua fredda, per ricordarmi che le favole di E. A. Poe erano, appunto, solo favole, e ripentendomi che quell’uomo si era ucciso da solo, non era stato nessun corvo a spingerlo giù dalla finestra.
Decisi di finire la lettura, in primo luogo per farmene una risata del finale, sicuramente reso tragico e paranoico dal suicida, in secondo luogo perché non sarei riuscito a concentrarmi a dovere sul mio lavoro, pensando a come poteva essere finita quella storia.
Capitolo 5
Secondo le date trascritte, erano passati circa due mesi dall’arrivo dei corvi, e questi ultimi, notando che la loro vittima non usciva allo scoperto, iniziarono una sorta di assedio; Lawless descrive minuziosamente ogni notte trascorsa, segnando i vari orari degli “attacchi”. Afferma infatti che, durante la notte, i volatili non lo lascino dormire, beccando su finestre, persiane, porte ed ogni superficie che possa riecheggiare fino al piano del narratore.
Probabilmente c’era un fondo di verità, sicuramente dormiva poco: la calligrafia aveva perso la compostezza iniziale, vi erano molte ripetizioni, errori palesi; e la mente malata di quell’uomo aveva trovato come causa della sua insonnia un piccolo stormo di corvi.
Lawless scriveva di aver avvertito inutilmente parenti e vicini, riguardo tali avvenimenti; ma i suoi comportamenti eccentrici e probabilmente l’assurdità di ciò che diceva, aveva fatto sì che tutte le sue richieste di aiuto fossero andate invano.
Inoltre, scrive di come facesse sempre controllare l’edificio dal guardiano, il quale non trovava però nemmeno la più minima scalfitura dovuta ad un becco, né tracce che lasciassero pensare al presunto “attacco” dei corvi. Infine, chiese allo stesso custode di dormire al piano inferiore del condominio, anziché nella dependance, per fare sentire anche a lui il rumore, a sua detta insopportabile, dovuto ai violenti uccelli.
La notte stessa, Lawless aveva svegliato il custode di fretta e furia, sbraitando che l’assedio era in corso: ma, come questi si svegliò, tutto tacque. Lo stesso custode si rifiutò di dormire nuovamente nell’abitazione del padrone, spaventato dai suoi modi oramai paranoici ed ossessivi.
Ero finalmente arrivato all’ultima pagina del diario: 66 giorni dopo l’arrivo dei corvi, H. P. Lawless, stremato dal riposo mancato, deluso dal non aver ricevuto aiuto di nessuno, durante l’ennesimo assalto dei volatili decide di farla finita. È quasi l’alba, ma questi non si fermano, afferma che il rumore è insopportabile, paragonabile ad un terremoto. Saranno le sei del mattino quando, urlando come un pazzo, si getta dalla finestra del quarto piano.
Vi sono alcune righe, in cui afferma di non essere pazzo, che era stato tutto vero; alcuni saluti a dei parenti, poi solo pagine stropicciate o scarabocchiate furiosamente.
Capitolo 6
Tirai un sospiro, un po’ per essere ritornato alla realtà, abbandonando quel diario opprimente, un po’ per soddisfazione; guardai l’ora: le due meno venti del mattino.
Diavolo, avevo perso più tempo di quello che immaginassi, e così ripresi velocemente il mio lavoro.
Alle sei avevo finito tutto, e mi stavo adoperando per ripulire il laboratorio; mezz’ora dopo stavo mettendo in moto la mia vecchia ford, per tornare a casa e dormire un po’. Non ero stanco per il lavoro, quanto più per la lettura; mi aveva completamente rapito, e presagivo quasi la stanchezza che doveva aver provato Lawless.
Fuori era ancora buio, e le strade per andare al mio quartiere erano poco illuminate, sicchè procedevo senza troppa fretta; un colpo, di nuovo, mi tolse il fiato, mentre premevo a fondo il pedale del freno. Scesi, ma non trovai nulla: forse avevo urtato di striscio un gatto randagio, o magari era una buca della strada che non avevo visto.
Arrivai a casa e parcheggiai come al solito; notai qualcosa incastrato nelle feritoie del cofano, era scuro e al tatto sembrava setoso, lungo e sottile, come una foglia. Ma era buio, e non volli andare a investigare per scoprire per scoprire semplicemente la foglia di un frassino.
Entrai in casa appena in tempo, perché iniziai a sentire il tichettìo della pioggia mentre mi stavo spogliando; mi ricordai di non aver chiuso le persiane della cucina, perciò andai subito a farlo. Non si vedeva nulla fuori, solo il nero della notte e il tichettìo della pioggia. Feci per aprire la finestra, ma qualcosa attirò la mia attenzione.
Un movimento, inconsulto, nel nero della notte; mi avvicinai al vetro per vedere meglio. E fu allora che urlai come mai non avevo urlato in vita mia, ma durò un istante il mio urlo, perché il vetro mi esplose in faccia, riversando una moltitudine di corvi neri.
Caddi a terra, mentre decine di artigli e becchi mi pungevano, laceravano la mia carne, straziavano la mia pelle. Urlai di nuovo, urlai senza preoccuparmi di tutti quei volatili vicini alla mia bocca, intenti a straziarmi, a ferirmi, a uccidermi.
Il nulla, poi. Il soffitto della mia camera, le coperte stese sulle mie gambe, ed io, ansimante e sudato. Di nuovo quell’incubo, per l’ennesima notte, mi aveva svegliato di soprassalto.
Maledetto fu il giorno in cui lessi quel diario. Perchè da allora non ho più dormito.
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