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FORTUNA E IL SUICIDIO DELLA VOLPE
Fortuna era prossima agli ottantacinque anni. Li compieva il diciassette febbraio. Come ogni anno.
Non aveva mai visto l’alba: da piccola era rapita dai suoi perché, da adolescente dette esperienza alle risposte a quei perché, da grande le spettò una vita da operaia in una fabbrica ligure di tabacchi e, quando usciva da quelle mura, assuefatta dai sentori, il sole era già alto ed arrogante.
Fortuna, la mattina del suo ottantacinquesimo compleanno, si levò presto, più presto del solito; ringraziò Dio per averle nuovamente concesso il risveglio terreno, indossò abiti e bastone, raggiunse il mare, osservò il sorgere del sole.
“Guardami finalmente negli occhi!”, esclamò commossa vedendolo all’orizzonte.
Siamo tutti non altro figli d’una conseguenza, eco della medesima azione, sin dalla notte dei tempi. Forse per questo la vita è uguale sempre: i suoi pensieri fecero rotta al passato, scrutando, a filo d’acqua, risposte, certezze, rassegnazione.
“Cos’altro non ho mai fatto?”, pensò recandosi a passi incerti al mercato del pesce.
Era martedì, e come ogni martedì, il mercato del porto offriva quanto di più bello ed invitante erano riusciti a recuperare i pescatori del paese: sempre come ogni martedì, Mondolfo, il più vissuto dei marinai, il cui motto da osteria era “non negate mai allo stomaco meno di quanto concedete al vostro cesso”, ebbe la meglio sui tentativi concorrenziali di Oreste, il più sfortunato dei marinai.
Oreste non aveva storie da raccontare, non aveva cicatrici da mostrare, girava anzi voce certa che quelle poche, sfoggiate saltuariamente, fossero state da lui stesso inflitte.
Come fissando, gli occhi inconsci, una vetrina, e la mente non guarda oltre il vetro bagnato, così lo sguardo di Oreste incontrò, ancora una volta, quello di Fortuna.
Questa stuzzicò le sue labbra, o meglio, le morse sino al sangue, da decoro al fazzoletto celeste seta. Quanti affanni per quell’amore, quanti momenti divenuti ricordi sbiaditi, quanta lontana ingenua illusione di sperar durasse, quantomeno, un altro poco.
Anche le labbra di Oreste sanguinarono; labbra di un uomo che avrebbe voluto dare molto, ma che null’altro riuscì se non vivere per sé.
“Quante volte avrà pianto persino la Gioconda?”, chiese Fortuna avvicinandosi.
“E quante di quelle furono per amore?”, rispose Oreste baciandole la mano.
Ancor meglio delle labbra seppero parlare i loro occhi, e quelle lacrime dissetarono l’inconscia voglia di rimpianti.
Fortuna difese sempre l’amore per le piccole cose: come ripulire con cura i margini d’un barattolo di yogurt, lucidare il suo bastone due volte al giorno, prendersi cura di Benedetta, la sua volpe.
Benedetta era prossima ai quarantacinque. Li compieva il ventidue giugno, come ogni anno.
Esattamente diecimilanovecentocinquanta le albe trascorse dal loro primo incontro: mite pomeriggio di maggio caratterizzato, in principio, da discorsi forzati, circostanziali, tipici d’ascensori o sale d’aspetto.
Fu all’ombra di due cipressi che Fortuna decise d’eclissare il suo fottuto orgoglio e raccontare tutto: la volpe filtrò e distillò quelle confessioni, condivise il dolore con patetici sorrisi, infine urinò sul cipresso alla sua destra.
“Sai esser dolce quanto la merda di pipistrello a colazione”, esclamò Fortuna, la quale, rassegnata quanto la lumaca su d’un viale nel veder giungere da lontano il fanciullo col ghigno sul volto ed il sale tra le mani, pretese chiarimenti da Benedetta.
La quale Benedetta si fece immediatamente più esaustiva: “Tempo fa mi capitava sovente di fare il medesimo sogno, a volte anche a distanza di anni”. Si fermò un poco per alimentare il focolare, si accovacciò nuovamente sulla spiaggia e Fortuna imitò la sua postura: “Un’amica volpe, intrappolata nelle sabbie mobili, chiede disperatamente aiuto, m’implora, singhiozzando. Sprofonda nelle sabbie, sempre più giù, sino a sparire. Ed io resto immobile, impassibile, ridendo”.
“Non capisco cosa c’entri tutto questo con me”, ribatté Fortuna, nonostante gli occhi commossi.
“Fatti furba! Hai l’amore a portata di mano, hai la possibilità di godere d’una rarità così tanto invidiata tra voi umani. Ti basterebbe allungargli la mano. Aiutatevi ad esser felici, non restate impassibili per paure inesistenti, non abbandonatevi”.
Nonostante le parole di quella sera, il futuro di Fortuna, anche in amore, fu diametralmente opposto al suo nome: non si curano piante grasse con cure dimagranti.
La volpe rimase.
Oreste, uomo di mare, stuzzicato dalla sabbia, dalle onde, dalla vita, eppure così inerte, poiché in possesso delle chiavi del vero amore, dell’isola che non c’è. Oreste, uomo sin troppo gentile, rispettoso e pigro per insistere sul cuore di Fortuna: Oreste, onda in cerca del suo scoglio per morire degnamente.
Uomo divenuto oramai anziano e stanco per proseguire, uomo che si spense quel martedì sera, di rientro dal mercato, nel mentre in cui, sul divano di casa, ripensava col sorriso al dialogo avuto con Fortuna. Oreste che forse trovò, prima di Fortuna, il suo scoglio, e che fece una gran schiuma.
“Ora capisci cos’intendevo?”, domandò sussurrando la volpe. Questa non disse nulla, fece solamente cenno a Benedetta di seguirla e rientrarono dal funerale in completo silenzio: da quel diciassette febbraio in poi, Fortuna avrebbe sempre avuto qualcosa per cui festeggiare e per cui piangere.
Strano a dirsi, i due passarono molto tempo insieme, molto più di quello che si concedettero nell’arco di quei quarantacinque anni.
Tutte le mattine, indossati consueti abiti e bastone, Fortuna gli portava nuovi fiori, sedeva su un fianco della tomba e, per ore, parlava lui di tutto quanto non aveva mai raccontato prima: “Non ho mai incollato l’adesivo Bebè a bordo su un’auto”, gli confessò quella mattina in cui Benedetta giunse al cimitero.
“Sei così triste amica mia”, sussurrò la volpe, asciugando con la zampa una sua lacrima, “sei così inutilmente triste”.
“Ho fatto un incubo terribile questa notte”, ribatté Fortuna, “Oreste mi svegliava in piena notte, supplicandomi di registrar la sua voce nel mentre in cui diceva d’amarmi, poiché a breve l’avrebbe persa per sempre…”.
Benedetta scrollò la testa, diede le spalle all’amica, abbandonò il cimitero, rientrò a casa.
Quel giorno si sentì trascurata e inutile quanto non mai; nemmeno Fortuna rammentò fosse il suo compleanno, nessuno la rallegrò con regali o semplici sinceri auguri.
Scivolarono alcuni mesi, gli alberi piansero, si dette colpa all’autunno.
Come di consueto, Fortuna rientrò dal cimitero e Benedetta l’accolse con l’esplicito ordine d’ascoltarla attentamente: “Io me ne vado, partirò oggi stesso. Tu non vuoi essere aiutata, non hai mai voluto esserlo, almeno non veramente. Ho pazientato così tanti anni nella speranza di vederti comprendere fortune e sfortune, il bene, il male, la gioia, il dolore… Ora basta, me ne vado con la coscienza pulita, io, quantomeno, c’ho provato”.
Fortuna non smise nemmeno di canticchiare, donò giusto un paio di fugaci occhiate all’amica nel mentre in cui parlava, infine rispose raccomandandola di non dimenticare alcunché. “Tornerai prima o poi”, pensò con precipitoso orgoglio.
Le luci si spensero e Fortuna, a poco a poco, parve capire ogni cosa: perdeva sempre più senso recarsi al mercato del porto, in spiaggia, svegliarsi la mattina sapendo di dover preparare colazione per due, raccontare ad Oreste dispetti e discussioni fatti con Benedetta, rientrar per cucinare, coricarsi la notte con la consapevolezza di non esser orfana tra quelle mura.
Fu come perdere una parte di sé, svanirono stimoli e coscienza, uno spegnersi lento ed irreversibile che cementò ogni sua reazione dentro casa: smise di recarsi all’alba sul lungomare ed omaggiare ricorrenze di qualunque natura.
Tutto perse inesorabilmente di senso. Tutto.
Il ventidue giugno di un anno dopo, qualcuno bussò alla porta di casa: l’incredulità di Fortuna fece tardare il suo giungere all’ingresso.
Qui le si presentò Ileana, giovane neoagente di quartiere, la quale portò nuove tutt’altro che gradite: un forestiero, molto probabilmente in cerca di lussuriosa e sconosciuta compagnia femminile, scovò, vagando per le colline della regione, il corpo senza vita d’una volpe. Bizzarro il fatto che quest’ultima pendesse da un faggio.
Pareva fosse morta per soffocamento, intrappolandosi il collo tra due rami.
Ciò che condusse Ileana da Fortuna fu una lettera, rinvenuta alla base dell’albero, riportante, oltre a motivazioni ed addii, l’indirizzo al quale recapitar quelle parole: brevi distaccate considerazioni, un ultimo fugace saluto come quello che, a suo tempo, Fortuna concesse all’amica allorché svaniva all’orizzonte coi bagagli.
Nessuna omelia, nessuna predica, nessun inutile incompreso sproloquio, a Benedetta bastarono due semplici parole: ti saluto.
La commozione ed il senso di colpa si fecero edera sul suo animo.
Sbatté la porta in faccia all’agente, trovò spazio nel cestino per quella busta, infine si guardò allo specchio: da quanto tempo, in realtà, era morta anche lei?
L’indomani, l’alba sembrò più sfacciata ed invadente del solito; il profumo del mare molestava le narici, i gabbiani bussavano insistenti alle serrande, gli ulivi fremevano nel sussurrar che non è mai troppo tardi, le sirene delle navi nel porto richiamavano alla vita, alla speranza…
Fortuna indossò abiti e bastone ed uscì per le strade, in cerca di qualche merda da pestare.
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