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L'impensabile
L’impensabile
Non è possibile che stia accadendo.
Continuo a ripetere queste sei sciocche parole, mentre cammino come una marionetta nel freddo insolente di un pomeriggio quasi sera di dicembre.
Ho l’irragionevole speranza che se mi muovo velocemente, se riesco ad arrivare a casa in fretta e a chiudermi la porta alle spalle, questa folle cosa resterà indietro, non potrà raggiungermi e allora la dimenticherò. Sarà come se non fosse mai accaduta.
È cominciata stamattina presto, poco dopo essere uscito di casa. Una mattina come tutte le altre, fino a quel momento. Nulla che lasciasse presagire quel che stava per succedere. Mi sono svegliato come d’abitudine alle sette, dopo un sonno calmo e senza sogni, con la voce di Mr. Gordon Sumner che supplicava: “Roxanne, you don’t have to put on the red light…” Ho spento la radio e acceso la luce, mi sono trascinato in bagno dove ho perseverato nel dormiveglia per cinque minuti buoni, seduto sulla tazza del water con la testa tra le mani, i gomiti sulle ginocchia e la vaga coscienza di avere indossato le pantofole al contrario.
Poi mi sono osservato per un po’ nello specchio, intanto che l’acqua della doccia si scaldava. È un’abitudine che ho fin da piccolo. Mia madre entrava in bagno credendomi nella vasca ad insaponarmi e invece mi trovava assorto davanti al mio viso riflesso, incurante dell’acqua che andava e già minacciava di traboccare. La cosa mi ha procurato diverse sberle ai tempi. Non abbastanza da farmi perdere il vizio, a quanto pare.
Immagino si potrebbe pensare che si tratti di vanità maschile, ma non è affatto così. Di solito inizia con una rapida occhiata quando mi sciacquo la faccia, prosegue mentre mi tampono con la salvietta e cerco di scoprire nuove rughe o vecchi segni d’espressione, poi diventa come se stessi guardando non più il mio volto ma quello di un altro e a quel punto la faccenda può andare avanti per minuti. Fortunatamente stamattina è arrivato il suono del telefono a rompere la malia, come una volta arrivavano le sberle di mia madre… mi è venuto da pensare lì per lì. E il pensiero mi ha fatto sorridere.
Il telefono ha smesso di squillare quando sono arrivato in cucina. Ho messo su il caffè, poi sono tornato in bagno per la doccia. Il caffè è venuto uno schifo. Ingoiando l’ultimo sorso, ricordo di essermi augurato che la giornata non si rivelasse altrettanto cattiva. Sono uscito in strada alle sette e trentanove, due gradi di temperatura. Non che abbia la fissazione per i numeri, intendiamoci. È merito del display elettronico che lampeggia inesausto sull’insegna della farmacia di fronte al mio palazzo. Il fatto che questo sia il primo segnale forte che il mio cervello coglie dopo il sonno, è forse l’unica spiegazione plausibile del perché io continui a ricordare per tutto il giorno l’ora e la temperatura esatte dell’attimo in cui varco il portone.
Alla fermata dell’autobus mi attendeva il solito formicaio brulicante. Ho scambiato un paio di fiacchi “’ngiorno” con alcuni di quelli che mi diletto a definire “colleghi di pensilina” e poi mi sono acceso una sigaretta, cedendo al desiderio masochista di inalare altro fumo che non fosse quello delle macchine di passaggio.
Quando l’autobus è arrivato, il formicaio c’è salito sopra compatto. E io con lui, sapendo bene, per lunga esperienza di viaggi in autobus, che se sfrutti la compattezza del formicaio (come i greci sfruttavano quella della falange oplitica in battaglia…non c’è niente di nuovo sotto il sole), le probabilità di essere calpestati o di ricevere gomitate in un occhio, diminuiscono sensibilmente.
È accaduto in quel momento. E non saprei dirlo con altre parole che non siano le seguenti deliranti parole: mi sono visto scendere dall’autobus. Voglio dire che nel gruppetto di persone che sbarcava dalla porta a soffietto anteriore mentre salivo da quella posteriore, c’ero anch’io. È chiaro che sul momento non ho visto la cosa in questi termini. A dire il vero, lì per lì ho pensato a mio cugino.
Ho un cugino che mi assomiglia in modo ridicolo, come se uno dei due fosse un fax dell’originale. Capita non di rado che qualche amico, incontrandomi, mi rimproveri per non averlo salutato la sera prima al cinema, in un bar e così via. E ogni volta mi tocca dare la spiegazione del cugino sosia, che invariabilmente innesca un seguito di commenti stupiti ed eccitati: “Ma dai! Giura! Guarda, se tu non me l’avessi detto…Praticamente due gocce d’acqua!”
Ecco perché ho pensato a lui stamattina, intravedendo un tizio col mio stesso profilo che abbandonava l’autobus. Eppure avvertivo uno strano brivido sotto la camicia. Quasi senza rendermene conto, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca del montgomery e ho premuto il tasto di chiamata rapida che corrisponde al nome del cugino-clone in rubrica.
“Come mai da queste parti?” ho esordito non appena ha risposto. Mi è arrivata una voce impastata di sonno: “Ma chi è che rompe le palle a quest’ora?” Solo in quell’istante ho realizzato che non erano ancora le otto di mattina. ‘Come hai potuto pensare che uno che vive dall’altra parte della città possa essere appena sceso da un autobus vicino a casa tua, coglione?’, ha sibilato feroce la mia vocina interiore. La risposta mi si è palesata con una breve fitta alle tempie: ‘l’hai pensato per difesa, per evitare la sola altra spiegazione plausibile’.
Ho interrotto la chiamata consapevole del fatto che stavo arrossendo, un po’ per la figuraccia, un po’ per un’improvvisa ondata di panico che mi saliva dallo stomaco. Chi era che avevo visto scendere? Non ho smesso di pensarci un attimo per tutta la durata del viaggio e più ci pensavo, più mi pareva di ricordare particolari inquietanti del fugace avvistamento: il modo di muoversi di quel tale, qualcosa nel suo abbigliamento…Tutto mi era sembrato stranamente familiare in lui.
Quando sono entrato in ufficio ci stavo ancora rimuginando, ma la vista della mia scrivania piena di fogli con appunti di cose da fare, mi ha pietosamente distratto da quell’ossessione. Ho scambiato qualche battuta con i colleghi in merito al fine settimana appena trascorso, poi ho acceso il pc e ho iniziato a controllare la posta: tutto stava tornando alla normalità.
Ho lavorato ininterrottamente per ore, sforzandomi di non pensare a nient’altro, ignorando la pausa pranzo. Verso le tre sono uscito per incontrare dei clienti ai quali dovevo mostrare un appartamento in vendita in una zona periferica della città. Ho preso l’auto di rappresentanza dell’agenzia immobiliare e mi sono immesso nella bolgia dantesca del traffico pomeridiano, con spirito di martirio. Ero in coda ad un semaforo rosso (e ne stavo approfittando per consultare dei documenti di vendita), quando è successo di nuovo.
Ho guardato fuori dal finestrino un attimo. E in quell’ attimo ho visto me stesso attraversare la strada sulle strisce pedonali, chinarmi a raccogliere qualcosa per terra e poi sparire dentro un bar.
Tum tum tum. Il rumore sordo nelle orecchie del battito cardiaco impazzito mi stordiva. Le mani si sono serrate convulsamente sul volante, come se la sua consistenza fredda e reale potesse rappresentare un valido antidoto a quella follia. In bocca sentivo un sapore ferroso che mi dava la nausea. Sono sceso dalla macchina come un ubriaco, ho indugiato barcollante in mezzo alla strada, tra gli insulti e i feroci colpi di clacson degli altri automobilisti imbestialiti.
Sono risalito in macchina e ho accostato, quindi mi sono lanciato di nuovo in strada, rischiando di essere investito ad ogni passo. Ho raggiunto quel bar, sono entrato, l’ho perquisito come se stessi cercando un tesoro, o un pericoloso assassino, o che so io. Ho ispezionato anche i bagni. Sembravo il pazzo delle barzellette fuggito dal manicomio. Mi sono avvicinato al banco, il barista mi guardava perplesso. “Mi scusi” ho farfugliato, “mi è sembrato di veder entrare un uomo poco fa…” E ho smesso di parlare. Nello specchio alle sue spalle, tra una bottiglia di digestivo e una di sciroppo alla menta, ho intravisto il mio viso riflesso, congestionato e imperlato di sudore: il viso di un folle. Sono uscito dal bar pieno di vergogna. ‘Così non va’, mi sono detto. Ho appoggiato la schiena al muro e sono scivolato giù lentamente, in posizione accosciata, allentandomi la cravatta che a quel punto mi opprimeva come un nodo scorsoio. Ma che stava succedendo? Allucinazioni? Ho rapidamente portato il palmo della mano alla fronte, quasi sperando di scoprirla bollente di febbre e invece ho avuto la sensazione di toccare un animale viscido e freddo. Niente delirio febbrile dunque, un vero peccato. Mentalmente ho passato in rassegna le altre possibili spiegazioni logiche: stanchezza, stress, malattie cerebrali, autosuggestione. La più funesta delle diagnosi mediche, mi appariva più tollerabile di quella sensazione di incipiente follia.
“Si sente male?”, una donna anziana, carica di buste del supermercato, si stava chinando maternamente su di me, porgendomi la mano foderata da un guanto di pelle col bordo di pelliccia bordeaux. Vedevo il rossetto sui suoi denti gialli, mentre continuava a parlare. Fissavo istupidito quelle macchie di colore, bordeaux e rosso… bordeaux e rosso… bordeaux e rosso… bordeaux e rosso…
Nero.
Quando ho ripreso conoscenza ero di nuovo in macchina, sdraiato sul sedile reclinato, incalzato da schiaffetti ritmici sulle guance. C’è voluto un po’ prima che riuscissi a mettere a fuoco il viso preoccupato di uno dei miei colleghi, che mi gridava: ”Dai! Dai! Dai!”, come se stesse incitando un ciclista a pochi metri dal traguardo. Gli ho afferrato il polso e sono scattato a sedere, infastidito da quella maldestra tecnica di rianimazione. Si è fermato all’istante, sconcertato da una guarigione così repentina, immagino.
Alle sue spalle la signora inguantata mi mostrava il cellulare con espressione compiaciuta. “Sono stata io a chiamare il suo ufficio”, squittiva, “il numero sta scritto proprio lì!” ed indicava con un guanto la fiancata della macchina dell’agenzia. Evidentemente mi aveva visto scendere e dirigermi nel bar. “Sto bene ora, grazie”, ho biascicato alzandomi in piedi. Mi sentivo le gambe di gommapiuma. “Forse è meglio che ti accompagni in ospedale”, ha detto il mio collega con un finto tono di preoccupazione, guardando l’orologio. “Ma no, non è niente, un lieve svenimento, figurati”, ho protestato. Ci mancava solo di finire al pronto soccorso a raccontare al medico di turno che vedevo me stesso in giro per la città. Gli infermieri ne avrebbero parlato per mesi, durante la pausa caffè. Riuscivo a immaginarli, in camice e zoccoli bianchi, mentre si scambiavano sagaci battute su “quel tale che credeva d’incontrare se stesso sugli autobus”.
Spaventoso. Ho fatto involontariamente una smorfia di ribrezzo, che ha allarmato non poco la signora con i guanti, la quale si è protesa ridicolmente verso di me per sorreggermi, certa che sarei svenuto ancora. L’ho scansata con un gesto fermo ma gentile. “Non si preoccupi, sto bene, davvero. Grazie di tutto”. Credo di non sbagliare nell’affermare di aver colto un po’ di delusione nei suoi occhi in quell’attimo. Forse aveva sperato che la faccenda prendesse una piega più eccitante, con almeno uno straccio di ambulanza. Mi dispiace signora. Sto impazzendo, è vero. Ma non me la sento ancora di rendere la faccenda di pubblico dominio. Mi ha porto una mano molle orlata di pelliccia, l’ho stretta brevemente ringraziandola ancora. Poi ha recuperato i sacchetti della spesa e si è allontanata dondolando. Mi è venuto da sorridere al pensiero che io avrei dovuto aiutare le vecchiette per strada, non il contrario.
“Non ci trovo niente da ridere”, ha detto stizzito il mio collega, consultando di nuovo l’orologio. “Dopo che quella ha chiamato sbraitando che eri mezzo morto sul marciapiede, ho dovuto piantare in asso dei clienti per correre qui. E scopro che si è trattato di un capogiro da nulla e che sei pure in vena di ridere! Riporta la macchina in garage e prenditi il resto della giornata. Io torno in ufficio, la coppia a cui hai mostrato l’appartamento ha fretta di concludere.”
Quell’ultima frase mi è arrivata come una frustata alla base del collo, ho sentito lo stomaco contrarsi dolorosamente e le ginocchia hanno ceduto costringendomi ad appoggiarmi al cofano della vettura. “Ci risiamo. Stavolta ti chiamo un’ambulanza” ed ha estratto il cellulare dalla tasca della giacca. “No, fermo!”, di nuovo l’odiosa immagine degli infermieri che si dilettano con storielle sulle mie allucinazioni. “Non ce n’è bisogno, sono solo un po’ stanco, me ne vado a casa. Da quanto tempo sono in agenzia quei due?” Mi ha squadrato dubbioso “Da dieci minuti, me li hai mandati tu subito dopo avergli mostrato l’appartamento, ricordi?” Sarcasmo nella voce. Cristo santo, in questo mondo non è concesso avere le idee confuse neanche per un attimo. Figuriamoci impazzire dall’oggi al domani. “Certo, mi ricordo”, ho mentito per istinto di sopravvivenza. E ho aggiunto: “Spero che tu riesca a concludere l’affare in fretta”. “I presupposti ci sono, a quanto pare sei stato molto persuasivo stavolta. Bravo, buon lavoro”. È salito in macchina, ha fatto inversione nel traffico e via. Verso l’ufficio, verso il concreto lavoro quotidiano, a sbrigare faccende reali, a costruirsi carriera e futuro, fiducioso, arrogante. Proprio come me fino a questa mattina.
Mi sono accorto di star tremando dalla testa ai piedi e mi sono affrettato a rientrare in auto, prima di attirare l’attenzione di qualche altro passante curioso. Non riuscivo a farmene una ragione. Chiunque fosse, non era frutto della mia immaginazione. Era andato all’appuntamento al posto mio, aveva trattato con clienti che conoscevo personalmente e loro non si erano accorti di nulla. Il bisogno di una spiegazione logica gridava di nuovo dentro di me, non siamo programmati per affrontare certe cose.
Ad un tratto mi è tornato in mente un episodio a cui non pensavo più da anni. Ero alle elementari e durante l’intervallo un compagno di classe mi terrorizzò con un racconto spaventoso. Diceva di aver visto una cosa la sera prima, dalla finestra della sua camera. Un essere che si trascinava in giardino, con la testa di uomo e il corpo simile a quello di una lucertola. Aveva strisciato verso il muro della casa, si era arrampicato sul davanzale e aveva spalancato verso di lui un’enorme bocca con piccoli denti da squalo. Per fortuna suo fratello maggiore era entrato in camera in quel momento e l’essere era saltato giù dalla finestra per tornare a nascondersi in giardino. Ma sarebbe tornato di sicuro e poteva intrufolarsi anche nel giardino di casa mia, poco distante dalla sua.
Col cuore in tumulto e la gola secca, gli dissi debolmente che era un bugiardo, ma lui insisteva che era vero e che quella sera me ne sarei accorto da solo. Scoppiai in lacrime e corsi a raccontare tutto alla maestra, la quale, dopo avermi ascoltato, sorrise e mi consolò con un lungo abbraccio, sussurrandomi all’orecchio di non avere mai paura delle cose che non esistono.
Trent’anni dopo, vestito con giacca e cravatta, seduto in macchina in mezzo al traffico cittadino, mi sono detto la stessa cosa. Questa cosa non fa paura, perché non esiste. L’ho ripetuto una decina di volte, colpendo il volante con i pugni chiusi per darmi coraggio. E poi ho cominciato a piangere.
Nel breve tragitto per tornare all’agenzia, l’ho visto altre due volte. All’incrocio di una strada, è emerso per un attimo dal gruppo di gente sul marciapiede, indossava il cappotto beige che non metto più da un paio di anni, si accendeva una sigaretta. Poco più avanti, mi è sfrecciato accanto in bici, ha urtato lo specchietto e ha voltato il viso verso di me, portava gli occhiali da vista che adoperavo prima di mettere le lenti a contatto. Tutte e due le volte è sparito nel nulla. Tutte e due le volte ho sentito il cuore fermarsi.
Ho parcheggiato la macchina e sono sceso come un automa, con il solo pensiero disperato di correre a casa, chiudermi dentro, prendere un tranquillante, dormire, dimenticare, non vedere più niente. La suoneria del cellulare mi ha fatto trasalire violentemente, l’ho preso dalla tasca dei pantaloni e l’ho lanciato contro il muro del garage, mandandolo in frantumi.
Alla fermata dell’autobus non ho parlato con nessuno, tenevo il bavero alzato e gli occhi bassi, fissi a terra, per la paura di vederlo ancora. Il viaggio è stato un calvario, in piedi, incuneato tra la gente per stare il più possibile lontano dai finestrini, lanciavo intorno occhiate paurose per controllare i volti, le fisionomie. Qualcuno se n’è accorto e mi ha scrutato incuriosito.
Ci siamo, la mia fermata. È arrivato l’odioso momento di scendere. Sulle scalette indugio, guardo a destra e a sinistra, come si insegna ai bambini quando devono attraversare la strada da soli. Ancora non mi decido, metto giù un piede e lo ritiro, come un bagnante prudente che voglia saggiare la temperatura dell’acqua. L’autista si spazientisce, lo sento inveire contro di me. Scendo. Alzo appena gli occhi per valutare la distanza che mi separa dal portone del mio palazzo, un centinaio di metri. Mi esce dalla gola un lamento disarmante. Comincio a camminare rasente ai muri, la testa incassata nelle spalle, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe che disegnano rapide falcate. Cammino come una marionetta nel freddo insolente di questo pomeriggio da dimenticare e meccanicamente ripeto a fior di labbra “Non è possibile che stia accadendo”. Sei parole che mi sembrano un rosario di redenzione, un talismano in grado di proteggermi fintanto che non avrò varcato la soglia di casa e sarò al sicuro.
Mi sta aspettando di fianco al portone, paziente, sapeva che sarei arrivato, che avrei ceduto all’impulso infantile di tornare a casa. Sempre nella vita, trovandoci alle prese con quel che non conosciamo e ci spaventa, vorremmo correre indietro, da dove veniamo, tra le nostre cose, nel nostro quotidiano, nella nostra piccola tana, sicura e conosciuta.
Per un attimo è come guardarsi allo specchio, solo che indossa abiti differenti e ha un’espressione crudele nella pieghe della bocca, che non mi appartiene. Mi guarda senza vedermi, sale le scale, prende la chiave dalla tasca, apre, entra, lascia la porta socchiusa. Poi sporge una mano, una mano sola, magra ed ossuta, identica alle mie e mi fa cenno di raggiungerlo. Intuisco in quel cenno una risolutezza che spaventa, l’urgenza inderogabile di risolvere una questione troppo a lungo rimandata.
Mi avvio per le scale, gemendo sommessamente ad ogni gradino.
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0 recensioni:
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- Cara Suz, figurati, sono io la prima sostenitrice del libero arbitrio! ognuno è libero di reagire come vuole dinanzi ad un mio racconto... ma senza pretendere di voler cambiare il mio modo di scrivere. Comunque hai colto perfettamente nel segno, qualcuno ragiona più in termini di popolarità web che non di libera espressione della creatività... che peccato, mi dispiace per costoro.
Grazie per il comento, leggerò senz'altro qualcosa di tuo
Con stima,
Lou
Anonimo il 15/02/2011 13:15
Scusami Luisa, avrei dovuto approfondire il mio commento.
Intendevo che la critica è stata mossa nel modo sbagliato, ma che qualcuno trovi troppo lungo o corto il nostro racconto ci sta.
Non capisco bene la "regola" scritta di cui parla. Io quando scrivo un racconto non lo faccio pensando che sia destinato al web. Lo scrivo e basta.
Forse per alcuni diventare popolari in questo sito è l'obiettivo.
Buona giornata.
Suz
- I consigli li accetto anch'io... il sentenziare arrogante però mi dà allergia... son fatta così cara Suzanne, ke ci vuoi fare
Lou
Anonimo il 11/02/2011 12:32
Io accetto sempre i consigli, penso possa servire a migliorarmi.
Poi magari faccio come mi pare, ma questa è un'altra storia.
Suz
- Ah... dimenticavo... permettimi una rapida toccatina di ferro per quel discorso menagramo sul num di anni che probabilisticamente mi rimane da vivere!!! Ma tu guarda che roba! Mentre pedali, ricordati di ripassare la differenza tra "o" congiunzione coordinativa e "ho" prima persona presente indicativo verbo avere... son sottigliezze che talvolta fan comodo, quando si scrive
- Vedi amico caro... non devi sorbirti proprio nessuna pappa! questo è il punto! libertà, torno a dire... libertà per te di non leggermi, per me di non essera letta da te, di scrivere lungo o corto, insomma libertà per ognuno di fare ciò che sente e che vuole. Io pedalo, non preoccuparti. Pensa alla tua bicicletta, che la mia riesco a governarla benino, tutto sommato. Ma va là... fai il piacere
Anonimo il 12/07/2008 16:30
Visto che vuoi dei pareri sulla diatriba... il racconto lungo o corto... io ho letto venti righe... non è il massimo della letteratura mondiale... o fatto un giro col mouse ed ho visto la pappa che dovevo sorbirmi. A quel punto ho chiuso. Io compaio come numero di letture ma non sò che roba è che hai scritto. Questo non implica che il racconto sia buono o meno... implica che il discorso di fulvio musso ha una logica e tu ti sei incazzata per niente. Senti bene cosa ti dice un veterano...è l'età!!! Gioca a tuo favoro solo per il numero di anni che probabilisticamente ti rimane da vivere... per il resto pensi davvero di essere una che non può nemmeno pensare di accettare un consiglko? Pedala, pedala che la strada è lunga e in salita! Giak
- Non ho offeso nessuno... ho regito ad un atteggiamento offensivo, semmai
Anonimo il 08/07/2008 00:17
Ma quali imposizioni! Era solo un suggerimento per il quale t'ho anche spiegato la precisa ragione che è chiaramente estranea al valore del brano (a quello scopo si "deve" fare). Peraltro certe regole del web non le ho scritte io. Se a te non interessano, me lo dici senza offendermi riconoscendo quanto meno il palese disinteresse del mio consiglio. Fra l’altro, sono lo stesso Fulvio Musso che t'ha elogiato nell'altro tuo racconto.
"Altrimenti m'avvantaggio io" è chiaramente una battuta per interlocutori di spirito.
Ti saluto senza rancore perchè la tua reazione spropositate e calunniosa t’ha già offeso abbastanza ed io ho qualche simpatia per chi si fa del male da solo. (Ho cancellato la notifica dei commenti a questo brano così ti risparmio altre autoreti).
- PARTECIPA AL SONDAGGIO!!! "PALETTI ALLA CREATIVITA': SI O NO"
- Mmmm... ho ancora un sassolino nella scarpa, Fulvio... cosa intendevi dire con quel: se non mi ascolti avvantaggi me??? Vale a dire che se io scrivo lungo, contribuisco indirettamente ad incrementare la tua fama? il nesso mi sfugge...è una roba del tipo"quando una farfalla sbatte le ali a pechino... piove ad hong kong"? via, Fulvietto... non diciamo corbellerie
- Grazie Broken... e poi... e poi dimmelo tu... ognuno di noi, guardandosi un attimo dentro, è in grado di dire cosa accade dopo che il protagonista è entrato in casa.
A Fulvio dico: che si potesse ridurlo della metà è tuo parere soggettivo nonchè assai opinabile (sia lodato il signore per il dono del libero arbitrio, che ci distingue un tantino dalla razza ovina!!!)... che si dovesse farlo è un'affermazione a dir poco impositiva e dal vago sentore dittatoriale. Sii gentile amico caro, decidi della lunghezza dei TUOI racconti e lascia agli altri la dolce briga di decidere arbitrariamente di quella dei PROPRI. Mi vengono le bolle dianzi a qualsivoglia maldestro tentativo di imposizione nella vita di tutti i giorni... figurarsi per quel che riguarda il mio modus scribendi. Può piacere o risultare brutto, ognuno dica la sua a tal proposito. Ma nessuno si azzardi a dirmi: taglia o allunga. Per concludere, nell'era del mordiefuggi triste e arido, siano lodati la prolissità e il logorroismo, sintomi inequivocabili di una buona facoltà di pensiero narrativo (Jerome Bruner docet). Chi ritiene che il racconto sia troppo lungo... non ha che da NON LEGGERLO, santa democrazia!
Attendo commenti su queso mio punto di vista, feroci o affini che siano.
Interessante sapere che ne pensa la community... lancio il sondaggio: PALETTI ALLA CREATIVITA', SI' O NO
Anonimo il 07/07/2008 07:46
Si poteva e doveva ridurre della metà, quanto meno, come si deve scrivere nel web dove vige la lettura "mordi e fuggi" altrimenti il nr di visualizzazioni non corrisponde nemmeno lontanamente alle letture effettive. Quante volte, tutti noi, abbiamo visualizzato un brano e subito richiuso perchè troppo lungo? Oppure l'abbiamo letto come si scende una scala quattro a quattro?
Se m'ascolti t'avvantaggi, atrimenti avvantaggi me e ti ringrazio.
- Grazie Aldo, raccolgo il fiore da te gettato e m'inchino
Lou
- Complimenti!
- Racconto ricco di BRIVIDI trasmette leggera angoscia.. trasmette spazi
interiori nascosti.
Un vuoto di paura di una triste realta' .. che non si riesce superare perche'?
Nasce il silenzio dentro di te, raccogli sole non solo notte.
La tua voce e' un racconto che arriva e che ci circonda.
Soggettiva, molto vissuta... bella complimenti!
- Grazie, felice che vi sia piaciuto. Vuole essere un omaggio al grande Dino Buzzati
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