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i colori di venere
Bozze di alcuni racconti del mio ultimo libro misteri, passioni, dialoghi, avventure... al femminile
La follia di Giulia
... Il mattino seguente una fortissima pesantezza alla testa mi impedisce di aprire gli occhi, una luce troppo violenta filtra dalle finestre, metto la testa sotto il cuscino, le tempie mi pulsano e il dolore non cessa.
«Giulia, hai il primo cliente alle nove, se non ti sbrighi arriverai tardi» urla una voce dalle scale.
Scale? Quali scale? Non ci sono scale a casa mia e nessuno ha quella voce.
Mi siedo di scatto sul letto, la testa tra le mani e gli occhi ancora chiusi, li apro appena e mi guardo intorno: la stanza è tutta bianca, il pavimento di marmo è bianco, i mobili sono bianchi, le tende sono bianche. Non ho la più pallida idea di dove mi trovo... forse in Paradiso!
Rallento i pensieri mentre strati di panico e ansia mi si appiccicano addosso. Mi alzo dal letto, il pavimento è gelido, giunge il rumore del traffico della strada, tutto è reale.
Scendo le scale irrigidita dalla paura, mi accorgo di avere indosso una sottoveste di seta nera che non ho mai avuto. Ho la salivazione a zero, i muscoli si irrigidiscono, sento solo i battiti del mio cuore impazzito.
La cucina è molto grande, modernissima, naturalmente bianca, c'è un grande tavolo di granito nel centro. Apro una porta di vetro a mosaico e mi trovo in una sala con un camino che troneggia e un grande divano a "elle". Le finestre danno sui tetti della città, l'appartamento deve essere su un piano molto alto di un edificio del centro.
È un sogno, non può essere altro!
«Questa notte non hai chiuso occhio» mi dice la voce di prima; mi giro di scatto e uno sconosciuto mi porge una tazza di caffè.
È un uomo di media altezza, sui quarant'anni, capelli brizzolati, occhi grigi, profondi, dal taglio allungato, sembrano di ghiaccio e una bocca sottile; un bell'uomo ma di una bellezza statica, priva di espressione. Non riesco più a contenere la paura, la sento uscire a getti violenti dal mio essere, prende forma, la vomito fuori.
«Non sto bene» quasi sussurro e almeno la mia voce è quella di sempre, anche l'odore della mia pelle è lo stesso, mi guardo le mani, mi tocco i capelli: sì, sono io.
«Disdici l'appuntamento delle nove, io chiamo il medico» si avvicina, odora di dentifricio ed emana un forte profumo di muschio. «No... non è il caso, piuttosto fammi un favore e disdici tu l'appuntamento» dico con quel poco di logica che mi è rimasto. «Va bene, ma lo sai che il Signor Franchi ha un debole per te e... questa volta cerca di non sbagliare la vendita, l'attico deve essere suo e di nessun altro!».
La voce che prima non aveva sfumature adesso si fa grave, aumenta di tono e mi mette a disagio, semmai ce ne fosse bisogno.
Prima di andare mio "marito" mi bacia, sento la sua lingua indugiare e poi addentrarsi, ha il sapore del caffè ma anche del dentifricio. Le sue mani salgono e scendono sui miei fianchi, scostano la sottoveste di raso, sento i suoi polpastrelli sulla pelle nuda, ha mani grandi e calde, mi graffia dolcemente il ventre, scosta i miei capelli per mordermi e passarmi la lingua sul collo, poi, mi allontana con un sorriso da sfida e l'uomo con gli occhi di ghiaccio esce sbattendo la porta.
Mi sento nella pubblicità della famiglia perfetta. Ho idealizzato proprio tutto: un lavoro di successo, la casa da rivista di arredamento, biancheria di seta per fare colazione e l'uomo che non deve chiedere mai! Non ho neppure tralasciato i particolari erotici...
Adesso però devo svegliarmi, portare il caffè nello studio di Antonio, fare velocemente i lavori di casa e preparare il pranzo perché tra qualche ora arriverà mia cognata e i suoi piccoli diavoli pronti alla devastazione del salotto, naturalmente farò tutto rigorosamente in tuta da ginnastica - la biancheria di seta è poco pratica -.
Come si esce dal gioco? Come ci si sveglia?
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Samya e l'altra metà del mondo.
... Alle otto in punto sono davanti al portone dell'ufficio, Samya è già arrivata, noto subito che oggi è più curata: lo smalto, il rossetto, l' hijab rosso fuoco che valorizza i suoi bellissimi occhi. Thandiwe, la sua bambina, dorme come un angioletto nel marsupio di stoffa che Samya si è legata dietro la schiena. «Significa "amata"» mi dice mentre accarezzo la bambina.
Andiamo con l'autobus, c'è troppo traffico in centro, è impossibile parcheggiare.
Gli occhi della gente sono rivolti tutti alla donna sudanese. La scrutano dalla testa ai piedi, si soffermano sui tratti del volto, molti si scansano perché temono il contatto. Un gruppo di ragazzine con il piercing all'ombelico e i jeans che scoprono le mutande starnazzano sedute nell'ultima fila; un uomo in giacca e cravatta legge la pagina di economia di un quotidiano; una massaia urla noncurante al cellulare, nessuno sente il bisogno di fare sedere una signora con un bambino in braccio. Salgono altri extracomunitari che fanno apprezzamenti pesanti su di me nella loro lingua, lo capisco perché mi guardano insistentemente e ridono tra loro, uno mi manda un bacio e subito la gente inveisce, li attacca, vuole quasi farli scendere ma questi continuano a ridere. Sono lontana da Samya ma la tengo d'occhio, ha ancora quello guardo smarrito da orfana. Il controllore le chiede il biglietto. «Il mio biglietto ce l'ha quella signora laggiù».
«Sì certo, come no, ormai avete imparato tutte i trucchi per fregarci, per prendere e non pagare, tanto ci siamo noi che paghiamo per voi» dice mentre annota qualcosa su un blocchetto. «Scenda con me alla prossima fermata» .
La gente gli dà ragione, compatti e uniti per cacciare la donna negra che, di sicuro, scenderà per andare a chiedere l'elemosina al primo semaforo, sfruttando la sua creatura per impietosire i passanti anziché cercarsi un lavoro. «Non è il caso, come le ha detto la signora il suo biglietto ce l'ho io, ma scendiamo lo stesso volentieri».
Per strada mi accorgo che gli stranieri sono veramente tanti, l'ho sempre saputo ma non ho mai usato gli occhi per osservare. Le donne con l'hijab, quelle vestite con lunghi gonnelloni e foulard, camminano silenziose per non fare rumore, per non disturbare l'occidentale che ha sempre tante cose frenetiche da fare, o per paura che questi si accorga di loro e le cacci. Le vedo in giro come perenni clandestine, anche quelle che hanno tutti i documenti in regola, sempre tra di loro, mai in un bar, in un cinema. Tantissime sono domestiche senza contratto, pagate a ore; le clandestine costano meno e non possono chiedere niente di più, fanno mestieri che altri non farebbero mai, badano a persone invalide, anziani abbandonati, portatori di handicap per poche centinaia di euro al mese. Quasi tutte sono giunte in Italia pagando lautamente il viaggio e un finto permesso di soggiorno a qualche scellerato. Agli angoli delle strade, vicino al porto, alla stazione e in certe viuzze del centro storico c'è l'altro lato della medaglia: immigrati che spacciano, bambini che rubano, donne capaci di tutto per tutelare il loro territorio, persone che impongono la loro cultura con prepotenza facendo di interi quartieri una seconda patria con leggi proprie, incapaci di gratitudine verso chi li ospita, annebbiati dall'odio contro ogni cosa che rappresenta il mondo occidentale senza fare distinzione.
All'ufficio immigrazione sono tutti accalcati, in fila agli sportelli, infreddoliti, con una serie di fogli in mano che non sanno gestire, in pasto a inespressivi impiegati che godono a metterli in difficoltà con problemi burocratici. Tanti volti di cuoio scavati in anni di fame e disumana fatica di vivere, tanti occhi smarriti, tante voci che non riescono a uscire, alcuni sembrano bestie ferite, altri invece sono spavaldi e sprezzanti, certuni aggressivi e pericolosi. Provo un misto di compassione e rabbia, mi viene naturale proteggermi da alcuni loro atteggiamenti, evito certe aggressività e, subito dopo, sento il bisogno di aiutare molti di questi disgraziati, di prendere la parola per fare valere i loro diritti in questa società che pende più verso il profitto che verso la solidarietà.
Trovare un lavoro a Samya è difficile, non è più giovanissima. Un posto pubblico no perché una donna col velo turba i clienti e poi parla male l'italiano; un lavoro di fatica neppure perché è di salute cagionevole. Evito "turbamenti" dovuti al velo ai cittadini di Genova e accetto di farla assumere come badante di una signora anziana rimasta sola, la paga è poca roba ma almeno è in regola e posso allungare di un anno il permesso di soggiorno.
«Grazie avvocato, io tutte quelle parole difficili di legge non le conosco» mi mostra ancora il suo radioso sorriso, il secondo in due giorni. «Samya, il lavoro è un po' lontano da casa tua, devi prendere due autobus e non so neppure se puoi portarti dietro la piccola, magari in seguito troverai qualcosa di meglio» le dico entrando in un bar.
La scena degli sguardi insistenti e delle facce diffidenti si ripete ma Samya adesso si sente forte, non abbassa più lo sguardo, non si muove più lentamente per non disturbare, non parla più a voce bassa per non farsi notare.
«Putroppo per inguaiare Ghezzi posso fare poco, sta pagando le multe dovute e niente più, c'è troppa omertà tra i suoi dipendenti e troppe conoscenze politiche che gli parano le spalle». Mentre spiego a Samya il significato del termine "omertà" entra una ragazza che attira su di sé l'attenzione degli uomini: minigonna aderente, scarpe tacco dodici e crocifisso in mezzo alle tette. Samya la guarda in modo quasi inespressivo e si sistema il velo.
« È una mia scelta il velo, mi sento protetta, lo tolgo con chi sono al sicuro, mi mostro a chi voglio io. Non è un'imposizione, io sto bene così, non riuscirei mai a volere quelle scarpe... vi invidio altre cose, altre libertà che però voi neppure vedete».
Le sorrido e le trasmetto tutta la mia comprensione e la stima per quelle parole.
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La Misteriosa storia di Neda
... Umberto Ferrero cammina infreddolito con le mani in tasca, sembra sparito nel suo paltò. È una tipica mattinata d'inverno, Torino è avvolta di grigio e quando deboli raggi di sole la tingono di rosa e d'argento si crea un'atmosfera irreale. La chiamano "la piccola Parigi" per i trascorsi di casa Savoia, la sua eleganza rinascimentale e i suoi salotti intellettuali. Oggi i giardini e i parchi sono coperti da spesse coltri di neve e agli angoli delle strade giacciono altri cumuli appena spalati. Il tram tarda e il vecchio maestro non ha intenzione di aspettare al freddo; si incammina a passo veloce. Lungo i Murazzi, sulle sponde del Po, il fiume scorre lento e un po' malinconico protetto dalla sua elegante collina. Lungo la strada che percorre fino a pochi anni prima esisteva il "Borgo del Meschino", la vita dei suoi abitanti era fatta di stenti, consumata tra ambienti chiusi, cortili bui, case ammuffite. Era il quartiere dei balordi, abitato da pescatori e lavandai; nel Po sfociavano le acque sporche provenienti dai macelli di Porta Palazzo. In pochi passi l'uomo si trova in Piazza Vittorio Veneto. Dal ponte Vittorio Emauele I, le acque del Po riflettono la magnificenza neoclassica della chiesa della Gran Madre di Dio. Per quanto sia sempre vissuto a Torino, quella piazza maestosa e imponete riesce ancora a emanargli un forte fascino. Il sole fatica a uscire, intrappolato nelle dense nuvole, è una giornata dai toni grigi e una cupa nebbiolina aleggia nelle strette viuzze, dietro gli angoli più umidi, entra nei cunicoli della città, nei cortili e, quando anche il vento si alza e si lamenta, Torino trascina per le strade il suo volto vagamente gotico e misterioso.
Magia bianca e magia nera si fondono e danno alla città una singolare energia. Sotto una veste elegante, Torino mostra un'anima fragile e dietro a un intelletto razionale cela la più sregolata follia. L'aspetto più positivo e affascinante della città nasce dal cuore bianco di Piazza Castello alla Fontana dei Tritoni, dal Duomo che custodisce la sacra Sindone alla Gran Madre, fino alla Mole che indica il cielo. Si dice, però, che esistano in città anche una serie di accessi al mondo degli inferi: dall'obelisco di piazza Statuto alle statue di piazza Solferino. Sulla parte del Duomo che guarda verso palazzo Chiamblese ci sarebbe addirittura una freccia rivolta verso il basso che indicherebbe un'uscita dall'inferno. La Fontana del Frejus di Piazza Statuto venne costruita per ricordare l'inaugurazione dell'omonimo traforo ed è indicata dagli esoteristi come il cuore nero della città per due motivi: si trova a occidente e quindi in posizione svantaggiosa per il tramonto del sole e perché qui vi era la "vallis occisorum" - l'attuale quartiere Valdocco -, luogo di uccisioni e di sepolture. Infatti ospitava il patibolo che rimase per secoli in piazza Statuto, venne poi spostato dai francesi tra corso Regina Margherita e via Cigna. Dall'aiuola centrale della fontana si accede al sistema fognario, la leggenda dice che si trovi la porta dell'inferno e l'angelo che sovrasta l'obelisco sembra essere Lucifero. Niente a Torino è stato costruito a caso: è come se la città obbedisse a un misterioso progetto. Cinque parti della città se collegate fra loro formano una stella.
Umberto Ferrero, pur affascinato da queste argomentazioni, non ha mai voluto crederci fino in fondo, ha sempre guardato Torino come una bella città che incontra l'arte, la storia, il progresso. Una donna austera, scontrosamente aggraziata, intellettuale e moralista che nonostante l'evolversi della storia è rimasta composta e devota alle proprie tradizioni. Il freddo non cessa e il vecchio maestro aumenta il passo della camminata. La statua di Vittorio Emanuele II dall'alto dei suoi nove metri osserva le immense piazze con le botteghe alla moda, il carretto dei gelati preso d'assalto dai bambini all'uscita di scuola, le madamine che passeggiano con i loro bei cappellini e uno strillone che vende i giornali e urla i titoli più curiosi. Tutt'intorno: l'architettura barocca e neoclassica, i sontuosi bar che sembrano salotti, gli sfavillanti teatri, ma anche le viuzze strette e buie e le abitazioni umide e fatiscenti degli operai. Il Ferrero pensa che in fondo tutte quelle storie sulla magia nera, i cunicoli sotterranei sotto la Gran Madre dove si muovono mostruosi personaggi, non sono altro che storie gotiche che tanto vanno di moda. Il viavai spedito dei torinesi lo distoglie dai suoi pensieri. Una folla di persone è incuriosita dalle due autovetture Fiat 509 tirate a lucido parcheggiate nel centro della piazza. Nelle stradine adiacenti, invece, ci sono lo stallaggio dei cavalli e le botteghe degli artigiani, le case ‘di ringhiera' dove le massaie spettegolano in piemontese stretto mentre stendono il bucato, i commercianti che sostano sulla soglia delle loro botteghe con i loro lunghi grembiuli neri e i bambini che giocano a birille sulla strada. Sembra di essere sulla scena di certe vecchie strade londinesi ai tempi di Dickens, o alle Halles di Parigi. Finalmente l'uomo imbocca i portici ed entra nel solito caffè. Il pensiero di un caffè bollente, della lettura de "La Stampa" e qualche accesa chiacchierata con gli amici è la giusta ricompensa a quella lunga camminata sotto la neve. Aprendo la porta entra una folata di vento gelido.
«Bun dì Mario, ‘na tassa d'cafè». Mario è intento a servire i clienti e la sua faccia piena e rosea spesso sparisce dietro nuvole di vapore della macchina da caffè. Sul bancone di marmo sono esposte paste traboccanti di crema allo zabaione e pasticcini al gianduia: una vera tentazione per il maestro che però riesce a resistere al pensiero del suo diabete che peggiora di mese in mese. «Hai visto la macchina di Munsiù Storero? Una torpedo rossa fiammante! Ecco il caffè e la sambuca».
È il 1913 e a Torino, patria della Fiat, e quindi città operaia, si vedono le prima autovetture, ma la Torpedo è un lusso per pochi. La discussione della mattinata gira intorno agli affari poco puliti di Munsiù Storero e alle conoscenze intime di sua moglie Marisa con certi esponenti della Torino bene. Il Ferrero si allontana dal gruppetto di amici che spettegolano, senza mai eccedere, in una sorta di tardo provincialismo contenuto.«A fa bel fèse larg cun la roba d'j autri» - Facile farsi ricchi con i soldi degli altri - si lamenta qualcuno. In una delle salette del bar, il vecchio maestro legge qualche articolo dal giornale e sorseggia il suo caffè fumante. L'aroma forte e appagante rende quel momento ancora più piacevole. Sul viso gli è rimasto un sorriso un po' sarcastico nel sentire i discorsi che attaccano lo Storero e la sua signora. Mentre sfoglia le pagine del giornale sente la presenza di qualcuno accanto che gli adombra la lettura. È un uomo molto, tutto vestito di nero. Indossa un lungo mantello e un cappello ben calato sulla testa. Il mantello sembra non appoggiare a niente, come se quel corpo non avesse consistenza. L'uomo si siede al tavolo accanto e non toglie il cappello come invece chiede il galateo.
Umberto Ferrero si volta verso il vicino e accenna un saluto. Non riesce a vedergli il volto. È pallidissimo, la pelle quasi trasparente, il volto è molto scavato, ha gli occhi semi chiusi e le labbra sottilissime, appena percettibili. Il personaggio inquietante fissa un punto indefinito, non si toglie neppure i fini guanti che coprono le mani ossute ma il maestro sembra non fare più caso a quelle stranezze e continua a sorseggiare la sua sambuca.«Oggi fa proprio freddo». Tira fuori la più banale frase di conversazione per fare conoscenza con l'uomo senza volto.«Nel 1859, venne una nevicata che paralizzò tutta Torino. Mio suocero allora aveva una bottega del mulita - l'arrotino - in via Barbaroux e sua moglie, la mia compianta suocera, vendeva vestiti e quelle intelaiature che le donne usavano sotto la gonna. Annina allora aveva quasi 4 anni e tutte e mattine la portavo con me nella latteria dove lavoravo. Prima, però, passavamo dal vecchio Gaudenzio che aveva il forno proprio là dietro e ci dava le biovette appena sfornate» dice l'uomo con una voce afona, priva di accenti e di sfumature.. Umberto Ferrero distoglie lo sguardo da quell'essere, prova un forte disagio per il suo squilibrio mentale.
«Ma li sente? Stanno ancora parlando delle malefatte del ragionier Storero. Beh... certo, ha fregato tanta gente, si è arricchito con i soldi degli altri». «Chi dà, peui pija, ‘diau lu porta via» - Chi dà e poi riprende il diavolo lo piglia - sentenzia l'uomo in piemontese lasciando perplesso il maestro.«Devo proprio andare. È stato molto... interessante conoscerla» ma girandosi nel dire quelle parole di commiato si accorge che l'uomo non è più al tavolo, non è più neppure nel locale...
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La Rosa Nera.
... Entro un po' intimidita e spazio con lo sguardo in ogni angolo, ci sono i ricordi di viaggio che mia suocera ha comprato in giro per il mondo, scaffali di libri e dischi, una vecchia scacchiera, una bellissima gigantografia di Carmen in bianco e nero e, sul camino, una statuetta africana in legno che rappresenta i corpi di due amanti che si intrecciano fino a formare un'unica persona.
Sento voci e risate venire da un'altra stanza della casa, entro incuriosita e mi compare un gruppetto di signore che bevono cherry e mettono vecchi dischi. Vorrei tornare indietro e uscire da quella scena che non mi appartiene, non è giusto guastare quella nostalgica intimità.
«Roberta, assaggia lo cherry di Sofia e dimmi che te ne pare».
Con questa frase sono accolta dalle amiche di mia suocera, alle quali, naturalmente, ha già parlato di me. Le conosco una a una e rimango affascinata dal loro carisma e dalla loro diversità.
Rosa si muove elegante con movimenti lenti nel suo tailleur di Chanel, è stata una cantante lirica e adesso vive un appassionato amore con un "giovanotto" di quarantacinque anni; Sofia cammina scalza e indossa un abito di seta indiano, è la spirituale del gruppo, ha vissuto tanto tempo in India e adesso ha aperto una fornitissima erboristeria a Modena; Rebecca porta con disinvoltura i jeans e la camicia bianca, è più giovane delle altre e, credo, la più libertina, è una ricercatrice universitaria, ha vissuto in pieno il Sessantotto e si è sposata due volte. In meno di un'ora mi sono scolata mezza bottiglia di cherry, ho imparato qualcosa di più sull'opera lirica e sui vecchi film in bianco e nero, mi sono lasciata andare ai loro racconti di viaggi, sono scivolata silenziosa nei loro ricordi passando dallo slancio della rivoluzione culturale del Sessantotto ad amori impossibili e sofferti. Queste incredibili ragazze attempate hanno occhi sereni che si lasciano scrutare dentro, dove le immagini di un passato inquieto ancora si agitano; sono semplici nel loro fascino ricercato, usano parole a volte schive e a volte avvolgenti, conoscono i colori più belli dove intingerle, i posti più suggestivi dove raccoglierle, si parlano con uno sguardo tra di loro, si scambiano i pensieri, si prestano i ricordi. Hanno mani grinzose e vissute, gesti energici ma misurati e sanno cosa dire e fare per crearmi un posto morbido e ordinato in cui fermarmi per un po'.
Carmen entra in modo rumoroso, si sbarazza degli arnesi da giardinaggio e si versa uno cherry. Ha lo sguardo diverso, di una leggerezza che non le avevo mai visto prima, il sorriso è quasi irriverente, i modi vivaci.
«Cherry, La Turandot e le foto del viaggio in Africa con Albert, cosa c'è di più appagante!».
So bene che il nome di mio suocero non era Albert e poi Carmen non beve alcolici...
«Chi è Albert?».
«Il grande amore» sospira Carmen come un'adolescente.
Cala il silenzio, tutte pensano in modo diverso a quest'uomo con sorrisi amari e sguardi traboccanti di nostalgia. «Allora ragazze, di chi è stata l'idea di questa allegra rimpatriata?» chiede Carmen guardandole fisse negli occhi. «Carmen, tesoro, ci hai mandato l'invito a casa qualche settimana fa» dice Rosa con la sua solita delicata innocenza. «Non io, da anni non o più avuto vostre notizie, ho perso i contatti dopo l'ultimo trasloco».
«Carmen, sei sicura di non avere problemi di memoria?».
«Sicurissima Sofia, questa sessantenne ha ancora energia da vendere. L'invito non l'ho mandato io».
«Come vi siete conosciute?» domando per spostare la discussione su un altro argomento.
«In carcere» mi risponde Rebecca buttandomi addosso i suoi grandi occhi azzurri.
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Tango e vino
... Ho prenotato in prima classe, il viaggio sarà lungo e voglio stare comoda. Mi piace viaggiare in treno, leggere un buon libro, fissare il paesaggio che cambia, osservare le facce delle persone che salgono e scendono, immaginarmi le loro vite. Salire su un treno e staccare dalle solite abitudini mi fa stare bene, il tempo si dilata un po' e mi fa più spazio. Fuori dal finestrino sfumano verdi pianure, paesi arroccati scolpiti nella roccia, tetti di città, fiumi che scorrono borbottando, mentre soffici nuvole bianche, che sembrano panna montata, imbrattano il cielo azzurro. Guardo il paesaggio con avidità fin dove arriva lo sguardo e mi domando se abbiamo già superato la Campania
Se fossi responsabile studierei il contratto, risolverei il problema dell'alloggio, nel caso debba iniziare subito a lavorare, e invece sono tranquillissima, la prospettiva di quel colloquio non mi innervosisce più di tanto, se non mi avessero assunta, avrei continuato a dirigere il ristorante dei miei futuri suoceri che è un nome noto a Napoli. Fare la segretaria di direzione in una delle più grandi aziende vinicole italiane è un lavoro di prestigio, ben remunerato, certo, sarei stata un po' lontana da casa ma quel sacrificio mi avrebbe premiata in seguito. Siamo negli anni Settanta e poche donne possono dire di avere tali fortune.
E allora perché quel sorriso a metà ?
Le decisioni le ho sempre prese con calma, mi piace la preparazione di un'idea, mi organizzo il viaggio e spesso perdo di vista la meta, lo faccio apposta, lascio sempre qualche spiraglio di incertezza per non sentirmi mai arrivata totalmente. Questa volta, invece, sarei approdata alla stabilità, il mio bagaglio è tutto lì, devo scendere a quella fermata e lì restare.
Sono persa nei miei pensieri, strattonati dal treno, e non mi accorgo che una giovane mi osserva da chissà quanto tempo. Il mio disagio non le fa abbassare lo sguardo, che, anzi, si fa complice. Le sorrido, ma, in cuor mio, spero che non attacchi discorso, ho bisogno di stare ancora un po' con i miei pensieri. La guardo meglio, legge, seduta in modo scomposto, ha luminosi occhi verdi e cortissimi capelli biondi. Non so bene che età darle, certo è giovane e sbarazzina nei suoi jeans troppo larghi ma ha addosso il garbo e la riservatezza di una donna. Legge Garcia Marquéz con grande coinvolgimento, il suo volto esprime tutte le emozioni che quella lettura le dà: si morde le labbra, sgrana gli occhi, sorride lieve man mano che volta le pagine. Approfitto della sua distrazione per controllarmi il trucco nello specchietto della trousse. In quell'immagine vedo una donna di trent'anni con un trucco forse troppo calcato e lunghi boccoli castani. Ripongo la trousse, mi sistemo la gonna a pieghe di principe di Galles e abbottono meglio il gilet. Vicino a quella ragazza esuberante sembro una fredda signora altolocata con una messa in piega stucchevole. Il treno passa sopra un lungo ponte, poi sparisce in una galleria e quando esce dal tunnel aumenta la sua corsa. Mi lascio sballottare mollemente, decido di togliere le dighe alla mia mente e lascio che i pensieri mi vengano addosso. La giovane si è addormentata, la testa china sulla spalla le sobbalza a ogni movimento del treno.
Ci scuote violentemente una lunga e stridente frenata, finiamo per terra malamente, la mia valigia piomba giù dal portabagagli e per poco non mi cade in testa; lo zaino della ragazza rotola sul pavimento del treno inclinato, la giovane mi si stringe addosso, si è irrigidita, mi fissa allargando i suoi occhioni come un cucciolo impaurito. Il treno ha deragliato e si è miracolosamente fermato in prossimità di un ponte.
Mi precipito nel corridoio, ho la mente frastornata e la faccia di pietra. I passeggeri urlano e scappano dagli scompartimenti, mi spostano e mi strattonano. C'è un viavai di ferrovieri, in lontananza si sente il suono delle prime ambulanze e di lì a poco irrompono anche i vigili del fuoco e le forze dell'ordine. Qualcuno ha crisi isteriche, altri urlano dai finestrini, i bambini piangono: è il delirio. Chiedo a un giovane poliziotto di contattare la mia famiglia ma l'uomo, dopo avere appurato che sto bene, non mi considera più. Lo imploro con le lacrime agli occhi, vedendomi piangere, cede alla pietà e mi conduce nella cabina del capostazione dove potrò telefonare. Finalmente chiamo il mio fidanzato, non sento molto bene da questa specie di radiotelefono, schiarisco la voce e sdrammatizzo la situazione, parlo di un guasto agli impianti e gli spiego che non sarei mai arrivata in tempo al colloquio di lavoro e quindi avrebbe dovuto rimandare l'appuntamento per me. Sergio non crede alla mia finta calma, libera un fiume di parole impastate di paure e raccomandazioni, quasi urla, avverto la sua preoccupazione. Mi obbligano ad attaccare, riesco solo a dirgli che l'avrei richiamato al più presto. Stranamente la mia compagna di viaggio non ha nessuno da chiamare, sono curiosa e mi faccio raccontare qualcosa di più su di lei, scopro così che la sua famiglia è in Argentina e lei è venuta a cercare un suo zio che vive nel nord Italia e che ha promesso di aiutarla. Nessuno dei suoi cari può immaginare che in quel momento lei si possa trovare su un treno che ha deragliato, quindi è inutile avvertire chiunque. Ci dicono di aspettare i soccorsi, naturalmente i feriti dei primi vagoni hanno la priorità e quindi le operazioni andranno per le lunghe. Maya, così mi dice di chiamarsi la ragazza, è di nuovo in piedi, sta bene, niente di rotto, solo tanto spavento. La mia gonna ha l'orlo strappato e i capelli non sono laccati come prima ma riesco a muovermi bene, non sento dolore.
Raduniamo le nostre cose, ci affacciamo al finestrino per avere una vaga idea di dove siamo e senza dirci una parola scendiamo insieme dal treno con tutti i nostri bagagli. C'è un viavai continuo di persone e soccorsi intorno al treno e nessuno bada a noi due. Ignoro che scendendo dal treno la mia vita avrebbe preso una strada completamente diversa e senza ritorno.
Lungo quel tratto di campagna Maya si muove agile nei suoi sandali di gomma, porta solo il peso dello zaino, io, invece, arranco sui tacchi a spillo e trascino una grossa valigia, ci guardiamo e ci scappa da ridere. Il sole è a picco e intorno a noi si srotolano tappeti verdi senza fine, dall'orizzonte dilatato appare un gruppo di cascinali e si vedono stradine tortuose arrampicarsi e poi sparire dentro la valle.
Dopo qualche chilometro il sentiero sconnesso che costeggia la ferrovia porta sulla strada principale. Sfinite, ci sediamo sul ciglio della strada, io nel frattempo ho recuperato dalla valigia un paio di scarpe basse molto più comode. Maya mi porge l'ultima bottiglia d'acqua rimasta, siamo sudate e sporche, frugo nella borsetta e le passo il rossetto e ridiamo ancora per quel poco di ironia che ci è rimasta.
Un furgoncino rosso inchioda sull'asfalto rovente, un giovane si affaccia dal finestrino, ha ricci capelli neri, occhi scuri dal taglio un po' allungato, ci guarda stupito. Non dobbiamo essere un bello spettacolo. Senza neppure guardarci tra di noi ci precipitiamo verso la macchina.
«Che v'è successo regà?» ha un forte accento romano o giù di lì.
«Dove siamo?» rispondo con un'altra domanda e intanto mi guardo intorno.
«Cà d'Oro, Ciociaria».
«C'è una pensione nelle vicinanze dove possiamo ripulirci e passare la notte?» chiede garbatamente Maya con un marcato accento argentino.
«A quarche chilometro ce sta la locanda de mi' nonna Luisa».
Certo quell'accento non lo aiuta, comunque sono ben felice di conoscerlo, ma mai quanto di conoscere sua nonna.
Il ragazzo carica i bagagli, poi apre gli sportelli e ci fa salire sul furgoncino. È molto alto e ha spalle larghe e muscolose, particolare che non sfugge a Maya, io invece dopo questa brutta avventura non vengo neppure sfiorata dal pensiero erotico. Naturalmente la mia amica si siede accanto a lui.
«Il nostro treno ha deragliato e ci siamo fatte un bel pezzo a piedi» dico per dargli spiegazioni.
«Io sono Maya e lei è Anna» ha il sorriso inebetito.
«Francesco» e scopre denti bianchi e perfetti, ha un sorriso spontaneo e occhi luminosi.
«Dove dovevate annà?»
Ecco, bravo, il passato è il tempo giusto. Cala il silenzio e allora capisco che anche il viaggio di Maya non ha una meta sicura, che anche lei ha una storia senza margini e senza bordi e questo imprevisto è esattamente quello che aspettava...
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