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La diga
Non doveva essere lì.
Il rumore della vecchia Panda dell' 86 lo teneva sveglio in quell'alba dorata lungo l'autostrada.
Accese una sigaretta.
Ancora non era andato via l'odore di quella precedente e lui era di nuovo a trafficare con l'accendisigari incastrato nel cruscotto di quel vecchio ferrovecchio.
Eppure quando decideva di andare a pescare doveva prendere la Panda. Anche con le gomme troppo lisce e il finestrino tenuto su con un cuneo di legno.
Niente radio, niente musica, niente aria condizionata, niente pelle sui sedili. Nessun airbag, il posacenere stracolmo di vecchie cicche, un giornale ingiallito dal sole sul sedile posteriore.
Claudio amava quella vecchia carretta perchè gli ricordava altri tempi.
Secondo autogrill, mancano venti chilometri alla diga.
La canna rossa aveva il puntale rovinato ma era l'unica adatta. Però aveva preso anche l'altra in fibra di carbonio. Come sempre, aveva deciso all'improvviso, mentre si girava nelle lenzuola calde nel cuore della notte.
Aveva frugato un po', ma neanche troppo, per trovare le lenze e gli ami. Avrebbe dovuto cambiare il filo. Quanto tempo era che pescava con quelle lenze? Le aveva preparate quando era ancora a casa. Tra i rimproveri di Stefania e il cellulare che squillava.
Tre secoli fa.
O solo due anni?
“Alle diciassette, mi raccomando, non fare come al solito che ti scordi pure questo.”
Aveva quasi cambiato voce. Non tanto il tono, forse l'accento. O parlava più lentamente.
Non ricordava che la voce stridula e concitata della moglie.
Eppure lei gli aveva sussurrato parole d'amore su quei sedili disadorni della Panda dell'86.
Sepolte dalla polvere del tempo. Cancellate. Formattate.
Anche lei era sveglia?
Le sei meno un quarto.
Il cielo si era schiarito. L'incendio che il sole aveva sparso nell'aria con quel suo modo violento di sorgere da dietro le colline stava svanendo nella luce grigia e azzurra di un mattino troppo bello per il suo umore.
“Giorno”.
“Buon giorno! Quattro euro e settanta”.
Frugò nelle tasche dei pantaloni e trovò un po' di monete. “ Arrivederci!
“Arrivederci”.
La strada girava dietro il casello e poi una discesa portava dritto dritto sotto la diga.
Ci andava spesso alla diga. Anche d'inverno.
Dentro le pozze tra il fango e le rocce, quando era stagione, le carpe si infilavano sotto e sguazzavano pigre. Le poteva vedere smuovere l'acqua melmosa e far risuonare un rumore di bolle grasse e dense. Poi un colpo di pinna e tra i sassi più grossi osservava quei pesci frugare sotto la terra. Allora si potevano prendere anche con le mani, stando attenti a chiudere la via di fuga.
Ma adesso era lì con la sua canna rossa con la cima rotta e quella di carbonio.
Voleva soltanto un po' di pace per riflettere da solo.
Magari se non avesse preso niente sarebbe stato pure meglio. Così non gli sarebbe rimasto quel puzzo di pesce sulle mani che si portava appresso per ore dopo ogni cattura.
Erano tre giorni che non andava in ospedale. Aveva preso un giorno di ferie.
Amava andare a pescare il lunedì, quando sull'autostrada a quell'ora non passavano che autotreni e commessi viaggiatori.
Prima che cominciasse la discesa c'era una trattoria con un bar.
Ormai era una consuetudine. Caffè senza zucchero e una brioche.
Sembrava finta. Sapore di plastica e petrolio. Lucida e malsana.
Adorava quella brioche.
Trovare chiuso quel bar sarebbe stata un'autentica sciagura.
“ Alle diciassette, mi raccomando!”
“Alle diciassette... alle diciassette, alle diciassette...”
Avrebbe preferito morire pur di non esser lì alle diciassette. Davanti al volto affilato di Stefania, sempre più magra ed efficiente. Accanto al trafficante di pietre preziose, simpatico e cordiale, lo sguardo fisso sulla sua ex moglie e la mente ingombra di affari.
Loro si erano sempre detti tutto.
Stefania non gli aveva nascosto la sua relazione, ma aveva tirato avanti un po', lavorando più a lungo, andando a pescare, frequentando congressi in località più remote.
Sfuggiva alla verità, guardandola di sguincio.
Ora era lì, a fumare l'ennesima sigaretta che si portava via il sapore sintetico della colazione.
Lo sportello della vecchia Panda cigolò un po', come sempre, ma poi si lasciò aprire e Claudio scese.
L'aria era fresca alla diga a quell'ora.
Più tardi avrebbe fatto caldo.
Alle diciassette dal notaio per l'atto di vendita.
Non gli andava giù quel fatto. Ma era stato deciso razionalmente.
Tanto più che di quella casa non ne voleva neanche sentir parlare.
Troppo grande. Troppe stanze pronte a ospitare la nidiata che non arrivò mai.
Scese a riva. L'acqua del fiume era verde. Ferma e silenziosa.
La diga si alzava imponente poco più in la.
Diede un'occhiata dove poter sistemare il seggiolino pieghevole.
Si guardò attorno, si spinse fin dietro il canneto tra resti di rifiuti non smaltiti e melma nera limacciosa, resti organici di qualche frequentatore clandestino e tovagliolini di carta bianchi.
Se ne tornò alla macchina. Accese una sigaretta e la fumò in un attimo prima di entrare. Aveva sonno. Aprì lo sportello della Panda che cedette riluttante alla sua trazione e cigolò.
Rientrò in macchina e armeggiò con la levetta del sedile.
Lo schienale schiantò indietro d'improvviso e Claudio si distese a sonnecchiare. Non è che avesse tutta quella voglia di pescare. Non aveva chiuso occhio da quando si era svegliato nel mezzo della notte. Si era addormentato al pensiero della sua casa che avrebbe venduto.
La comprarono assieme. Metà ciascuno. Ora rivendeva la sua quota al trafficante. All'amante di Stefania. All'ex amante della sua ex moglie. Al compagno della sua ex compagna di vita.
Immaginava tonnellate di pietre preziose, bracciali, collane, casse ricolme di gioielli, dobloni d'oro sparsi lungo il corridoio, gemme luccicanti sul piano cottura. Quello che scelse assieme a Stefania quel pomeriggio di pioggia. Tra mille marmi colorati.
“Ti piace questo, amore?”
“Troppo chiaro”
“Ste'! Guarda qui, è perfetto!”
“Questo si! Sta bene pure coi pavimenti”.
Sognavano una cucina brillante supertecnologica coi marmi colorati, facevano progetti sula stanza dei bambini.
Programmavano gli alberi da piantare in giardino.
“Voglio un pero”
“E io un mandorlo”
“E un albicocco. E qui un ciliegio, proprio davanti la finaestra, così lo vedi quando fiorisce.”
“E se non fiorisce?”
“Non dire idiozie! I ciliegi fioriscono sempre! Qui ci mettiamo lo studio.”
“Voglio una parete viola! “
“ Ma è orribile viola, non si può guardare!”
“Ricordi la promessa che mi hai fatto? Un colore ciascuno.”
“Si ma c'è un limite a tutto amore! Non esiste neanche una pittura lavabile viola!”
Ridevano. Ridevano tanto. Felici di un futuro incerto.
Felici delle loro cose, delle loro illusioni.
E poi i figli mancati. E le prime liti. E quella macchia sul muro viola. Quando il piatto pieno lo mancò e si spiaccicò sulla parete. Linguine ai fiori di zucca. Appiccicati per giorni sulla parete viola. E poi silenzi e lacrime in solitudine. E altre persone nelle loro vite.
Non si accorse neanche di aver dormito tre ore.
Un bambino con una maglietta bianca a righe blu e pantaloni corti lo guardava da dietro il finestrino, seduto sul sellino della sua bicicletta.
Claudio si tirò su, lui rise e corse via.
Saliva lungo il sentiero scosceso spingendo dritto sui pedali.
Lo vide sparire dietro il profilo della diga. Poi pedalare lungo il pontile.
“Alle diciassette, ricorda. Questa volta non te la perdono. Lo sai che Daniele ha tanto da fare e non può perdere tempo per te e per le tue distrazioni.”
“Ti ho detto di si, Stefania. Possibile che mi devi sempre fare incazzare? Ho avuto un'urgenza in ospedale. Quello non è l'unico essere al mondo ad avere da fare, porca puttana!”
“ Quello, caro, si chiama Daniele!”
“ Come cazzo si chiama non ha importanza adesso. Ci vediamo domani.”
“Alle diciassette!”
“Ho capito, vaffanculo!”
“Stronzo.”
“Stefania...”
Silenzio.
“Ste!”
Silenzio.
“Hai riattaccato?”
“No.”
“Stai piangendo?”
“No.”
“Perchè non parli?”
“Perchè siamo ridotti così? Non possiamo fare un discorso che tu cominci a dire parolacce.”
“ E tu parli lentamente con quella voce finta calma che mi fa incazzare.”
“Claudio, senti, una sera dobbiamo parlare. Vorrei raccon...”
Click
Lui faceva così. Quando la rabbia lo assaliva troncava ogni discorso.
Stefania non lo richiamò. Lui bevve vino rosso, mangiò un po' di formaggio preso dal frigo e si sdraiò sul letto senza pigiama.
Dovrò cambiare la lampadina del frigorifero. Ma si addormentò prima di fissare bene quel proposito nella mente.
Il bambino non c'era più. Ammiccò volgendo lo sguardo verso la diga ma non si vedeva niente.
Scese dall'auto. Il sole era alto e caldo, l'acqua ferma e mille zanzare ronzavano attorno.
Un cefalo saltò lontano dalla riva e ricadde con un tonfo.
Si sedette sul seggiolino lungo la riva e lasciò le canne in terra.
Aprì il giornale e lesse.
Lesse a lungo. Tutto il giornale. Anche l'inserto economico e i programmi della tv.
Poi gli venne fame. Lasciò tutto lì in terra. E anche la macchina.
Salì su a piedi fino alla trattoria.
C'erano quattro camion enormi parcheggiati fuori.
Entrò, si sedette, ordinò un primo.
Mangiò i grissini. Li finì tutti.
Poi la pasta. Poi l'anguria. Il vino non era un gran che.
Entrarono due rappresentanti avvolti nei loro completi dozzinali e con la cravatta slacciata.
Pagò il conto. Due euro di mancia. Lasciò la moneta da due euro sulla tovaglia bianca, proprio sopra la macchia di vino rosso, a coprirla completamente.
Uscì e affrettò il passo.
Alle diciassette, cazzo!
Mise tutto in macchina. Le canne, le lenze, il retino, lo sgabello, il giornale disfatto, la busta vuota per i pesci.
Avviò il vecchio macinino su per la salita.
Era infuocato. Il sole delle due aveva scaldato quell'ammasso di lamiere.
Aveva pure fatto tardi. Se avesse trovato fila al casello non ce l'avrebbe mai fatta.
In fondo, pensò, è meglio così.
Pietre preziose lungo il corridoio, casseforti aperte a metà rigonfie di monili. Era un incubo. Pensava a quella casa vissuta dal trafficante di pietre preziose.
“ Non è un trafficante! Commercia gioielli. Un lavoro come un altro.”
“ Un lavoro del cazzo! Non si diventa così ricchi in quattro e quattr'otto da un giorno all'altro.”
“Daniele non è diventato ricco da un giorno all'altro.”
“Senti, non ne parliamo più di quello!”
“Quello, mio caro, ha un nome!
Smeraldi sul cesso del bagno piccolo, diamanti sul gradino del balcone.
Oro zecchino sul divano, gioielli sul tavolo, dobloni all'ingresso, tutta casa invasa da quelle cazzo di pietre preziose. Mille luci brillanti di gioielli gli accecavano gli occhi.
Finchè frenò di schianto davanti al bambino.
Era lì, sull'asfalto, solo, insanguinato.
La bicicletta un mucchio di ferro accartocciato.
Una striscia nera della frenata di un auto sull'asfalto.
Guardò la maglietta a righe bianca e blu intrisa di sangue. Gli occhi sbarrati, la bocca socchiusa che sbavava una schiuma rosa sul selciato bollente. Eppure era bello quel bambino. Immobile, sporco di sangue, rannicchiato. Bellissimo anche con la morte in faccia che ne sbiadiva il volto.
“Alle diciassete... alle diciassette... alle diciassette. Non puoi mancare anche stavolta.”
Ingranò la prima, e poi la seconda e la terza e schizzò verso il casello.
Percorse cinquecento metri, guardò nello specchietto retrovisore, spinse sul pedale del freno con tutta la forza e fece un testacoda come un pilota di rally.
La vecchia Panda scricchiolò paurosamente, sbandò, si assestò e riprese a camminare in senso inverso tra l'odore acre dei freni e delle gomme fumanti. Scese di corsa dalla macchina e si inginocchiò sul bambino. Gli prese il polso. Poi mise due dita sul collo. Percepì ancora un flebile flusso di sangue. Si tolse la camicia. La strappò. Ne fece delle bende. Gli pulì la faccia insanguinata e gli praticò la respirazione bocca a bocca. Sputò la schiuma rosa che gli usciva dalla bocca. Il bambino si mosse. Girò gli occhi. Ansimò. Claudio corse in macchina. Prese la sua borsa con gli strumenti chirurgici di primo soccorso. Un abitudine che aveva sempre mantenuto.
Tagliò la maglietta zuppa di sangue. L'addome magro rosso insanguinato era lacerato. Un grosso pezzo di vetro usciva appena dallo squarcio. Prese la camicia. Ne fece un tampone. Lo appoggiò sulla pancia liscia e morbida del bambino che si scuoteva con piccole convulsioni. Tirò via il vetro e un fiotto caldo di sangue gli inondò la mano. Il bambino gemette e si lamentò. “Fa male...” sussurrò con un filo di voce sottile come una sciarpa di seta. Premette il tampone che affondò nella ferita e si tinse di rosso scuro.
“ Mi puoi sentire?”
“Si...”
“Come ti chiami?”
“Cla... u... dio...”
Lo accarezzò sul viso e sui capelli incrostati di sangue coagulato.
“Non aver paura. Sei un uomo. Te la caverai”
Prese il portaaghi, scartò l'ago con il filo in seta. Aprì la pinza e bloccò l'ago. Si richiuse con uno scatto. Lo serrò di più e affondò la punta ricurva esagonale nella cute tenera e martoriata. L'ago uscì dall'altro lembo. Tirò il filo. Claudio urlò. Annodò, tagliò il filo e mise ancora altri sei punti. Tamponò la ferita, gli fece un'endovenosa, lo prese in braccio dopo averlo pulito dal sangue.
Era leggero, quel bambino. Si lasciava cadere sulle sue braccia come il corpo di una carpa appena catturata. Ma era bello. Pallido e smunto, con gli occhi che lo fissavano supplicante ma senza sguardo. Gli occhi senza tempo di un bambino che muore.
Lo adagiò sul sedile posteriore. Telefonò in ospedale.
“Sono Ferroni” Preparate la sala operatoria.” Chi c'è oggi?... Il professore è reperibile? Chiamalo, sarò lì tra quaranta minuti al massimo. Un bambino. Ha la milza a pezzi. Prepara il plasma. Tutto quello che trovi.”
Mise in moto.
Lo osservava dallo specchietto retrovisore. Claudio ogni tanto aveva qualche piccola convulsione. “Mi senti Claudio?”
“Si...”
“Non ti addormentare. Ora arriviamo. Io ti salverò!”
“Si...”
Chirurgia generale. La sala operatoria già pronta. Il professor Cremona che si cambia. Claudio si infila i copriscarpe, il camice sterile, la mascherina. Sabrina l'aiuta ad infilarsi i guanti e il copricapo.
“Siamo pronti”.
“Grazie Professore!”
“Solo casini, mi porti, Cla! Sei andato più a pescare? Mi avevi promesso che mi ci avresti portato”
Le sei e venti. Una vibrazione in tasca.
“Vai pure Ferroni, il bambino è salvo, non ti preoccupare.”
Claudio si tolse guanti, cappello mascherina camice. Gettò tutto nel cestino dei rifiuti speciali. Apri la porta a vetri della sala operatoria con una spallata e lesse il messaggio.
1 nuovo messaggio.
Apri.
“s e i u n o s t r o n z o”.
Opzioni.
Rispondi.
Via SMS.
Seleziona.
“ F o t t i t i”
Inoltra.
Annulla.
Elimina.
Eliminare messaggio?
Ok.
“s e i u n o s t r o n z o”.
Opzioni.
Elimina.
Eliminare messaggio?
Ok.
Spense il cellulare, scese a piedi e aprì la porta della macchina.
Lo sportello della vecchia Panda cigolò un po', come sempre, ma poi si lasciò aprire e Claudio salì.
E tornò a casa sua.
Quella nuova.
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- A metterlo in lavatrice con il detersivo antiparolacce ne potrebbe uscire un racconto commovente e piacevole.
- ok bene
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