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L'ULTIMO PRANZO
“Ma possibile! Di nuovo.. come posso continuare così?”.
La stanza numero cinque aveva suonato per la settima volta l’allarme del campanello. Gianna aveva molta pazienza con gli “ospiti”, ma a tutto c’è un limite. L’età avanzata, gli acciacchi leggeri, le malattie più invasive li rendevano un po’ capricciosi, fastidiosi e bisognosi di continue attenzioni; tutto lecito e doveroso: quello che non sopportava era l’arroganza che derivava dalla loro classe sociale elevata, per cui tutto era dovuto “perché io pago”.
Sbuffando si alzò dalla sedia e con piglio guerriero attraversò a passo di marcia il lungo corridoio. Aprì la porta quasi con violenza, pronta allo sbotto, ma ammutolì.
Marcello era seduto sul letto con le gambe a penzoloni, che ondeggiavano lente come fanno i bambini annoiati: si era vestito, pettinato e sbarbato, perfino il profumo, esagerando e giocava con il pulsante dell’allarme. Questo non se lo aspettava: era una battaglia ogni mattina per la toilette e vederlo così, elegantissimo nel suo spezzato grigio e blu l’aveva shockata.
“A che ora finisci il turno?”
“Tra due ore” riuscì a dire sottovoce,
“No, è tardi: fatti mettere in ferie, cambiati in fretta, chiama un taxi e andiamo a pranzo insieme.” Gianna obbedì senza replicare. Poco meno di mezz’ora e si ritrovarono seduti nella comoda Audi diretti a San Remo! Due ore di viaggio almeno, una pazzia, una follia inimmaginabile per la sua vita di donna di mezz’età, senza legami, impegni o passioni.
“Andiamo da Carlo: ho sempre mangiato superbamente.”.
L’autista, persona curiosa ma riservata, non conversò molto, preferendo la radio, continuamente attento alla coppia che, dietro, non parlava. Lei era agitata, nonostante il contegno: girava lo sguardo a tratti curiosa, a tratti pensierosa, come se mille domande le rodessero dentro. Lui padrone della situazione guardava il panorama sorridendo.
Carlo li accolse sorpreso, la cucina era già chiusa e a disagio cercava una scusa per rifiutare la coppia.
“ È il mio ultimo pranzo, Carlo”.
Li sistemò nella terrazza del suo appartamento personale, all’ombra della bouganville.
“Sono venuto qui tanti anni, Gianna: con mia moglie, con le mie amanti, trattato sempre come un re da Carlo e suo padre prima di lui, per chiudere i conti non potevo che tornare qui. E tu meritavi di assaporare come deve essere vissuta la vita, con gusto.”.
“Dipende dalla buona stella con cui si nasce Professore: la sua è splendente, la mia appena opaca.”.
Mangiarono in silenzio, un pranzo semplice ma d’eccellente fattura: delicati crostini di caprini e olive, trenette con zucchine e scampi, una leggerissima mousse di limoni a chiudere. Il bianco fresco e aromatico fu appena assaggiato: non era più il Professore dei quarant’anni.
L’autista, volutamente in disparte, osservava incuriosito.
“Lei non ha idea che uomo fosse il Professore: elegante, generoso, un signore con la Esse maiuscola. Unico vizio le donne, nonostante amasse con tutto se stesso la moglie, una donna un po’ malinconica e fragile.”.
Carlo parlava quasi a se stesso, fissando il calice e riannodando i ricordi. La frase del Professore lo aveva rattristato e volentieri si era messo ai fornelli, come omaggio e saluto finale a uno dei suoi clienti più cari.
“Gli piaceva cenare guardando l’orizzonte e si perdeva nel panorama trascurando la bellezza di turno; a loro non interessava, sapeva risarcirle. Con la moglie no, cenavano occhi negli occhi, in silenzio. Affittava l’appartamento da maggio a ottobre pur di essere libero di venir qui in ogni momento.”.
“E ora? Perché vive in una casa di riposo?”.
“La signora si suicidò in piena crisi depressiva, a sessant’anni non resse più il dolore di aver perso l’unico figlio, che avevano avuto. Un’adozione fu l’unica cosa che il Professore non riuscì a comprarle.
Noia, dolore, frustrazione: un mix esplosivo, un timer innescato. Non credevo riuscisse a sopravviverle, invece il Professore continuò a venire qui anno dopo anno. Ha lasciato insegnamento e ricerca solo cinque anni fa; dopo aver liquidato i suoi beni si è relegato dove ha visto. Si è ricordato di tutti: a me ha regalato uno Schifano, “Non mi piace, non ci capisco nulla, ma il gallerista mi ha detto che sarà la tua pensione per il futuro e finirai i tuoi anni nel lusso.” lo conservo ancora quel biglietto.”.
Gianna e Marcello mangiavano in silenzio, lentamente e persi nei rispettivi pensieri.
“Sono stanco, Gianna, mi aiuti?”.
“Certo, chiamo il taxista e andiamo.”
“No, sono stanco di vivere, non servo più a nulla, non mi interessa più nulla.”
“Riprenda a scrivere, l’aiuto io, se vuole.”
Marcello non rispose, si alzò lentamente, guardando il panorama con occhi velati.
Andarono in città: gelato, passeggiata e violento litigio, per la ritrosia di Gianna all’acquisto di un abitino nero molto elegante, “Non lo userei mai.”.
Gianna dormì in clinica, quella notte, mancavano poche ore all’inizio del suo turno, che senso aveva rientrare in una casa dove nessuno l’aspettava, nemmeno un canarino?
Marcello si trincerò in un mutismo assoluto, improvvisamente autistico, apatico e insensibile a ogni stimolo, solo lo sguardo diventava attento a ogni ingresso di Gianna.
La direzione della clinica interpellò i migliori specialisti per recuperare il loro ospite da quell’improvvisa depressione, si sa, erano sempre restii a lasciarsi sfuggire le loro galline dalle uova, anzi euro, d’oro, ma Marcello si spense serenamente nel sonno un mese dopo circa.
Gli evitarono l’autopsia, a ottantatre anni si può morire così e fu una fortuna … non tutti i valori sarebbero risultati regolari, anzi, alcuni decisamente sospetti.
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