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Ferita mortale
Sono appena le sei del mattino. C’è chi a quest’ora è ancora a letto a dormire, chi ha appena aperto gli occhi, chi si sta preparando per uscire di casa e chi invece ora sta rientrando; c’è chi sta nascendo in questo momento e chi invece sta levando proprio ora il suo ultimo sospiro.
Io non sono tra questi, perché io sono diversa, diversa da tutto e da nulla: io non ho una sveglia da poter regolare a che ora mi pare e piace, io mi alzo quando lui mi chiama, potranno essere le due, le cinque, le undici di sera, non importa per lui, l’unica cosa importante, invece, è solo lavorare, lavorare ed ancora lavorare.
Oggi è Natale e tutto il mondo lo festeggia, ma io non faccio parte del mondo e perciò non è mio diritto festeggiarlo; per me è una giornata come tante altre, passata tra lavoro e pasti, anzi, quest’oggi mi tocca fare lo straordinario, perché molti lavoratori mancano.
Ora sono le sei e trenta, il capo ci lascia un quarto d’ora per fare colazione, ma io non ho niente da mangiare ed è perciò che mi limito ad osservare la città: oggi, a differenza degli altri giorni, tutto sembra più solare, sarà l’atmosfera natalizia!
Per le strade non c’è quasi nessuno, tranne qualche barbone o qualche cucciolo abbandonato; in cielo l’alba ancora verdastra si accinge a levarsi in alto verso la cima del campanile, ma nessuno sembra accorgersi della sua bellezza!
Il silenzio che avvolge la quiete mattutina è, per me, allo stesso tempo, impercettibile ed assordante!
Purtroppo è già ora, il capo mi rivuole al lavoro e mi tocca ritornare in fretta, prima che mi becchi qualche strigliata, o, addirittura qualche ceffone.
Oggi il mio turno termina alle sei di stasera, ma non si sa mai, forse il direttore mi vuole far rimanere per qualche oretta in più; ma oggi è di buon umore e alle sei mi lascia tornare a casa.
La mia casa è diversa da tutte le altre; è piccola e poca spaziosa ed è fatta di legno e stoffa messi assieme, inoltre, dentro di essa non viviamo solo io e la mia famiglia, ma ben altre dodici persone.
Il campo in cui vivo è pieno zeppo di zingari, barboni o immigrati, gente come me appunto e come la mia famiglia; tutti insieme ci facciamo forza e cerchiamo di andare avanti con quello che troviamo per strada o con quel poco che ci pagano a lavoro.
Oggi, mentre stavo per tornare a casa, mi sono fermata ad osservare un po’ il mondo che mi circonda e mi sono accorta che esistono persone molto più infelici di me, ma ce ne sono anche di molto più felici.
Cammino, come è mio solito fare, a testa bassa, per paura di incassare insulti o risatine dalla gente che mi circonda, quando sento un bambino gridare:
-“Mamma, mamma, guarda, un barbone, diamogli qualche moneta!”
-“Ma, no, Matteo, non vedi che sta dormendo e poi a casa ci aspetta la zia con i suoi bei regali!”- risponde la madre, e se ne vanno via di fretta, come per non dare nell’occhio.
Sento che quei loro sguardi sono riusciti a penetrarmi senza pietà e in fondo non mi conoscono; possibile che sia per loro solo un povero barbone morto di fame su un marciapiede lurido e sporco, solo un’inutile stella senza più la brillantezza d’una volta, un fiore appassito ed inaridito fra tante rose abbaglianti, ma forse quella stella, se osservata nel suo profondo, potrebbe ancora una volta illuminare la terra con la sua lucentezza d’animo e quel fiore sciupato, se curato con amore, può ritornare a germogliare!
Ma queste illusioni mi attraversano la mente invano e in un lampo fulmineo, perché so che nessuno si sarebbe mai accorto della presenza di quel fiore o di quella stella e che non potrò mai affermare che questo nostro mondo s’avvale della loro o, meglio dire, della mia esistenza!
Poi, arrivo al campo, ma davanti alla porta di casa mi ritrovo un gruppo di ragazzini vestiti da Babbo Natale che mi fermano per regalarmi qualche cioccolatino; io sono felice, ma non so come ringraziarli, perché d’italiano non conosco neanche una parola.
Anche loro sembrano contenti d’aver compiuto una buona azione e se ne vanno via canterellando qualche canzoncina natalizia.
Dopo entro in casa, mi aspetta un altro ceffone di mio padre, si arrabbia con me perché ho impiegato troppo tempo per tornare a casa e perché gli servo per dei lavori pesanti, che il mio fratellino di quattro anni e la mia mamma molto malata non possono purtroppo compiere.
Lo aiuto nelle faccende, ma ho gli occhi ancora lacrimanti; così, appena finito, scappo sul mio materasso, che condivido con altre due persone, e scoppio in lacrime, disperandomi di me e della mia vita, della gente che mi circonda, del mondo in cui sono nata e nel quale sono costretta a vivere per sempre.
Tra una lacrima e l’altra, tra un singhiozzo ed un altro, rifletto su come sarebbe stata la mia vita se fossi nata in una famiglia felice e benestante: sicuramente non sarei stata costretta a lavorare a soli undici anni, non avrei vissuto in questo squallore di baracca e di certo la mia esistenza avrebbe avuto un senso.
Ed invece, penso, cosa rimarrà di me, quando un giorno sarò morta? Rimarrà il ricordo di una nomade, di una persona derisa, esclusa e sfruttata da tutto e da tutti.
Ma io non voglio, non voglio assolutamente fare una fine del genere, io voglio essere felice, voglio sposarmi, avere dei figli, educarli, portarli a scuola, farli vivere in una vera casa, ma, basta, mi dico tra me e me, basta farsi del male, so che i miei sogni saranno costretti a svanire nel nulla, così come nel nulla sono nati.
Ora sono le otto, l’ora della cena, aiuto la mamma a preparare il cospicuo pasto che oggi ci tocca mangiare; beh, direi che stasera si cena un po’ meglio: qualcuno ha trovato, infatti, qualcosa che ci toccherà mangiare con una fettina di pane semi-annerito.
La cena termina in fretta, ma, purtroppo, è il massimo che ci si può trovare in un campo nomadi e quasi tutti ci hanno fatto oramai l’abitudine, purtroppo però non tutti, io per esempio no.
Di fatto, ogni notte, sento lo stomaco dilatarsi e restringersi poi improvvisamente, quasi preso da una morsa insostenibile; ma questa notte sento un dolore più profondo, come mai l’ho provato; cerco di porgli fine camminando un po’ su e giù per il campo, ma niente da fare è una ferita irrefrenabile quella che mi è toccata.
Passano le ore e il dolore aumenta sempre più, sempre più, fin quando non sono costretta ad accovacciarmi su me stessa, in lacrime, sola, triste, la ragazza di undici anni più infelice al mondo, quando, all’improvviso la luce dei miei occhi si spegne per sempre.
Ed è così che termina l’ultimo ed il più triste Natale della mia vita!
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