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Antorcha hija del diablo y el inquisidor cap 4
quarta ora
Accertatomi che fosse viva, comandai fosse lasciata sola, a riposare, e richiusa con violenza, la porta della cella, di corsa, risalii le ripide scale e mi precipitai nel mio alloggio.
Erano anni, che andavo a letto saltando i riti imposti dall’abito, per cui niente cilicio, niente genuflessione, niente lettura della scritture, niente preghiere; ma quella notte, invece, pregai, oh sì pregai il mio sconosciuto Signore di spiegarmi cosa mi stesse succedendo, di spiegarmi perché sentivo le mie carni scottare e darmi tormento, perché avessi la testa in ebollizione e perché ogni qualvolta chiudevo gli occhi, mi appariva l’immagine di Antorcha abbandonata fra le mie braccia!
Non ebbi risposta alcuna, ma la polluzione conseguente ai miei sogni mi dette una ulteriore fonte di preoccupazione. Per alcuni giorni cercai di ignorare la sua presenza, e solo quando Padre Efisio me la impose, sospirando ed imprecando contro il Demonio che l’aveva messa sul mio cammino, mi accinsi a raggiungere la cella delle interrogazioni.
Devo dire che la guarnigione militare del villaggio, aveva attrezzato “al meglio” una “sala tortura” che, peraltro, io non avevo mai permesso venisse utilizzata; comunque fu lì che avvenne il nostro terzo incontro.
Soli, lei legata in piedi con braccia stese come fosse sulla croce, gambe divaricate e legate alle caviglie a robusti ceppi, il fuoco dove erano sistemati i ferri da tortura emanava calore e rumore, lo scoppiettare del legno bruciato scandiva quasi il tempo che rimasi a fissarla, lei, sempre con quel volto assente con lo sguardo mai diretto nei miei occhi, bella seppur affranta, mostrava al mio sguardo parte del collo del petto e dei seni, ricoperti da lentiggini, i suoi capelli ramati, d’un rosso demoniaco, riflettevano i bagliori delle fiamme, sembrando ancor più innaturali, il biancore latteo delle sue carni mi mise in uno stato d’agitazione addirittura incontrollabile, la guardavo, sì, la guardavo non già come soggetto da interrogare, come anima da salvare, come rea da processare, condannare o assolvere;
no, la fissavo in modo carnale, ricordavo le innumerevoli prediche che avevo subito durante l’istruzione prima dei voti, e ricordando le minacce dell’ ira di dio, qualora si fosse violato il voto di castità, mi ritrovai all’improvviso con la gola secca, lo stomaco in subbuglio, le mani tremanti, ora, solo ora cominciavo a capire cosa mi fosse stato detto, ora, solo ora provavo sul serio l’attrazione demoniaca del “peccato”, ma, era questo il peccato? Questa sensazione così calda e bella e travolgente, era peccato? Desiderare di accarezzarla, di baciarla, di stringerla fra le braccia, annusare il suo odore, lambire con le labbra il suo sudore, toccare il suo corpo, scoprirlo, conoscerlo, coi suoi segreti, coi suoi umori, con i suoi gemiti…era peccato?
Perché mai domineddio avrebbe creato nostra sorella donna, se poi, ce ne impedisce la conoscenza? Che cos’è il peccato?
Caddi, in ginocchio e col mento sul petto, le mani giunte in un gesto di preghiera che m’era stato più volte indicato come risolutore, chiesi a gran voce una risposta.
E fu allora che sentii per la prima volta la sua voce, dolce come il latte caldo della nutrice, profonda come il mare, avvolgente come il vento caldo dell’estate, alzai il capo e rimasi inchiodato dalla sua presenza,
il fuoco sembrava riflettersi nei suoi occhi chiari, e sembravano laghi di luce, e le sue labbra, mentre che parlava, sembravano arcobaleni d’autunno, mai, mai in tutta la mia vita ero stato così male, così bene, così in estasi…
Aloisio, sentii dirle, “enorpac id anatas ut iaretnevid” più volte recitò quello che credevo un imprecazione o una preghiera, non mai un malefizio!
Resta il fatto che avvicinatomi le presi il viso fra le mani e le chiesi- Chi sei? Chi ti ha mandato a me? Perché distruggi le mie certezze? Perché impedisci al mio corpo di riposare? Perché se dormo ti sogno? Perché sento i lombi incendiarsi se solo ti guardo?
Impassibile, come una statua, rimase muta, spavalda, eccitando al massimo la mia ira, e fu allora che senza neanche pensare a quello che stavo facendo cominciai a baciarla, con violenza, con ingordigia, con tutta la mia inesperienza, e più baciavo il suo collo e le orecchie e gli occhi e il naso e le labbra…sentii all’improvviso la sua lingua strusciare la mia, e fu l’inizio dell’estasi, le mie mani frugavano il suo corpo fra le vesti, scoprii i suoi seni, piccoli, ritti come colline orgogliose, e li divorai, oh se li divorai, notando che Antorcha si contorceva cercando di liberarsi dai legacci, allora, la sciolsi io dai ceppi e rotolammo per terra, e fu lei a condurre il gioco, ad insegnarmi ad essere uomo, persi letteralmente il controllo del tempo, abbandonato alla sua bocca, alle sue membra, al suo ventre, bianco, bianchissimo, lucente di sudore, con una miriade di piccole efelidi scintillanti, lentamente prima, con furore dopo, lentamente di nuovo, dopo, questa donna mi fece conoscere il significato della vita, della morte, della passione, della follia, del calore infinito.
Non disse più neanche una parola, nonostante io la invitassi a parlarmi, a raccontarmi di sé, nulla, in silenzio, si rivestì e riprese a fissare il vuoto, come se la sua energia fosse finita così, all’improvviso, tutta consumata nell’amplesso.
continua...
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