racconti » Racconti fantastici » I Folletti del Sud
I Folletti del Sud
I Folletti del Sud
Tutti i popoli credono nei folletti e negli elfi, spiriti misteriosi in corpi animali o semiumani, dotati del potere di conoscere il tempo e gli avvenimenti dell'uomo, passati, presenti e futuri; esseri capricciosi e imprevedibili ma al servizio del bene, rarissimi da vedere, tanto che quando si manifestano di solito accadono dei fatti eccezionali che sconvolgono l'esistenza di coloro che li incontrano.
Nei paesi nordici i folletti sono degli omini verdi, in quello sud hanno spesso delle sembianze animali; nella mia cittadina del profondo Sud la leggenda popolare crede che si materializzino nel corpo di lente e grasse lumache, dette "moniceddri" ossia "piccoli monaci", molto probabilmente per il colore delle elitre, simile a quello del saio dei monaci. Queste lumache-folletto compaiono improvvisamente e silenziosamente, segnalando al fortunato prescelto la presenza dell' "acchiatura"(Cosa "cchiata", trovata), ossia un piccolo tesoro, spesso occultato da secoli nei muri o nel pavimento di vecchie abitazioni, da antichi abitanti della mia città, alla vigilia dell'ennesimo attacco dei tanti nemici che nel corso di millenni si sono affacciati minacciosamente alle sue mura.
A memoria d’uomo si ricordano almeno due episodi che avvalorerebbero l'esistenza dei "moniceddri" o per meglio dire, due episodi di ritrovamenti straordinari i cui protagonisti hanno affermato di aver avuto una indicazione dell' "acchiatura" dai "moniceddri", alias Folletti.
Uno di questi ha avuto per protagonista un poverissimo ciabattino ambulante di nome Giovanni e soprannominato "mesciu Giuvanni", ossia "Mastro Giovanni". Costui era un individuo malconcio, malnutrito ma di fattezze gentili e di età indefinita, nel senso che il "range" di età che gli si poteva attribuire variava tranquillamente dai 40 ai 70 anni, tanto malandate erano le sue condizioni fisiche.
Per Giovanni, celibe con madre e sorella a carico, perennemente affamato e squattrinato, quella era l'ora del rientro, solo che la sua cena sarebbe stata molto più povera dei suoi compaesani perché i soldi guadagnati quel giorno erano tanto pochi da non poter comprare nemmeno mezza pagnotta di pane. Ma di questo non si lagnava, come poteva lagnarsi se quella era per lui la regola? Giovanni apparteneva alla casta più umile della città, quella che in India viene definita "degli intoccabili" ma nonostante la sua estrema povertà, spesso rattoppava gratis le scarpe ai più poveri e bisognosi in cambio di un semplice sorriso e un augurio di buona salute.
Mastro Giovanni andava per case e corti chiedendo di aggiustare vecchie scarpe, per le quali, nessun'altro ciabattino era disposto a cimentarsi e in cambio di poche lire e un piatto di povera minestra, faceva magicamente ringiovanire le vecchie e ammuffite scarpacce.
Per questa sua aria, umile e mansueta, era spesso vittima di lazzi e schersacci ad opera dei soliti bulli di paese, numerosi dappertutto come la gramigna a maggio e sempre pronti a sfogare le loro frustrazioni sugli esseri più deboli ed indifesi.
Un giorno alcuni bellimbusti che si trovavano davanti a un venditore di spinosi fichi d'india, fermarono mesciu Giuvanni e gli proposero una "crudele" scommessa: "ti offriamo gratis 4 kg. Di fichi d'india a patto che tu riesca a mangiarli con tutte le bucce". Alla parola "gratis" il volto stanco di mesciu giuvanni ebbe un impercettibile fremito e una sottile luce balenò per un attimo nei suoi occhi spenti. "Accetto", disse il povero ciabattino e, senza batter ciglia, iniziò l'incredibile banchetto e, fico dopo fico, spina dopo spina, 4 pungenti ma saporiti e succosi chilogrammi di fichi d'india sparirono nelle insaziabili fauci di mesciu giuvanni. Trangugiato l'ultimo fico con lo stesso infinito senso di piacere del primo, si alzò dal marciapiedi e sotto gli sguardi muti e increduli dei suoi "benefattori" ruttò ma con garbo, raccolse la sua bottega ambulante e proseguì per il suo solito giro.
Un'altra volta, di prima mattina, durante il carnevale, fu preso di mira da due giovani balordi ubriachi; costoro lo cosparsero di anice a 50 gradi e gli diedero fuoco; fu miracolosamente salvato da alcuni pescatori che lo spensero infilandolo sotto il gelido getto d'acqua di una fontana pubblica dei bastioni.
Tutto ciò non passò inosservato, né agli uomini, né ai folletti; i primi potevano far poco e di quel poco non fecero assolutamente nulla, i secondi presero invece a buon cuore Giovanni e decisero che era arrivato il momento per fare una capatina in quel della mia città.
Una delle tante sere della sua umile esistenza Giovanni, più stanco e affamato del solito, ripercorreva stancamente la stramurale di scirocco che lo conduceva a casa e come sempre si soffermò brevemente sui bastioni ad ammirare il magnifico tramonto sul mare, con sullo sfondo il profilo misterioso dell'isola grande.
Aveva risuolato un vecchissimo paio di scarpe del pastore Piciolla, tanto affezionato al suo piccolo gregge di pecore e capre da dormire insieme ad esse nella sua umilissima casetta.
Questo ''strano'' e allampanato personaggio viveva in una corte, in una via e in una cittadina, abitata solo da pescatori; lui e i suoi ovini, ultimi sopravvissuti dei pastori greci che ai tempi di Omero erano arrivati nella Japigia provenienti dall'Illiria, erano a malapena tollerati dai rudi pescatori perché, nonostante ammorbassero l'aria e sporcassero le strade (questo pensavano i pescatori dei pastori), fornivano latte fresco, formaggio e caldo siero e in fin dei conti davano un tocco di agrestre ad un paesaggio dominato prevalentemente dal salmastro e dal blu del mare.
Uscendo dalla casa-ovile di Piciolla, con addosso il lezzo di 3 dozzine di pecore e sotto il braccio il suo compenso, ossia un quarto di caciotta di pecorino, imboccò via Crocefisso e in pochi minuti arrivò all'ingresso dell'arco che immetteva nella sua corte.
Il buio era ormai quasi totale e a malapena Giovanni intravedeva i gradini che portavano all'uscio della sua misera casetta.
''Buona sera Giovanni'' ; Mastro Giovanni si voltò e rispose meccanicamente ''buonasera a Signuria'', sforzandosi di penetrare con lo sguardo il buio quasi totale della corte nel tentativo di individuare chi l'avesse salutato. ''Come stai amico degli umili e dei poveri'' riprese la ''voce''. Questa volta Giovanni si rese conto che la voce proveniva da terra, come se qualcuno stesse accovacciato sul duro lastricato di "chianche" della corte.
Istintivamente si inginocchiò e noto una grossa lumaca che protendeva le lucenti antenne nella sua direzione. Più che una comune lumaca terrestre, si trattava di una lumaca marrone, quelle che i meridionali ritengono a ragione delle vere leccornie, tanto da dedicare loro una famosa sagra paesana in un paesino di nome Cannole e che vengono comunemente denominate ''moniceddri'',
Vuoi per la stanchezza, vuoi per l'onnipresente fame mastro Giovanni credette di essere vittima di un'allucinazione e decise di percorrere quegli ultimi metri che lo separavano dall'uscio di casa senza soffermarsi oltre.
''Testardo di un ciabbattino squattrinato, in casa troverai solo ad aspettarti mezza patata lessa per cena e tua sorella Maria addormentata sulla sedia'', disse la lumaca, che in realtà era un folletto.
La magra cena non costituiva affatto una grossa novità ma sua sorella addormentata era veramente un fatto eccezionale, anzi unico, nel senso che ciò non era mai capitato. Maria alla pari di Giovanni e nonostante l'aspetto trasandato era di fattezze aggraziate e i lunghi anni di stenti non avevano cancellato la sua antica bellezza. Trascorreva la sua esistenza praticamente segregata in casa, sia per accudire l'anziana madre che ormai era invalida e fuori di senno ma sopratutto per la vergogna di farsi vedere in giro vestita di stracci. Erano anni che non aveva più nemmeno l'abito per S. Rosalia, la festa padronale estiva ricca di variopinte luminarie e che tutti i paesani amavano e aspettavano con ansia per passeggiare sul corso del borgo vestiti a festa e mangiare scapece, nocciole e copeta; pertanto attendeva il rientro serale del fratello per essere aggiornata sui fatti accaduti nel mondo di fuori e per dividere con lui l'unico magro pasto della giornata.
Giovanni, vista sua sorella addormentata si rese effettivamente conto che la ''voce'' aveva previsto giusto; implorando la protezione di S. Rosalia e San Calogero, protettori della cittadina, ritornò quindi sui suoi passi e si inginocchiò nuovamente accanto al ''moniceddru''.
''Bravo, vedo che dopo tutto non sei stupido'' disse la ''voce'' e continuando disse: ''sai chi sono io?'' chiese il folletto, con lo stesso piglio di voce usato dal Podestà quando faceva i comizi in piazza dell'orologio. ''Tu sei il moniceddru di Crisosti'', rispose Giovanni con voce emozionata. ''Non proprio lui, ma facciamo parte della stessa famiglia'', rispose la lumaca.
Il pescatore, o per meglio dire, l'ex pescatore Crisosti era diventato un personaggio mitico per la sua sconfinata ricchezza scaturita come un fungo di settembre, improvvisamente dal nulla e il nome di Crisosti è tuttora menzionato come sinonimo di persona ricca e spendacciona. Si era parlato subito di ''acchiatura'' che gli era stata indicata da un moniceddru-folletto, così come era capitato in altre rarissime occasioni per altri fortunati.
Per molti anni, alla pari di mastro Giovanni, Crisosti aveva vissuto in grandi ristrettezze, senza mai però trascurare la carità per i più sfortunati.
Crisosti, che era un povero pescatore, spesso aveva diviso il suo magro pescato con le famiglie più povere del paese, quelle che avevano perso in mare i loro cari a causa delle micidiali ed improvvise libecciate che avevano colato a picco i fragili gozzi con vela latina usati per la pesca.
Una sera, anche per lui era accaduto un fatto straordinario; gli era comparso uno strano moniceddru parlante che gli aveva cambiato il destino.
''Conosci la Corte delle saponere?'' disse l'ormai svelato folletto a ''mastro
Giovanni'', ''ci sono passato oggi per prendere le scarpe di mastro treglia e domani le riporterò riparate'', rispose Giovanni. ''Perfetto, ascoltami bene perché sarò breve e non mi ripeterò'', disse il folletto, ''nella cisterna, tre Metri sotto è Murato un tesoro di 500 monete d'oro - appartenevano a un mercante ebreo che durante il saccheggio dei saraceni del 1200 si fece arrostire vivo dai mori senza rivelare dov'era nascosto il suo malloppo'', ''noi lo abbiamo custodito per un'uso migliore ed è arrivato il momento di svelare il suo nascondiglio''.
Giovanni, che nel frattempo tremava come una foglia disse: ''come farò a tirar fuori il denaro? Mastro treglia è Belzebù in persona, se mi scopre mi toglierà le monete e mi accopperà come un cane''.
Ma nessuno rispose e non gli restò altro da fare che rientrare in casa.
Nel frattempo Maria si era svegliata e notò che Giovanni era stravolto - ''Giuvà, che cosa ti è successo? T'hanno di nuovo picchiato? Sei bianco come un lenzuolo come se tu avessi visto il malladrone''. Il ''malladrone'' era una statua lignea con un ghigno satanico, citata anche da D'Annunzio, il poeta armato, in una sua ode e che si trova tutt'ora nella Chiesa di S. Francesco d'assisi, comunemente denominata la chiesa del malladrone e raffigura il cattivo ladrone che sul Golgota rifiutò di pentirsi in punto di morte, famosa non solo per il suo terrificante aspetto ma per un inquietante fenomeno: a differenza degli abiti di Gesù e dell'altro ladro, di nome Dima che invece si pentii, quelli del malladrone venivano e vengono tuttora ritrovati sistematicamente consunti e laceri, testimonianza muta ma inequivocabile che l'abito fa il monaco, in questo caso il ladrone, almeno nella mia città e nella chiesa di S. Francesco d'Assisi dove si trovano le tre statue lignee.
Prima che la sorella avesse terminato la sua ansiosa domanda, Giovanni aveva già deciso di non raccontarle nulla. Non poteva dire niente a nessuno, come minimo l'avrebbero rinchiuso ai ''cappuccini'' a fare compagnia al pastore Piciolla che dormiva con le sue pecore e si era cotto il cervello al sole per ritrovare un agnello smarrito e al povero Landì, vestito sempre come un pinocchio per far comprendere ai forestieri che era lo scemo del villaggio.
Giovanni trascorse una notte senza riuscire a chiudere occhio rigirandosi nel rumoroso e scomodo giaciglio di foglie di granturco. Ascoltò i rumori attenuati di una città addormentata e i rintocchi dell'orologio della piazza che battevano i quarti, le mezzore e le ore, contandoli tutti fino all'alba quando infine si alzò niente affatto riposato, quindi preparò una tazza d'orzo ed usci per iniziare una nuova giornata di duro lavoro. Ma nella mente ormai brillavano quelle cinquecento monete d'oro nascoste nella cisterna, mentre Giovanni si arrovellava la testa per capire come fare per impossessarsene, senza essere massacrato da quell'energumeno di mastro Treglia, che per lui rappresentava un vero incubo.
Treglia era un omaccione alto due metri che faceva il "vastasi", ossia il carrettiere al porto. Era pronto con la lingua e con le mani e più di un malcapitato era finito all'ospedale "Rosa Maltoni Mussolini", rinominato "Sacra Famiglia" con l'avvento della repubblica, a farsi riattaccare le ossa rotte dal Treglia.
Erano le due di notte del giorno dopo; silenzioso come un gatto, con in mano un piccone e un sacco, Giovanni arrivò all'ingresso della corte di mastro Treglia. Attraversò il piccolo atrio aperto che incorniciava il cielo stellato e arrivò alla cisterna; aveva da poco sollevato il coperchio quando fu improvvisamente azzannato ad una gamba da Zimba, il cagnaccio rognoso di Treglia che quella notte era rimasto chiuso fuori di casa, come qualche volta accadeva per insofferenza del suo padrone. Giovanni non riuscì a trattenere un grido di dolore mentre la bestia abbaiava e ringhiava come un demonio, senza però mollare la presa.
Successe il finimondo: si udirono le urla di Treglia che gridava "al ladro, al ladro" e un lume si accese in quella che doveva essere la camera da letto. Giovanni scappò via terrorizzato, trascinandosi dietro l'irriducibile Zimba e mentre varcava l'uscita della corte, si spalancò l'uscio di casa Treglia e comparve il triste e possente energumeno, in camicia da notte e papalina.
Con uno strattone si liberò finalmente dal cane ma il Treglia era già sulle sue tracce. Si salvò infilandosi in una selva di grosse nasse di giunco e lì rimase accucciato e sanguinante fino a quando il Treglia, con il suo infernale cagnaccio non fecero ritorno a casa.
Per il povero Giovanni Il resto della notte non trascorse tranquilla; al rientro, nonostante cercasse di non far rumore, svegliò sua sorella la quale per poco non svenne nel vederlo in quelle condizioni. "Giuvà, ti occorre il Dr. Licata per cucirti la gamba e i soldi non li abbiamo", "ma che dottore e dottore, dammi una bacinella d'acqua pulita e strappa due fasce da un lenzuolo e in pochi giorni starò meglio di prima".
A sua sorella raccontò che nel mezzo della notte era stato chiamato dallo Schiaone a scaricare il ghiaccio che arrivava dalla calabria e al rientro era stato azzannato da un randagio e siccome ciò era accaduto altre volte, per la vecchia regola che i cani mordono “li strazzati”, ossia i poveri cristo, la povera Maria prese tutto per oro colato.
Restava il grosso problema se il Treglia l'avesse riconosciuto o meno ma questo dilemma fu sciolto la sera del giorno dopo perché, svoltando l'angolo del teatro Garibaldi, se lo trovò improvvisamente di fronte; l'energumeno lo guardò con i suoi occhi cattivi ma non disse nulla, Zimba invece, che procedeva dietro, ebbe uno scatto improvviso e cerco di azzannare nuovamente Giovanni, per saldare il conto in sospeso della notte precedente ma fu bloccato da un formidabile calcio del Treglia - "brutto cagnaccio rognoso, questa notte te la sei fatta sotto con i ladri e mo vuoi fare l'eroe con questo scemo di mesciu Giuvanni?" e così dicendo rifilò un altro poderoso calcio al povero Zimba che con un guaito cessò di colpo di ringhiare mettendosi la coda tra le gambe, colpevole solo di non avere purtroppo la parola.
Passarono i giorni e le speranze di Giovanni si assottigliarono sempre più. Dopo la visita dei ladri, almeno questo lui credeva, il Treglia chiamò mastro Ferraru e fece montare sull'ingresso della corte un robusto cancello, inoltre andò nella masseria dell'Arbacani e comprò un grosso cane lupo che durante la notte lasciava libero nella corte per azzannare chiunque vi entrasse. A questo punto sarebbe stato più facile entrare nella gioielleria di don Sebastiano Mazza che non nella corte superprotetta di Treglia, ma siccome i folletti non lasciano mai le cose a metà accadde un fatto che nel suo piccolo fu anch'esso straordinario.
Il Treglia aveva la sua unica figlia che viveva in quella città tarantina che i miei paesani chiamavano e chiamano tuttora "Curciu manduria", al secolo Manduria.
Era sposata da diversi anni con un certo Maggiorini che produceva e commerciava il noto vino primitivo di Manduria, famoso per la sua bontà. Accadde che dopo tanti anni di tentativi infruttuosi e dopo aver perso ogni speranza, la figlia del Treglia finalmente restasse miracolosamente in cinta. Appresa la meravigliosa notizia tutta la famiglia Treglia, cani compresi, si mise in viaggio per Curcio Manduria con l'intento di festeggiare l'evento e restarci per almeno una settimana.
La notizia si sparse in giro in un baleno e arrivò alle orecchie di Mastro Giovanni il quale comprese che era arrivato il momento per prendersi quello che ormai gli toccava di diritto, ossia le sue benedette 500 monete d'oro.
La notte successiva alla partenza della famiglia Treglia, mentre sulla città si erano aperte le cateratte del cielo, Giovanni scavalcò il cancello della corte e dopo aver legato una fune a un anello di ferro infisso nel muro, se la legò alla vita e scese lentamente nell'umido budello della cisterna.
Una volta dentro accese una piccola lucerna ad olio che legò alla fune sulla sua testa e iniziò a scrutare le pareti interne. La cisterna era stata scavata in una roccia calcarea molto tenera ed argillosa ma un paio di metri sotto si intravedeva una strana sporgenza di un colore più scuro, come di terracotta; era il mattone che il folletto gli aveva indicato e dietro trovo le sue 500 monete d'oro, lucenti come quando furono nascoste.
Giovanni ripercorse la strada di casa e anche questa volta Maria si destò al suo rientro e ancora assonnata disse; "Giuvà, santo Iddio, pure questa notte sei andato a scaricare il ghiaccio dallo Schiaone?", no, rispose Giovanni, "questa volta sono uscito per un altro motivo, Ma adesso dormi perché sono stanco morto, poi domani ti dirò che ho fatto, buonanotte Marì". Detto questo serrò a doppia mandata l'uscio di casa, si tolse di dosso l'abito bagnato e s'infilò nel letto, piombando in un sonno profondo, giusto e ristoratore.
123456
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0