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COME MANCIA UNA LANCIA NELLA PANCIA
“Sono un po’ gay pure io, dopotutto”, si ripeteva Paolo fissando fuori del vetro del pullman.
La vacanza era oramai collaudata, il tempo prometteva costantemente per il meglio, e quella sera, Paolo e Stefano, s’erano preposti una serata di spensierata baldoria.
Consueto intramezzo tra cena e prime sfilate per il centro, le telefonate delle famiglie: come trascorrevano le giornate, come fosse il tempo, cosa avessero mangiato, fugaci novità famigliari, il saluto e l’appuntamento alla sera seguente.
La scontrosità di Paolo nel dialogar con Marilena, sua madre, era palese per chiunque captasse i loro scambi telefonici. Sembrava la vita, forse Dio stesso, avesse avuto un conto in sospeso con lei, allorché, dieci anni prima, la consegnò definitivamente ad una carrozzina.
Questa sua deficienza fisica sembrò sfogarsi, specie col passare degli anni, in atteggiamenti volgari e gratuiti. Era solita trascinarsi per le strade dubbiosamente velata; gonna corta ulteriormente sollevata, reggiseno in bella vista, trucco inspessito. Miscela offensiva sulla quale il padre di Paolo cercava da sempre di tacere quanto più gli riuscisse. Quanto doveva amarla per riuscire a fare tutto questo sorridendole? Per quanto ancora avrebbe pianto di nascosto?
Per lui e Stefano, miglior amico di sempre, era la prima vera vacanza senza genitori: regalo di maturità delle rispettive famiglie.
A telefonata conclusa si recarono in stanza per prepararsi: spalmate di crema su tutto il corpo, pelo e contropelo, piastra calda per lisciare i capelli, deodorante e profumo, pantaloni stretti e scarpe di tela a punta, boxer, polo e finto occhiale da vista di marca, di marca quanto tutto il resto. E ancora soldi, sigarette, qualche preservativo (perché non si sa mai) e cellulare dal quale risuonavano le canzoni dance che, da lì a poco, avrebbero ballato sino all’alba.
Mentre si vestiva, Paolo notò il discreto segno dell’abbronzatura all’altezza del bacino e pensò fosse ancora troppo alto; dal giorno seguente il costume andava portato più basso.
Quella notte, sul pullman, Paolo ricordò l’ultimo regalo che tentò di fargli suo padre: un improponibile costume a slip azzurro, con bande laterali verdi, bianche e rosse.
Una volta in processione per il centro, i due amici vennero fermati da una ragazza la quale chiese loro se avessero intenzione di andare a ballare; sicché, pochi minuti dopo, i biglietti per la Baia erano già ben custoditi nelle loro tasche.
Vagarono disperatamente e senza metà ancora per alcune ore, per poi avviarsi verso la stazione, ove partivano le navette gratuite, convenzionate con la discoteca.
“Poteva coprirsi un po’ meglio quel brufolo”, pensò Paolo osservando l’amico in attesa del bus.
“Sicuramente mi sporcherò le scarpe bianche”, pensava invece Stefano.
Eppure qualcosa sembrava turbar la spensieratezza dell’età di Paolo sin da quel mattino. E non era solamente la rabbia verso tutto e tutti per la condizione di sua madre, o senso di ribellione, od illusorio completo potere e controllo sul mondo, era qualcosa di più. Qualcosa di più grande e molto ben nascosto. Forse era tutta colpa degli elicotteri.
La navetta giunse a destinazione: l’imponente entrata e le prosperose concubine accolsero Paolo e Stefano, del tutto sommersi nella loro imbarazzante soggezione.
“Come dicono da queste parti?”, domandò Stefano, “chi non lecca non becca! E io questa sera voglio leccare!”. Quell’espressione rimandò immediatamente Paolo a quell’afoso imbrunire di luglio di cinque anni prima, allorché scovò il padre intento a soddisfare una delle innumerevoli fantasie sessuali della madre, la quale, nuda sulla carrozzina, ospitava tra i seni il membro irrigidito del marito, in piedi di fronte a lei; elefante, questo, nella casa della psiche di Paolo che faticava a non far rumore ogniqualvolta si muovesse.
Lungo il viaggio del rientro, su quel pullman umido e puzzolento, Paolo avrebbe anche ricordato lo sguardo rassegnato di quell’infermo, intento ad osservare un gruppo di ragazzi coinvolti in una sfida in risciò per le vie del centro.
“Quelle le conosciamo!”, esclamò d’improvviso Stefano, con la prima bevanda gratuita nella mano destra e la sigaretta nella sinistra.
Erano Valentina ed Eleonora, conosciute ad un bagno di mezzanotte, due sere prima. Più volte, tra un cola e malibù ed un altro, Paolo tentò di baciare Valentina, la quale sempre riuscì abilmente nel rifiuto delle sue intenzioni. Il giovane pensò allora potesse esser quella l’occasione giusta per concludere, aiutato da una reciproca e massiccia dose di alcoolici; aiuto indispensabile, a ben vedere, specie per nascondere il particolare, non del tutto sottovalutabile, fossero entrambi fidanzati da anni.
Le seguirono per una ventina di minuti, cercando di non rivelar la loro presenza, fin a quando le videro fermarsi nella pista della sala revival, la più gettonata, in prossimità della piscina.
La loro costante bellezza, contrapposta al principio d’incertezza di Paolo e Stefano, bastò affinché questi ultimi fossero preceduti dalle attenzioni di altri due coetanei; questi si posarono alle spalle delle ragazze, le quali ballavano guardandosi l’una negli occhi dell’altra, canticchiando la canzone del momento.
Come in un insolito gioco a sorpresa, Valentina sentì il corpo d’un estraneo sfregarsi contro le sue natiche; sbarrò gli occhi all’amica, la quale sorrise quasi annuendo, quasi volendo dire a Valentina di assecondare gli eventi.
Medesima situazione per Eleonora: tatto, mani sui fianchi, alito sul collo, il sorriso all’amica. I due strinsero il contatto, fecero sentire il loro irrigidimento; Valentina ed Eleonora, quasi contemporaneamente, si voltarono verso loro baciandoli a perdifiato.
Salive, sudore, fiato rubato, mani ovunque; tutto questo sotto gli occhi increduli di Stefano e Paolo. Dopotutto perché essere gelosi o pretendere chissà cosa da quelle due? Pareva chiedersi, quasi cercando giustificazioni morali, il buon Paolo. Cosa c’era tra loro? Effettivamente nulla, davvero nulla, peccato i loro archetipi, specie quello di Valentina, cozzavano se paragonati a quanto s’ostinavano a mostrargli i suoi occhi castani.
Le era parsa tanto una di quelle che voltano lo sguardo altrove e sì infilano l’assorbente interno con le punte schifate di pollice ed indice, invece eccola là, nel suo numero da circo, posseduta da animali che non le riesce, certo volontariamente, di domare.
Lungo il rientro, in fissa sullo scorrere dell’asfalto, Paolo avrebbe ripensato a quanto lo divertiva il rumore dei pneumatici sterzanti sugli spiazzi ghiaiosi. Ripensò agli elicotteri, al soldatino ritrovato sulla spiaggia quel pomeriggio, ai concetti di fedeltà e rispetto.
Si allontanò con Stefano, raggiunsero insieme il primo bancone, bevvero di nuovo. Qualcuno offrì loro due pasticche per dieci euro: Stefano sembrò esser sull’orlo dell’accettazione, quando una coscienziosa spinta dell’amico Paolo, racchiusa in un’occhiata intimidatoria, fece precipitare l’amico sul fondo del buon senso, epilogando quel momento col rifiuto della proposta.
Ritornarono nella sala revival, Eleonora e Valentina non c’erano più. Allora si lanciarono in pista, ballarono braccio a braccio con le loro timidezze, poi le videro nuovamente; erano intente ad avvinghiarsi con altri due ragazzi, due per ognuna, uno davanti, uno dietro.
Divennero sempre più l’attrazione della serata; le voci circolarono e decine di ragazzi banchettarono nei dintorni, quasi come ad essere in attesa. Altri, meno pazienti, s’accontentavano di allungare le mani passando, palpando seni e culi.
“Se la fottono in pista!”, esclamò disgustato Paolo, indicando Valentina.
Qualcuno incollò la ragazza ad un palo in un angolo in penombra della pista, le spostò quanto bastava le mutande da sotto la gonna e, tenendola di schiena, la penetrò liberando il membro solamente abbassando la cerniera dei pantaloni. Forse venne dentro di lei, forse no, di certo non indossò il preservativo. Valentina, consapevole di ciò, non sembrò affatto preoccupata, anzi strinse più forte a sé l’estraneo allorché sentì l’interno delle sue labbra farsi più umido e caldo.
Il susseguirsi di salive sconosciute proseguì per Valentina quanto per Eleonora; il susseguirsi di cocktails proseguì per Paolo quanto per Stefano. Inciampando simultaneamente sul medesimo gradino, poterono ufficializzare al resto del locale d’essere ubriachi.
A sbornia smaltita, lungo il rientro sul pullman, Paolo ripensò a quanto fu buffo rompere il ghiaccio in spiaggia con Valentina: si avvicinò esclamando “Giochi?”, in contemporanea con la medesima parola pronunciata dal dj della radio del loro bagno. Una coincidenza curiosa, capita talvolta nella vita.
Si fecero presto le cinque di mattina, si annunciarono gli ultimi dischi, le luci si fecero più costanti. Valentina sedeva sola su un divanetto zebrato, Paolo non ci pensò due volte, s’avvicinò a lei, sedette, la salutò fugacemente, forse nemmeno lo riconobbe, strinse le sue gote tra le mani e la baciò. Lei non oppose resistenza.
Quante salive di altri stava mischiando con la sua? Quanti sconosciuti stava baciando?
“Sono un po’ gay pure io, dopotutto”, continuava a ripetersi con ironia, fissando fuori dal finestrino del pullman.
Fu all’imbarazzo dell’alba che Paolo pensò alle cartoline da spedire a casa e alla fidanzata.
Avvertì il desiderio di volerla spedire anche a Laura, la sua ex, per colpa della quale Paolo sentiva sempre più d’aver perso fiducia nelle promesse sussurrate sulla linea verde dei tramonti. Forse l’amava ancora, forse erano solamente saltuarie masochistiche nostalgie, ad ogni modo non spedì alcuna cartolina; a nessuno e a nessuno mai più.
Infine, poco prima del capolinea, ripensò agli elicotteri, a quella coppia di massicci elicotteri militari che, quello stesso pomeriggio, sorvolarono la spiaggia, provocando raffiche di vento e curiosità. Paolo e Stefano giocavano a palla, il rumore delle eliche rapì gli sguardi di tutti: “Noi qui a giocare e loro dove stanno andando?”, sussurrò Paolo tra sé e sé.
Diversi anni dopo, Paolo indossava una divisa mimetica, sedeva su un massiccio elicottero militare, imbracciava un fucile M 16 a calcio fisso: somigliava così tanto a quel soldatino che, durante quella vacanza con l’amico Stefano, ora illustre avvocato civile, recuperò sulla spiaggia.
Assaporò l’ipocrisia della guerra, l’inevitabilità della stessa, sorvolò quella spiaggia dove giocava a palla e dove conobbe Valentina: “Una volta mi abbronzavo qui sotto”, esclamò coi compagni d’equipaggio. “E quindi?”, ribatté uno di loro, “Niente”, concluse Paolo, “solo era tutta un’altra cosa”.
E come mancia una lancia nella pancia.
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