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Un profondo solco nel Mare
Usciva a notte fonda, guidato dalle stelle. La luna dava un colore strano alle cose, una percezione alterata delle forme che si riflettevano mutevoli nelle creste delle onde. Forse era proprio questo a svegliarlo la mattina, a dargli non solo la forza, ma il fervido desiderio, di uscire in mare: lì dentro tutto scorre restando immobile ed uguale a sè stesso.
Sopra di lui il cielo stellato, quello sì, immobile ed eterno. Eternamente immobile. O almeno così sembrava. Ma in quelle notti, nella solitudine cullata dallo strascichio della risacca, cielo e mare sembravano fondersi alla sua vista ed al suo pensiero, sciogliersi conpenetrandosi dolcemente. Ed era in quei brevi momenti di illuminazione interiore che riusciva a capire, seppur solo per qualche istante, che la natura dei due sistemi era unica, identica; onde e stelle, stelle e onde. Cambia solo l’unità di misura, cambia solo il tempo necessario ad osservare i mutamenti. Ma visti da lontano, da molto lontano, apparirebbero forse maggiori i cambiamenti della volta celeste rispetto a quelli di una massa d’acqua schiumosa che si alza e si abbassa solo di qualche metro ogni notte. La percezione del mutamento è proporzionale alla distanza che intercorre tra noi, uomini, e ciò che pretendiamo di osservare; ciò che è lontano appare sempre uguale a sè stesso, ciò che è vicino, invece, lo vediamo crescere e rimpicciolirsi, ringiovanire ed invecchiare, dormire, e svegliarsi.
Si stava svegliando, il mare, quella notte. Come sorpreso nella sua pigrizia, sembrava volersi riscattare, mostrare a chi lo aveva sfidato finchè dormiente la sua reale, mostruosa natura. Si stava svegliando, ad ogni suo respiro diveniva sempre più profondo, poteva inghiottire e vomitare ogni cosa l’acqua contenesse, ogni essere cui avesse dato asilo. Cominciava la sua personale guerra contro se stesso, in cui la vittoria è un obiettivo mai raggiunto, un mero pretesto per lottare. L’oceano bisbigliava, si contorceva, gridava, per tornare poi al suo stato cadaverico da cui tutto era iniziato, per poi riprendere ad ingurgitare vortici di alghe e schiuma.
Quella notte non sarebbe uscito, ci teneva alla sua vita, a tutte quelle piccole cose e sentimenti, quei pensieri e percezioni, che con una parola restrittiva lui chiamava “affetti”. La sua voce interiore gli diceva di rischiare, che questa è la natura umana, quella della battaglia, perchè senza battaglie mai saremmo divenuti ciò che siamo; che è grazie alla nostra sfrontata euforia che abbiamo sviluppato l’intelletto, l’ingegno, e anche i sentimenti; che senza voler correre rischi ci saremmo già estinti per inedia.
Ma a quella voce lui non dava ascolto, era ormai passato il tempo in cui lottare; si trattava solo di aspettare qualche ora, in fondo, e l’umanità tutta non si sarebbe mai accorta di questo suo piccolo gesto vigliacco; l’uomo certo no, non l’avrebbe mai notato. Non si sarebbe fermata la sua evoluzione nè la sua crescita culturale e fisica, non ne avrebbe sofferto il corpo nè la mente. Bastava far finta di niente, cercare una scusa qualunque, per non destar sospetto alcuno.
Ma il mare, il mare si che se ne sarebbe accorto. Aspettava trepidante una sfida che non si sarebbe ripetuta, non quella notte. Tutta quell’energia stava andando sprecata, annullata da sciocche paure. Vieni qui a lottare, invece, vieni qui a reclamare la tua stupida superiorità sugli Elementi.
Superiorià è anche saperli assecondare, gli Elementi, rispettarli e saperli aspettare.
Quello che non prendi ora lo prenderai la prossima volta; le onde più grandi verrano serbate, le tempeste più forti non saranno sprecate stanotte. Nessun fulmine scenderà più dal cielo, la sabbia smetterà di turbinare nell’aria. Io, mare, oceano, ripristinerò la mia quiete, chiuderò le mie voragini con nuove acque chiare e pulite, stremato tornerò al mio sonno. Ma ricorda, ricorda, dentro di me un solo pensiero, resterà intatto fino al suo compimento. Tu, uomo, che chiami superiorità ciò che io chiamo paura; tu, uomo, che ti fermi di fronte alla più piccola delle tempeste, che pieghi le gambe in ginocchio nel più quieto dei venti, che ti inchini davanti al più debole accenno di pioggia. Io ti aspetto al varco, e allora saranno voragini e vortici, schiume non d’acqua ma di sangue pervaderanno mare e cielo, ghiaccio sciolto scorrerà nelle tue vene, zampilli di luce si infrangeranno nel tuo io. E solo allora vedrai la furia, e capirai chi hai osato destare.
In fondo al mare, intanto, si riflettevano le stelle.
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