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L'attentato a Paolo Borsellino
(narratore seduto in una sedia, si accende un riflettore su di lui.)
Il mio nome è, anzi, era, Paolo Borsellino, e sono morto il 19 luglio 1992. Io sono cresciuto in un quartiere povero chiamato “La Kalsa “ insieme a Falcone. Io e Falcone siamo cresciuti e morti insieme, nello stesso paese e per la stessa causa. Il 19 luglio 92 l’avevo delineato filo per segno, come mai fino ad allora avevo fatto, quello era il primo giorno di riposo dopo tanto lavoro, anche se in realtà il lavoro mi perseguitava giorno e notte, con minacce da parte della mafia, con i miei pensieri che vagavano nella mia mente come fantasmi in cerca di qualcuno da terrorizzare, ma quel giorno l’avevo delineato filo per segno: il mattino a Villagrazia, sulla casa sul mare con tutta la mia famiglia, e il pomeriggio ad accompagnare mia madre dal dottore, così il mattino del 19 luglio 92 lo passai sul mare con la mia famiglia, l’odore del mare, la voce di mia moglie che gridava il mio nome e il nome dei miei figli, le onde che si inchinavano davanti a noi, quello era il primo giorno di riposo dopo tanto lavoro, e dopo tanto tempo vidi la mia famiglia veramente felice. Dopo, alle 16. 15, partii per andare da mia madre a portarla dal dottore, con quei grossi macchinoni neri blindati e con tutta la mia scorta, io ero molto orgoglioso della mia scorta, perché ne faceva parte anche una donna, la prima donna a far parte di una scorta! Quando arrivammo, la prima cosa che feci quando aprii lo sportello dell’auto fu guardarmi attorno, perché quel giorno era arrivato per me un ordigno a Palermo, e un po’ di paura ce l’avevo, anche se non era la prima volta che mi minacciavano di portare chissà che ordigno per me, perché la smettessi di ficcare il naso dove non volevano, io non potevo cedere alle loro minacce, perché avrebbe voluto dire consegnarsi direttamente nelle mani della mafia! La mia scorta si posizionò con le armi in mano, guardando bene in giro, io suonai il citofono a mamma con una sigaretta appena accesa fra le mani, anche quello era uno dei tanti risultati del mio maledetto lavoro, come lo era la mia scorta che mi portavo appresso anche nel primo giorno di riposo dopo tanto lavoro come lo era il 19 luglio 1992, poi mi voltai espirando il fumo dalla bocca, e avvertii un rumore e un ondata d’aria o non so che, pazzesco! L’ultima immagine è Via D’Amelio vista dall’alto con pezzi di corpi e di macchine ovunque nella foschia di un mondo malvagio come questo.
Ma ora proteggete Ayala! Proteggetelo bene.
(Si alza, sposta la sedia dietro e si mette in piedi, piedi uniti e braccia aperte, rivolte verso l’alto, come fossero i rami di un albero)
Io ero un platano, si, ero il platano situato due platani più in là di quello che sotto aveva la 126 bianca, esplosa all’arrivo del giudice. Io lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualche cosa di brutto, avevo seguito tutta la vicenda di Falcone, Borsellino e Ayala, al telegiornale, guardando dalle finestre dei vicini, e quell’attentato l’avevo previsto, visto che lì ci abitava la madre di Borsellino!
La notte del 18 luglio 1992, erano arrivate due macchine, la 126 bianca, e un’altra che non ricordo, le quali si posizionarono una vicino l’altra, esattamente sotto a due platani, amici miei, dalla 126 scese un uomo vestito di bianco, lo stesso colore dell’auto, e salì nell’altra auto di cui non ricordo nemmeno il colore; poi scomparvero nella luce fioca delle lampade, sgommando, e ti credo! quella era la fine di un giudice famoso, di Paolo Borsellino, nato e morto a Palermo, come il giudice Falcone!
Il giorno dopo avevo avvertito tutti gli altri alberi che ne avvertirono altri, e altri ancora, e così cercammo di dirlo anche agli umani, ma sfortunatamente, gli umani ci credevano incapaci di comunicare qualsiasi notizia, così quando arrivarono i macchinoni neri, le mie foglie diventarono aghi che pungevano la mia corteccia, Borsellino apre la portiera dell’auto, comincio a muovermi più forte che posso, perché quello non era un posto per lui! non c’è niente da fare ormai, le mie foglie diventano spade che trafiggono il mio corpo, ora, non c’è più niente da fare ormai, il giudice suona il campanello di sua madre, con una sigaretta in bocca e con la faccia di uno che farebbe paura anche a un fantasma, non c’è più niente da fare ormai, è finita, è esplosa la macchina piena di tritolo, che avevano preparato i mafiosi, Cosa Nostra, ho visto pezzi di uomo bruciato volare, e un braccio, con un pezzo di giubbotto attaccato, è caduto fra i miei rami, senza foglie, ne aghi, ne spade, bruciati pure loro! Io quel pezzo di braccio non lo volevo, mi faceva orrore, mi veniva la nausea al solo pensiero, ma dovetti accettarlo comunque, perché disgraziatamente ero un platano, e non potevo toglierlo con le mani, cercai più volte di muovermi, cosìcche si togliesse di dosso, ma i miei sforzi non servirono a nulla perché quel giorno, morii assieme a Borsellino, anche se riuscivo a vedere e a sentire tutto, come quasi la vita non mi avesse abbandonato, vidi molte persone quel giorno, la polizia, i vigili del fuoco, gente che veniva a curiosare, gente che si inorridiva a guardarmi con quel coso sui rami, gente che piangeva, e un uomo….. un uomo che mi passò davanti con la borsa di Borsellino, che dentro conteneva la famosa agenda rossa, mai più trovata.
Così il 19 Luglio 1992, sono morto io, Borsellino, e tutta la sua scorta, famosa per Emanuela Loi che era la prima donna a far parte di una scorta. Conseguenze? Si. Misteri mai svelati, sia sulla mafia, che sui vegetali.
( posiziona la sedia al contro e si mette dietro, buio.)
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0 recensioni:
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- Piaciuto.
- Hai ragione. Guarda il titolo: la parola "attentato" sottolinea che in questo racconto, non si parla della persona di Borsellino nella sua totalità, ma di un fatto preciso della sua vita. Ora, se è un attentato, mi sembra logico pensare che la vittima non possa parlare ridendo e scherzando, no?
- Il suo nome "è" Paolo Borsellino. Non "era"... Ovviamente il mio è un appunto misto di amarezza e ironia. Ma lo scritto m'è piaciuto. Veramente.
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