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LE ORE NERE
La serata si era messa proprio male. Tutti sembravano stanchi, svogliati ed imboccavano strade che non mi andava di seguire. Mario aveva due biglietti per un concerto metal, David si divertiva con la play station ed il Bino si rilassava sul divano guardando un film.
Io no, non avevo alcuna meta da raggiungere. Potevo restare a casa come andare a sdraiarmi sotto un ponte. Potevo mettermi a vagare per la città nella speranza di in-contrare qualcuno, oppure potevo prendere dei sonniferi ed infilarmi nel letto.
Era la solita storia. La storia del venerdì sera, il giorno consacrato al delirio. Di venerdì non si poteva restare calmi. Bisognava uscire e trovare un modo qualsiasi per smaltire la ruggine accumulata durante la settimana. Non c’erano scuse. Era un vero e proprio dovere, come un fuoco da tenere sempre acceso.
Eppure, quella sera, si stava spegnendo. Se chiudevo gli occhi, potevo vedere le fiamme chiare farsi flebili e incerte, la cenere aumentare, il fumo diventare sempre più bianco e intenso. Il fuoco languiva ed io ero ancora lì, chiuso in casa ad osservare le ore nere della sera.
Decisi di uscire. Avevo bisogno di spezzare le catene, di muovermi. Non mi serviva una meta, dopo tutto. Mi bastava fare un passo dopo l’altro e lasciarmi trascinare dalla notte. Era venerdì. Non potevo permettere che il tempo mi sfuggisse dalle mani senza peso. Dovevo afferrarlo e sentirne la consistenza, se volevo farlo mio.
Scesi in strada e cominciai a camminare. Una leggera pioggerella cadeva impalpabile, riempiendo l’oscurità della sera. Alla luce fioca dei lampioni, vedevo le goccioline inseguirsi le une con le altre in una strana danza, simili a tante lacrime che scendevano a bagnare il volto cupo della notte.
Le vie della città erano deserte e silenziose, percorse da ombre sfuggenti che sgattaiolavano dietro gli angoli, da rumori lontani che riecheggiavano tetri per poi tornare a scomparire. Sembrava che le strade, le piazze ed i palazzi pulsassero di vita propria, che mi spiassero da dietro i loro occhi invisibili, interrogandosi distrattamente sul perché del mio vagare.
Sto cercando il tempo, avrei voluto dire loro, sto cercando di afferrarlo per sentire che sapore ha. Quei muri freddi e scoloriti mi parevano all’improvviso caldi e comprensivi come tanti amici a cui svelare i miei segreti. Le finestre erano come tanti occhi benevoli, le strade come tante mani tese, le facciate dei palazzi come tanti volti che mi si volgevano pacati.
Ebbi l’impulso di sedermi sull’asfalto umido e di mettermi a parlare con quei nuovi amici. Avrei potuto raccontare loro dei miei sentimenti, dei miei bisogni, delle mie voglie, e condividere con loro le ore nere della sera. Ero sicuro che mi avrebbero ascoltato.
Ma tanto per cambiare, mi mancava il coraggio. Di che cosa avevo paura? Di essere preso per un pazzo, forse? Certo, era una possibilità. Se qualcuno mi avesse visto seduto per terra a parlare con una casa, con ogni probabilità avrebbe chiamato la neuro. Sarebbero arrivati degli uomini in camice bianco che mi avrebbero spiegato che i muri non parlano, non vedono, non ascoltano. Mi avrebbero ricordato che per comunicare occorre rivolgersi alle persone, ad esseri fatti di carne, sangue ed ossa e soprattutto dotati di intelligenza. Non potevo sperare di trovare alcun calore in un oggetto inanimato. Questo mi avrebbero detto.
Decisi di evitarmi il fastidio. Era venerdì ed io non avevo ancora deciso come risolvere la serata. Il tempo stringeva ed io non ero ancora riuscito a dargli forma. Mi fermai davanti alla fontana, nel bel mezzo della vasta piazza dominata dal Duomo e dal Palazzo del Pretorio. Nettuno faceva il bagno nella grande vasca, stringendo in pugno il suo tridente. Era un oggetto inanimato, nient’altro che una statua ricavata dalla pietra, eppure sembrava in grado di parlare.
“Beh, che cos’hai da guardare?” disse, muovendo le labbra celate dalla folta barba. “Non hai niente di meglio da fare? Avanti, svegliati, tu che puoi datti una mossa. Non lasciare che il tempo ti sfugga, se ti impegni puoi acchiapparlo e farlo tuo. E non guardarmi così, io non posso venire con te. Sono solo una statua, ricordi? Un pezzo di pietra scolpito ad arte. Non posso muovermi. Quindi spicciati, va’ via, lasciami per-dere. Non lo vedi come sono messo? Ma cosa credi, che mi diverta? Credi che sia contento di stare a bagno tutto il tempo? È un supplizio, te lo giuro…”
Il volto, così come si era mosso, tornò a farsi immobile, pietrificato. Devo avere avuto un’allucinazione, pensai, ma la luce che avevo visto balenare dentro gli occhi di Nettuno mi diceva che era tutto vero.
Ricominciai a vagare come una nave solitaria persa nel mare della notte scura. La pioggerella continuava a cadere silenziosa, posandosi sui tetti, sui rumori e sui cappotti delle poche persone che si aggiravano smarrite. Nettuno era sempre lì, col suo tridente stretto in pugno, e a mano a mano che mi allontanavo si faceva sempre più piccolo, fino a diventare un punto disperso nel buio profondo della sera.
Mi voltai e gli spedii un’occhiata dolce di riconoscenza. Ormai ero in vista di un approdo. Camminavo con la certezza che presto avrei scorto una meta, e questa consapevolezza mi dava conforto. L’appartamento di David era sempre più vicino, ed anche se non avevo voglia di giocare alla play station potevo comunque fermarmi lì. David mi avrebbe accolto amichevolmente, come sempre, e forse, tra una partita e l’altra, saremmo riusciti anche a scambiare due parole.
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- complimenti per la tua bravura, il tuo modo di scrivere mi ha portato a leggere fino all' ultima riga, un po' triste ma bello. A rileggerti.
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