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ROBERTA? MA DAI!
Non era certo un cappotto nuovo a far la differenza, nonostante ciò impiegai più di due pomeriggi per portarne a casa uno.
Restavano meno di ventiquattrore all’incontro e, come mai succedeva da quasi due anni, il cuore era tanto curioso quanto impaziente di sapere quale finale dare a questa puntata pilota, prima degli inevitabili, nel bene o nel male, titoli di coda.
Ero al bar con uno di quegli amici che ti sono tali solo per interesse; il mio lavoro mi portava, anzi, mi porta ad averne molti, magari anche più di uno in una sola giornata di sei ore e quaranta.
Sapete, di quelli che ti salutano, ti stringono la mano, ti sorridono già quando compari all’orizzonte del parcheggio, nel mentre è palese stiano parlando di te con la persona con la quale sono al telefono (e ciò solo per gasarti, per farti sentire realmente considerato e importante), ti parlano della loro vita ma lasciano i discorsi sempre a metà, e tu lo capisci, e loro capiscono che tu lo capisci, ma fanno finta di niente, sorseggiano nuovamente il prosecco, sorridono a favor della tua camera e ti chiedono se ne bevi un altro.
Allora tu ingoi un affanculo e accetti solamente perché hai la (misera) certezza sia lui, quantomeno, ad offrirli tutti.
E parlano solo loro, capita tutto a loro; convivono felici e contenti ma pieni di problemi e di scheletri negli armadi, hanno studiato ma fanno i muratori, preferiscono il caldo ma non vedono l’ora delle castagnate, ti dicono che sei ancora tanto giovane ma che non c’è tutto questo tempo per far carriera… Pretendono di essere ascoltati e, quando sei tu a confidarti, innescano la funzione automatica di risposta di finto interessamento, la quale si manifesta all’interessato (in questo caso il sottoscritto) con un andamento affermativo del capo, il quale ti dovrebbe illudere d’essere apprezzato all’interno del colloquio, se non fosse che la testa del bastardo sia girata completamente altrove rispetto la tua posizione.
Guarda il panorama, il tramonto del sole dietro i grattacieli, il cellulare, il culo dell’amica della fidanzata che proprio in quella passava davanti al bar, il colore dei sottobicchieri, conta le patatine rimaste nella scodella sul tavolo, sorride con qualche secondo di ritardo appena captato che pure tu lo stai facendo poiché, si presume, tu abbia detto qualcosa di divertente…
Finalmente giungiamo alla cassa; come previsto il conto se lo assorbe interamente lui e tu, almeno in quell’istante, divieni lui, ti cali nei suoi panni ed eccoti lo stronzo che finge di voler pagare, che tiene il portafogli in mano dicendo “No dai…”, ma che non sfila nemmeno un centesimo, poiché realmente sta pensando “Fammene pagare anche solo mezzo e ti rigo tutta la tua spider del cazzo!”.
Torni a casa, la testa ti gira, poco ma ti gira, non hai cenato, nemmeno ne hai più il desiderio, per fortuna nessuna pattuglia lungo il tragitto e, inevitabilmente, siedi sul divano, fai un po’ di zapping, spegni sconsolato il plasma e, nuovamente inevitabilmente, ti metti a piangere.
Il tuo intento, a ben pensarci, era di tutt’altra natura: avresti voluto parlargli di lei, del fatto che, da lì a breve, l’avresti finalmente incontrata, l’avresti portata a cena, certo, solo un panino, ma questo, dopotutto, poco importa in certi casi, non trovate?
Le avresti parlato guardandola negli occhi, avresti sentito la sua voce, osservato le sue movenze, i suoi sorrisi, ogni suo esser ciò che realmente è.
Come l’hai conosciuta? Come ti ha interessato? Chi ha chiesto per primo di uscire? Cos’hai provato nel vedere che lei accettava? Come hai detto che si chiama? Roberta? Ma dai! E dove abita? Studia ancora o lavora? Sei agitato? Hai pensato a dove portarla, come vestirti, di cosa parlare?
Invece niente di tutto ciò; solamente un tris di prosecchi, qualche domanda sul lavoro consegnato su chiavetta USB da quattro giga, conferma della fattura al suo capocantiere ed un patetico “Dai che ci sentiamo una di queste sere”, prima di vederlo scomparire all’orizzonte opposto a quello del tuo parcheggio.
Un paio di volte capitò pure che, tornato all’auto, mi ritrovassi la multa! Era meglio la metro, o addirittura non presentarsi.
La fase più bella credo sia quella in cui simuli i discorsi tra te e lei dinnanzi allo specchio del bagno. La notte è trascorsa più o meno degnamente; qualche sogno sull’incontro, un paio di risvegli quando l’inconscio dribblava le tue intenzioni positive sullo stesso, infine il nuovo giorno.
Sul lavoro sei un’ameba e il capo, in preda alla disperazione, passa le tue faccende alla pianta grassa sul davanzale del balcone del tuo ufficio, la quale, stupendo entrambi, non solo sembra cavarsela con le commissioni, ma le consegna in perfetto invidiabile anticipo, con tanto di simpatia da parte dei clienti… E ditemi voi se al mondo può esistere un qualche cosa di più triste di vedersi fottere il lavoro da una pianta grassa!?
E tutto per che cosa? Perché la tua testa è completamente altrove? Perché sei già a questa sera, sei già seduto su quel tavolo, intento a catturare il suo interesse con gesti e parole, impacciato nell’ordinare o nel farla semplicemente entrare per prima dalla porta d’ingresso del locale.
Allora chissenefrega! Va bene così; si tenga pure il mio lavoro quella specie di cactus raggrinzito! E pure la mia sedia, il computer, la targhetta, il ventilatore da tavolo, tutto! Anzi, ora mi siedo e le parlo di lei, dell’incontro di questa sera, e lui mi chiederà come ci siamo conosciuti, cosa fa nella vita, dove ho intenzione di portarla, come si chiama? Roberta? Ma dai! Come mi vestirò, di cosa vorrò parlarle, che tipo è…
Si stava comunque dicendo dei discorsi fatti allo specchio: prima d’andare a dormire passo circa un’ora nel provare sguardi e gesta di braccia e mani. Sembro un burattino guidato da un’insolita impazienza adolescenziale. Poi, tutto d’un tratto, fisso il mio volto riflesso e penso sconcertato: “E se domani lei dovesse tirarmi pacco? Se rimanda? Se mi liquida con scuse imbarazzanti?”. Corro per la casa in preda al panico, raggiungo la mia stanza, scovo il cellulare adagiato e strafottente sulla scrivania, lo afferro e osservo: nessun messaggio di disdetta.
Tiro un sospiro di sollievo, poso nuovamente il cellulare sulla scrivania, ma lo faccio rivolgendone lo schermo verso il basso; mi da più tranquillità l’effetto sorpresa ogniqualvolta lo guardo di mia volontà, piuttosto che vederlo illuminarsi con prepotente ed impaziente desiderio d’immediata considerazione.
L’indomani, mentre la pianta grassa guadagna carriera, guardo il cellulare ad intervalli regolari di quattro, massimo cinque minuti; uno stupido automa, una barzelletta per tutta l’azienda.
Sono le due di pomeriggio, la pausa pranzo è terminata, sto ritornando in ufficio e ancora non si è fatta sentire… Ora le scrivo io. Ma cosa le posso dire? Guardo il cellulare: niente.
Possibile? Possibile sì, avrà una sua cazzo di vita, delle commissioni, altri pensieri, insomma, vive!
Guardo di nuovo. Niente.
Il cactus mi osserva con uno sguardo che, sulla lista delle bevande, risponde al nome di cocktail perdente: un terzo di compassione, un terzo di accettazione, un terzo di chimera. A discrezione, una fettina di lime e zucchero sul bordo del bicchiere delle proprie speranze. Servire ghiacciato.
Ore quattro e quaranta: recupero un collega per la solita gita con visita alla macchinetta del caffè e al bagno degli uomini. Confido a lui dell’appuntamento, cerco di trasmettergli il mio stato d’animo; lui mi offre una sigaretta bagnata d’olio di oppio e mi liquida con il medesimo sorriso della mia pianta. Gli dico di non prendermi per il culo, che sono agitato davvero, e che se mi concede anche solo altri dieci minuti, torno nell’ufficio, distraggo il cactus, recupero il narghilè che ho nascosto e ci rilassiamo con una manciata di tabacco verde. Lui non può accettare, deve tornare alla scrivania, anch’io dovrei, ma non ce la faccio; guardo il cellulare, il collega scompare, torno nel mio stanzino, prendo il narghilè e mi chiudo in bagno da solo.
Un peccato non sfruttare certi lumi della mente, oltretutto non l’avevo ancora inaugurato da quando sono tornato dalla crociera sul Nilo di due anni fa. “Cogli la rosa quand’è il momento”, diceva Whitman.
Potrebbe non fregarvene più di tanto ma fu davvero un viaggio fantastico, uno di quelli pericolosi perché hanno la forza di cambiare il tuo essere. E non solo perché ti senti piccolo di fronte alle piramidi della piana di Giza o ai colossi del tempio di Abu Simbel, ma per tutto ciò che vivi, a tuo maggior rischio personale, questo è ovvio, al di fuori dei canoni turistici; dal tassista addormentato ed incazzato per il mese di ramadan che ti porta per le vie del Cairo, alle donne velate che vendono carcasse di carne sulla sabbia ai lati delle strade, agli odori nauseanti dei bazar, ai bambini nubiani che si aggrappano ad un lato della tua imbarcazione implorando la carità intonando Bella ciao.
Quello fu l’ultimo viaggio che feci con la mia ex; ci lasciammo, anzi, mi lasciò, poco dopo il rientro. Fu una rottura molto telegrammatica e, forse proprio per questo, ancor più difficile da smaltire di quanto già non lo sarebbe stata di per sé.
Dedicai la mia fumata a tutti quei pensieri: come se il narghilè stesso mi aiutasse nel filtrarmi ricordi alla menta, per poi concedermi il privilegio di poterli dissolvere nell’aria del presente, sbuffando fumo grigio in faccia ad ogni inutile nostalgia.
Torno in ufficio. Il cactus mi riferisce che ha un lavoro da passarmi, io non lo considero e guardo il cellulare: spento. Si è scaricata la batteria! Prima delle sette non sarò a casa e l’appuntamento, salvo imprevisti, è alle otto in punto. Veramente una di quelle sfighe da non dire.
Vorrei provare a chiedere un cellulare in prestito a qualcuno, ma a chi? Forse, sottosotto, un po’ pure mi vergogno. Potrei chiamarla dal fisso dell’azienda, giusto per sapere se qualcosa è cambiato nel frattempo. No, non posso. Aspetterò. Posso aspettare. Devo aspettare.
Finalmente libera uscita! Mi precipito a prendere la metropolitana facendo strage di spalle altrui, fischietto durante il viaggio per ingannare l’attesa, altra strage di spalle e, finalmente, a casa!
Ora, l’ultima volta che ho visto il caricabatteria era nel secondo cassetto della scrivania, ergo sia ancora lì. E invece no.
Perché gli oggetti inanimati, in queste circostanze, divengono dei maestri di nascondino. Metto sossopra la stanza come un indemoniato, mi sta quasi per bagnar le labbra una bestemmia, quando ecco finalmente sbucare il caricabatteria da sotto il letto.
Accendo il cellulare, resto in attesa di novità denudandomi, in pole position per la doccia, arrivano un paio di messaggi: un vecchio compagno d’università che chi cazzo se lo vuol cagare in questo frangente, l’altro è suo… Roberta, c’è scritto così sul display, e tu sai di conoscere solo lei con quel nome: è l’unica Roberta della tua folta rubrica.
“Che dice?”, ti domanda il tuo riflesso dello specchio del bagno, “Niente”, ti rispondi, “ha avuto un imprevisto e…”.
D’improvviso il tempo sembra fermarsi; la felicità che provavi sino a cinque secondi prima si sente subito a disagio, di troppo, fa le valigie e se ne va. Persino i rumori di fondo della città svaniscono, cala il sole, non accendi nessuna luce, siedi sul pavimento, ti accendi solo una sigaretta e subito ti domandi se sia il caso di lasciar passare qualche giorno per poi chiederle un nuovo appuntamento, oppure lasciar passare qualche giorno per poi scoprire cos’altro ha da offrire questo mondo.
La seconda ipotesi ti rattrista ed innervosisce così tanto che le sigarette fumate diventano tre, poi cinque, poi dieci, dodici… Accendi la luce, ti fai strada nella cappa di fumo per raggiungere la cucina, tossisci, la gola è secca e necessiti d’un sorso d’acqua; perché prendersela così tanto? Fosse la prima volta che ti capita. Succede nella vita, non sempre tutto può andare come vorremmo.
Che fatica cercar di consolarsi da soli, vero? Senza nemmeno essere davanti ad uno specchio.
Recuperi il cellulare perché qualcosa devi pur risponderle: opti per un messaggio tranquillo, rilassato, di quelli che, nella conclusione, sembrano lasciar sperare a tutto quanto a niente. Pregando che lei faccia sua la prima delle due realtà.
Ti risponde poco dopo, si scusa nuovamente, sembra sincera, ed azzarda un altro incontro per la sera seguente, stesso posto e stessa ora, promettendo che non ci saranno altri disguidi. Parola di lupetto.
“Allora, com’è andata ieri, bomber?”, ti chiede chiunque in ufficio, cactus compreso. L’ambiguità del sorriso col quale te lo domandano sembra la giusta via di mezzo tra chi sembra sapere che non hai fatto un cazzo, ma vuol sentirtelo dire singhiozzando, e chi realmente non lo sa ma spera tanto che tu glielo dica. Proprio quel sorriso che tanto ti fa desiderare di poterli crocifiggere sul soffitto dei loro uffici! E mentre tu, ardentemente, continui a dar brace a quei pensieri, da vero gentiluomo, ti limiti a rispondere che è andata bene, che stasera vi rivedrete e che tutto il resto non sono cazzi che li riguardano. Li oltrepassi a test’alta, entri nel tuo stanzino, sbatti la porta e ti rifugi sotto la scrivania dalla vergogna.
Il cellulare ora ha piena carica, di questo ne sei certo, quindi hai sicuramente un problema in meno da considerare. Mentre sei seduto e pigi tasti a caso sul pc ti chiedi: “Bomber? Ma che razza di nome è? Cosa vuol dire? Bomber?!”.
In verità, sai benissimo che ciò che ti turba, ora, non è affatto l’appellativo col quale ti hanno umiliato in corridoio, ma il desiderio di sapere cos’altro abbia fatto ieri sera al posto di uscire con te.
Ti fai quasi pena, vero? Farti di queste paranoie per una con la quale hai solo messaggiato via telefono o, tutt’al più, nelle chat. Non sono cose che ti riguardano, non hai alcun diritto; mi sta bene l’infatuazione, ma ora stai davvero esagerando! Datti una calmata, finisci i tuoi lavoretti e poi questa sera sorridile come non mai quando ti guarderà negli occhi, intesi?
L’ennesima giornata di lavoro giunge al capolinea, la mia metro pure; di nuovo a casa, di nuovo sotto la doccia, di nuovo pronto per scegliere i vestiti. Effettivamente ti rendi conto che il clima è più mite della sera precedente, ad ogni modo l’acquisto è stato fatto e, a costo di sudare di nascosto, il cappotto nuovo va indossato.
Otto meno venti: controlli d’aver chiuso persiane e finestre, esci di casa, in ascensore provi ancora un paio di sguardi e sorrisi, congedi quello specchio con un dai che ce la fai!, e ti metti in viaggio. Sei leggermente in ritardo ma sai benissimo dove sia il posto e dove troverai sicuramente parcheggio; abbandoni l’auto, t’incammini…
Le mani ti sudano e, quindi, le strofini lungo il cappotto nuovo onde evitare di lasciare già il segno del tuo imbarazzo sulle sue quando vi presenterete. Giungi davanti al locale, sistemi il colletto della camicia.
Eccola, spunta da lontano, dall’orizzonte del suo parcheggio: sembra davvero felice d’incontrarmi, sorride lungo tutto il tragitto. Devo ricordarmi di farla entrare per prima dalla porta d’ingresso.
Siamo uno di fronte all’altra, ci presentiamo, ci osserviamo, non ricordiamo più dove sia l’entrata del locale pur essendo esattamente alle nostre spalle, ma questo, dopotutto, poco importa in certi casi, non trovate?
Continuo ad osservarla e a sorriderle, continuo a domandarmi se davvero sarà una di quelle storie per le quali avrò tanto da raccontare e da scrivere, da vivere e da ricordare.
Sediamo ad un tavolo: lei ordina qualcosa di caldo, io pure.
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- Mi stupisce che non ci sia nessun commento... molto molto molto bello! Il lettore si immedesima perfettamente in questo clima di "ansia", il tuo stile immediato mi piace e anche il finale, bello e non banale! Beh, direi 5 stelle meritatissime! A rileggerti
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