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La quadratura del cerchio
Rilevai Ferretti alle quattro e dieci. Non era proprio il mio turno, ma Valle era un anziano del settimo scaglione e a uno che si fa una polveriera a venti giorni dalla fine bisogna almeno risparmiargli il turno di notte, e così il caporale svegliò me, che ero solo del secondo. Muto e compresso e allucinato dal sonno, con il fucile su una spalla e la coperta sotto braccio, lo seguii fino al cancello che chiudeva la Zona Attiva e salii da solo per il sentierino che portava alla mia altana, la numero 10, dove Ferretti di certo dormiva, dietro al fucile che spuntava dalla feritoia.
Invece no, non dormiva.
"Alt! chi va là!" urlò nel silenzio frusciante della notte e io, col fiato troncato dai gradini di pietra troppo alti, sorrisi, senza rispondergli.
"Alt! chi va là!" urlò di nuovo, più cattivo, e allora io mi fermai, ansante e un po' preoccupato.
"Ohè, non fare cazzate!" dissi forte, agitando un braccio, "sono io... guarda che salgo..."
Mi arrampicai sugli ultimi gradini e arrivai allo spiazzo terroso e spelacchiato su cui si alzavano le gambe di cemento dell'altana. Ferretti stava scendendo in fretta, vedevo il suo sedere ondeggiare sulla scaletta di metallo, dritta, con l'elmetto appeso al cinturone che sbatteva contro la ringhiera. Saltò a terra accanto a me, col fucile stretto lungo il fianco e il basco di traverso. Era pallido, e aveva gli
occhi spalancati, ancora più allucinati dei miei.
"Ti sei svegliato male?" gli dissi, "se lo sapevo ti lasciavo dormire..."
“Mazzi, sei proprio un coglione del secondo! La prossima volta che non ti fai riconoscere giuro che ti sparo!”
Il suo alito sapeva di alcool.
“Oh, ma che cazzo dici? Vedi di andartene, che è già pesante così…”
“Si, si, me ne vado, ma tu dormi preoccupato, rana!”
“Ma vattene va’. “
Così dicendo gli passai oltre urtandolo di proposito e presi a salire la scaletta che portava in cima all’altana; non era un buon modo di cominciare il mio turno di guardia.
“Sono cazzi tuoi adesso…rana bastarda!”
Mi urlò dietro mentre si allontanava battendomi la stecca.
Ferretti era del nono scaglione, molto più anziano di me, almeno come servizio. D’età io avevo quattro o cinque anni più di lui; dovetti partire perché quell’anno, per vicissitudini che non sto a raccontare, non avevo potuto rinviare il servizio di leva. Frequentavo il quarto anno di università.
Lui aveva i diciotto anni “regolamentari”, ma di cervello ne dimostrava non più di otto. Ed era cattivo, oltre che stupido. Ferretti, che tutti chiamavano Ferro, faceva coppia fissa con Scardavelli, un sergente firmaiolo se possibile ancora meno intelligente di lui.
Per capire il tipo: ventisei anni, fisico da culturista dopato, cranio rasato dalla fronte bassa e parlata strascicata; decisamente brutto. A vederlo faceva spavento e a nessuno avrebbe fatto piacere litigarci. Io, prima di iniziare ad odiarlo, lo trovavo ridicolo per la smisuratezza della sua imbecillità: da ragazzo, aveva fatto parte di un gruppo di estrema destra capitolino, un insieme di fanatici che non facevano capo a nessuna sigla riconosciuta, dei cani sciolti. In quel periodo, spero sotto l’effetto dell’alcool che consumava a ettolitri, aveva avuto la bella pensata di farsi tatuare un ritratto del duce sul petto, ma non una cosa discreta, bensì un ritratto quasi a grandezza naturale. Esagerato.
Tempo dopo, forse per un cambiamento di fede politica o, più probabilmente, per convenienza, aveva cominciato a trovare quel ritratto imbarazzante e, non sapendo come fare per liberarsene, pensò bene di camuffarlo in qualche modo. Il risultato di quell’ennesima alzata di ingegno lo portava ancora indelebilmente impresso sui suoi pettorali di marmo: un duce riconoscibilissimo e pateticamente travestito da indiano, con tanto di treccine, con una triste penna d’aquila che gli cadeva da dietro l’orecchio e due segni neri sulle guance. Nessuno aveva il coraggio di dirglielo, ma per via di quel tatuaggio era diventato lo zimbello di tutta la caserma, e il paradosso era che lui ne andava orgoglioso.
Ecco con chi avevo a che fare, con un deficiente che viveva in simbiosi con un esaltato, e il deficiente mi aveva appena minacciato. Per l’ennesima volta.
Pensavo a questo mentre prendevo posto all’interno dell’altana e avrei avuto ancora qualche ora per cercare una soluzione onorevole che potesse mettermi al sicuro dalle intenzioni di Ferro.
Faceva freddo, un freddo terribile, e ogni tanto ero percorso da una scarica di brividi, nonostante mi fossi messo addosso tutto ciò che avevo a disposizione e fossimo solo all’inizio di Ottobre. Bevvi la prima bustina di cordiale e mi avvolsi nella coperta, lasciando scoperto solo il viso. Sistemai il garand in modo che la canna fuoriuscisse dalla feritoia senza che dovessi tenerlo con le mani.
Presto fui preso da una sorta di torpore e i pensieri cominciarono ad arruffarsi perdendo la linea del ragionamento; a intervalli regolari la testa mi ricadeva sul petto, vinta dal proprio peso e dal sonno che stava trionfando nella sua gara con la mia forza di volontà. Per un po’ dormii senza rendermene conto, dormii di quel sonno che per quanto profondo non rigenera.
Quando riaprii gli occhi cominciava ad albeggiare; nel frattempo nella Zona Attiva avrebbero potuto atterrare anche i marziani e io non me ne sarei accorto.
Era il momento più freddo ed ero tutto intirizzito dall’immobilità. Bevvi d’un fiato un’altra bustina di cordiale e percorsi avanti e indietro i pochi passi che le dimensioni della garitta mi concedevano; guardai fuori dalla feritoia attraverso la nuvola bianca del mio fiato, era tutto come sospeso, la brina ricopriva ogni cosa e il freddo pareva aver assunto una propria forma e consistenza.
Mi sedetti e cominciai a rimuginare per la millesima volta su quanto era accaduto nel corso degli ultimi mesi, a partire dal C. A. R., quando al termine dell’addestramento ognuna delle reclute aveva ricevuto il proprio incarico e la propria destinazione; io mi ero sentito baciato dalla fortuna. Incarico 2, “Aiutante di sanità”, come quasi tutti quelli che studiano qualcosa che abbia anche lontanamente a che fare con la medicina. Io ero iscritto a Farmacia, sicché un po’ quell’incarico me l’aspettavo. Praticamente, mi avevano detto, dal C. A. R. in poi avrebbe dovuto essere tutta discesa, avrei dormito in infermeria in un vero letto, niente alzabandiera, pasti caldi senza le interminabili code della mensa, permessi e il “potere” che la posizione poteva dare: un ricovero o un permessino per non radersi o per non indossare gli anfibi era un’ottima merce di scambio. Questo quasi dappertutto, ma non nella caserma cui venni assegnato, una caserma di Artiglieria Pesante Campale, operativa ai massimi livelli e oltretutto punitiva, dove venivano mandati i soggetti più refrattari alla disciplina, quelli che facevano dentro e fuori dal carcere militare di Peschiera del Garda senza riuscire mai ad arrivare al congedo.
Lo capii subito, quando giunsi al Corpo. Arrivavo dall’ospedale militare di Baggio, Milano, dove avevo frequentato la parodia di un corso di abilitazione.
Entrai in caserma da solo, senza il conforto dei miei pari scaglione. Mi sembrò di essere atterrato su un altro pianeta. Al posto dell’atmosfera rilassata dell’ospedale militare trovai facce ostili, zainetti tattici pronti per qualsiasi tipo di allarme, un ordine anormale e sergenti maggiori che urlavano sempre.
Un sergente dalla fronte bassa mi indicò la mia branda; era quella sotto Ferretti, il quale fino al contrappello mi sembrò quasi simpatico, mi sorrideva amabilmente, ma di certo stava già pensando a quale tipo di umiliazione sottopormi. Infatti, come spensero le luci e si accesero le luci azzurrine della notte, saltò giù dalla branda e con alcuni suoi compari mi prese letteralmente di peso; urlando termini che ancora non conoscevo mi chiusero dentro ad un armadietto. Io ero frastornato, più che spaventato. Una volta messomi dentro all’armadietto, Ferretti fece cadere una moneta da cento lire attraverso una fessura: volevano farmi fare il juke box. Siccome tardavo ad intonare “Acqua azzurra acqua chiara” di Battisti-Mogol, pensarono bene di incoraggiarmi con qualche scarica elettrica, appoggiando un filo della corrente spellato al metallo dell’armadietto. Mi accorsi solo allora che avevano pensato anche a bagnarne il fondo, e io ero a piedi nudi. Cantai a squarciagola quella ed altre canzoni, senza più alcun ritegno o bisogno di incoraggiamenti. Fuori li sentivo ridere beati della loro stupidità; il tutto durò solo qualche minuto, poi persero di interesse e mi lasciarono uscire.
Il sergente, che avrebbe dovuto vigilare affinché l’ordine fosse mantenuto, se ne stava appoggiato allo stipite della porta e rideva tutto compiaciuto, complimentandosi per la mia performance canora.
Così conobbi Ferretti e Scardavelli e compresi che tutto sarebbe stato tranne che una discesa.
Fu così per diversi giorni dopo il mio arrivo; mi fecero fare il cucù, la tartaruga, il missile, l’aeroplano, un’infinità di cubi e di brande e svariate altre cose che la loro fantasia malata gli suggeriva. Intanto li osservavo, i vecchi, e più o meno ero riuscito ad inquadrarli tutti. La maggior parte erano bravi ragazzi, se presi uno per uno, pessimi elementi se trascinati dal branco.
Neanche a dirlo, il peggiore era Ferretti. Anche da solo era veramente uno stronzo.
Tra un sopruso e l’altro avevo anche cominciato il mio servizio in infermeria; la mattina i chiedenti visita, che spesso, dato che il tenente medico aveva ben altre priorità, mi trovavo a dover “visitare” io pur non avendone alcun titolo e capacità, poi le terapie dei ricoverati, la compilazione delle cartelle cliniche e di altre mille inutili scartoffie. A queste attività si andavano ad aggiungere i servizi di compagnia e di caserma: guardie, p. a. o., talvolta corvè cucina. Non era esattamente la vacanza che mi era stata descritta, ma io tenevo duro e non mi lasciavo certo prendere dallo sconforto.
Ogni tanto, quando sentivo la pressione raggiungere il livello di guardia, dopo il contrappello mi univo ad alcuni miei compagni e fumavo un po’ di hashish; lo facevo solo sporadicamente e in quel modo riuscivo a rilassarmi abbastanza da dormire profondamente per tutta la notte.
Nonostante i controlli che periodicamente venivano effettuati, in caserma girava una quantità spropositata di fumo, e non solo di quello. La maggior parte dei militari fumavano, e anche alcuni ufficiali di complemento, coi quali diverse volte nel corso di quell’anno mi sono ritrovato a far girare una canna. Ma non era questo il problema, questa era la consuetudine; il problema, semmai, era quando girava la roba pesante, stranamente per quel periodo quasi esclusivamente cocaina; anche di questa non ne girava poca, benché non fossero in molti ad usarla.
Il fumo passava di mano in mano con una certa disinvoltura, ma quando si trattava di altra roba, allora gli interessati si chiudevano nel bagno e vietavano a chiunque di entrare… giusto per passare inosservati. A quanto avevo capito il maggior fornitore della compagnia era Scardavelli, appoggiato come al solito da Ferretti, il quale, probabilmente, era anche quello che ne faceva l’uso maggiore.
Cominciò a tormentarmi sul serio una sera, di ritorno dal bagno dopo aver fatto il pieno.
“Senti un po’, Mazzi.”
Cominciò a dirmi dopo avermi stretto in un angolo; mi aveva praticamente infilato l’indice in una narice e io lo guardavo senza sapere bene cosa aspettarmi. Aveva gli occhi da matto, io feci un tentativo di reagire, con l’unico risultato di farmi spingere nell’angolo con più forza. Era strafatto.
“Oh, Ferro, ma che cazzo vuoi da me, si può sapere?”
“Abbassa la cresta, rana, altrimenti ti spezzo il collo!”
Tutta la camerata si era fermata, non volava una mosca, ma nessuno muoveva un dito in mia difesa.
“Camerata…AAAttenti!” Si sentì urlare.
Il piantone alle camerate, come era previsto, avvisò tutti dell’arrivo del Tenente di giornata per il contrappello, dando qualche secondo di tempo a chi doveva far sparire qualcosa di compromettente.
“Non preoccuparti Mazzi, riprendiamo dopo il discorso…”
Infatti, fedele alla propria parola come fosse un gentiluomo e non il mentecatto che era, terminato il contrappello venne a prendermi con il suo inseparabile compare dalla fronte sfuggente. Mi portarono nei bagni, quasi di peso, poi chiusero la porta.
L’odore di piscio vecchio e di feci mi prese allo stomaco, così come il timore, che poi era praticamente una certezza, che potesse accadermi qualcosa di molto spiacevole. Scardavelli mi teneva le braccia da dietro e io mi resi conto solo allora della forza terrificante di quell’uomo.
“In infermeria c’è qualcosa che tu ci devi far avere, come ce la faceva avere quel cazzone dell’infermiere che si è congedato il mese scorso, e guarda che non te lo sto chiedendo…”
“Ferro, ma stai scherzando…? Se se ne accorgono finiamo tutti a Peschiera, non fare cazzate! Non posso rubare quella roba, è tutto registrato.”
Riuscii a stento a terminare la frase, poi Ferretti mi colpì con un pugno alla bocca dello stomaco, lasciandomi senza fiato. Non caddi in ginocchio solo perché Scardavelli mi teneva in piedi come un bambolotto.
“Forse non ci siamo capiti… ho detto che non te lo sto chiedendo! Domani sera la voglio avere, e se per caso ti viene voglia di raccontarlo a qualcuno, sappi che non arriveresti vivo al congedo.”
Era diventato freddo, la sua voce si era fatta bassa e aveva perso qualunque sfumatura. Mi fece paura.
“Cosa vuoi di preciso?”
“Non lo so come si chiama, è un liquido giallo. …Hai capito di cosa parlo; vedi di trovarlo.”
Mi diede una manata in faccia e si fece da parte. Per completare l’opera di convincimento, Scardavelli mi portò fino al bidone all’interno del quale i militari urinavano e dal cui contenuto un laboratorio dell’esercito estraeva non ricordo quale enzima. Mi ci ficcò la testa dentro. L’effetto fu molto convincente.
Passai la notte pensando a come uscire da quella situazione; denunciare la cosa ai superiori era assolutamente fuori discussione. Probabilmente, dato che di fatto la loro era stata solo una richiesta “molto esplicita”, Ferretti e Scardavelli se la sarebbero cavata con un semplice provvedimento disciplinare, magari un po’ di consegna di rigore, ma avrebbero potuto benissimo farmela pagare a modo loro; e se anche per caso li avessero incriminati e condannati all’ergastolo, io avrei dovuto vedermela con i loro amici, e uno che fa la spia generalmente non gode di trattamenti di favore.
Non mi restava che assecondarli, cercando di fare le cose per benino senza farmi scoprire.
Il “liquido giallo” che mi avevano chiesto era Promazina, un neurolettico del gruppo delle Fenotiazine.
La promazina era chiusa a chiave nell’armadietto dei farmaci eroici con altri medicinali neuroattivi, benzodiazepine, barbiturici, ketamina, xilazina, anestetici locali.
La mattina dopo saltai la colazione e riuscii ad evitare l’alzabandiera, sgattaiolando muro muro fino all’infermeria. Entrai da dietro e corsi fino all’ufficio del Tenente Medico; i ricoverati dormivano ancora e fin dopo l’alzabandiera difficilmente si sarebbe fatto vedere qualcuno. Comunque dovevo fare in fretta. Frugai dappertutto cercando le chiavi dell’armadietto e frugando restai stupito dalla quantità di minchiate che il tenente conservava con tanta cura. Non mi riusciva di trovarle. Alla fine, quando ormai avevo quasi perso la speranza, infilai la mano nella tasca del camice appeso alla maniglia della finestra: le sentii, ero salvo. Corsi fino al deposito del materiale di infermeria, cercando di fare con gli anfibi il minor rumore possibile. Aprii l’armadietto dei farmaci eroici, presi il flacone della promazina e svelto come un gatto mi portai fino alla sala visite, dove con una siringa aspirai dieci ml di soluzione. Con un’altra siringa aspirai la stessa quantità di soluzione fisiologica, con la quale ristabilire il livello del liquido nel flacone.
Sistemai tutto, mi infilai la siringa in tasca, presi il registro dei chiedenti visita, corsi in camerata e nascosi la siringa nel mio armadietto, in mezzo alla biancheria sporca. In tutto erano passati non più di dieci minuti.
Ancora non lo sapevo, ma, anche se non avevo alternativa, avevo fatto la cazzata più grossa della mia vita, dando la stura ad una sequela inarrestabile di richieste da parte dei due deficienti.
Come mi aspettavo, la sera dopo il contrappello Ferretti e Scardavelli vennero a prendersi ciò che volevano; fui io a portarli nei bagni. Avevo deciso di fare il duro e troncare così sul nascere la cosa.
“Allora?”
Mi chiese Ferretti con fare strafottente, mentre si frugava il pube con una mano infilata nelle mutande. Tirai fuori dalla manica la siringa e porgendogliela dissi, cercando di darmi un tono:
“Ferro, guarda bene questa siringa, perché è la prima e l’ultima che ti porto!”
Ferretti scoppiò a ridere imitato da Scardavelli. Poi si interruppe di colpo, mi spinse contro un urinatoio e disse sinistro:
“Tu farai quello che ti diciamo noi, altrimenti ti capiteranno cose al cui confronto quello che ti è successo ieri sera non è niente! Hai capito oppure devo farti dare un aiutino dal sergente?”
Era evidente che non stava scherzando e che io non ero certo nella posizione di dirgli cosa poteva o non poteva fare. Avrebbero continuato ad avanzare pretese di ogni tipo e io avrei potuto solo subirli.
E così fu. Nel corso delle settimane successive gli portai di tutto, dalla ketamina al cloruro di etile che si sniffavano allegramente in branda. I flaconi di tranquillanti praticamente erano arrivati a contenere acqua colorata, tant’è che una volta capitò di doverli utilizzare con un artigliere e dovemmo somministrargliene una dose sei volte superiore a quella normale. Il Tenente Medico si stupiva dell’esagerata resistenza del soldato; grazie a Dio neppure lui era un genio.
Più volte successivamente tentai di sottrarmi alle loro angherie, sempre senza farne parola con nessuno, ma l’unico risultato che riuscivo ad ottenere era di farli incattivire di più. Allora erano botte, di quelle che non lasciano segni, e umiliazioni. Cominciavo ad odiarli seriamente e cercavo in tutti i modi di evitarli; ma, se durante il giorno potevo avere qualche possibilità di riuscirci, la sera, giocoforza, mi ci dovevo confrontare.
Per fortuna e con un sollievo immenso, dopo un tempo infinito di quella vita, riuscii ad ottenere dal Tenente medico il permesso di dormire in infermeria, e questo con l’unico scopo di parargli il culo. Era successo che un artigliere quasi ci restasse secco per un attacco di appendicite perforata, perché, trascinatosi in piena notte fino all’infermeria, non vi aveva trovato nessuno che lo soccorresse. Lo trovammo la mattina successiva, svenuto sulla porta. Ne originò un gran casino che, dal mio punto di vista, si rivelò provvidenziale.
Poi capitò che si dovesse partire per l’ennesimo campo a fuoco, destinazione Perdasdefogu, Nuoro.
Solo chi ci è stato può capire che tipo di posto sia: un pugno di case e una caserma gettate a casaccio in mezzo al nulla della Barbagia. Di per se non era un brutto posto, dal punto di vista ambientalistico almeno, con il fascino dei paesaggi brulli che si stendono a perdita d’occhio, solo che visitarlo in grigioverde decisamente non è il modo migliore.
Per me fu una tragedia e l’inizio di un vero incubo. Non c’era nessuna infermeria dove stare da solo, fui gettato in pasto a Ferretti e Scardavelli senza possibilità di fuga. Non c’era un altrove per nascondersi. Quando entrai in camerata carico come un mulo sotto il peso di zaino, zainetto tattico, dotazione anti N. B. C. e cassette varie di pronto soccorso, vidi i loro occhi brillare di cattiveria. Era soprattutto Ferretti a starmi addosso, anche perché, durante i campi, Scardavelli dormiva con gli altri sottufficiali.
Probabilmente si erano portati qualcosa, di sicuro si stordivano tutte le sere con il Cannonau, il vino forte di quelle parti, che bevevano in abbondanza. Li vedevo rientrare barcollando, a volte sorreggendosi l’un l’altro. Fu in una di quelle sere da ubriachi che rovinarono definitivamente la vita di tutti e tre.
Io stavo steso in branda senza dormire, dato che per prudenza aspettavo sempre che Ferretti si mettesse a letto e si addormentasse per primo. Quasi non stava in piedi e io lo guardavo con disprezzo. Sembrava non volersi addormentare mai, avevano spento le luci già da un pezzo e lui, che si era buttato in branda ancora vestito, continuava a farfugliare frasi sconnesse con la voce impastata; ogni tanto urlava “Finitaaa!”, “Impazzire le raneee!”, “Pochiii!” e altre amenità del genere. Anche i suoi amici cominciavano a non sopportarlo più e presero a dirgliene di tutti i colori, finché, due per parte, lo sollevarono per braccia e gambe e andarono a depositarlo nei bagni.
Il delirio di Ferretti pareva aver avuto fine. Tutti pensammo che si fosse addormentato sul pavimento dei bagni e uno a uno fummo vinti dalla stanchezza, sprofondando in un sonno da bambini.
Non li sentii arrivare, ma purtroppo arrivarono e io non ebbi neppure il tempo di accennare una reazione, perché Scardavelli, che era forse anche più ubriaco di Ferretti, mi inchiodò una mano sulla bocca impedendomi di emettere anche solo un gemito. Mi sollevarono e senza fare il minimo rumore mi portarono nei bagni. Non so se esista un modo per descrivere ciò che mi hanno fatto, perché è la cosa più orribile che si possa fare ad una persona: mi violentarono.
Scardavelli mi ficcò un fazzoletto in bocca, poi mi buttò a terra a faccia in giù e mi mise un ginocchio sulla schiena mentre mi teneva ferme le braccia con le mani. Ferretti mi si sedette a cavalcioni sulle gambe. Ancora non capivo che intenzioni potessero avere, mi sembrava pazzesco… era pazzesco. Cercavo in tutti i modi di divincolarmi, ma più mi agitavo e più Scardavelli stringeva e mi torceva le articolazioni. Ferretti si chinò su di me e mi disse piano, con la bava che gli colava dalla bocca impastata, mentre si slacciava i pantaloni della mimetica:
“Tu sei la mia puttana, e la mia puttana non deve disubbidire, altrimenti questo è quello che le capita…”
Non sentii nulla, era come se in quei momenti il mio corpo non mi appartenesse più, come se quella cosa orribile la stesse facendo ad un altro; ma la fece a me e lo udivo ansimare mentre Scardavelli rideva. Rideva sempre quella gran testa di cazzo.
Quando Ferretti ebbe finito, Scardavelli mi sollevò in piedi e con un sorriso malvagio mi minacciò perché non dicessi niente a nessuno. Non ricordo che parole usò, ero completamente svuotato di me stesso e colmo di disperazione. Piangevo quando se ne andarono lasciandomi accucciato in un angolo.
Mi giurai che no, non li avrei denunciati, non sarebbe stato così facile. Non avrei permesso a nessuno tranne che a me stesso di darmi la giustizia che volevo; anzi, no, non volevo giustizia, volevo vendetta. I giorni seguenti, stranamente, smisero d’improvviso di darmi fastidio, evitavano persino di guardarmi, forse perché si erano resi conto di avere oltrepassato di molto il limite. Ormai, però, avevano piantato il seme di un odio che cresceva a dismisura, di ora in ora, di minuto in minuto; un odio del quale non credevo di essere capace. Mi sforzavo di comportarmi normalmente, ma nel mio intimo l’unica cosa che mi interessava era trovare il modo di fargliela pagare. Non pensavo ad altro, ma avrei saputo aspettare il tempo, il modo e il luogo.
Seduto nel freddo dell’altana, non avevo ancora trovato nulla di tutto ciò. In compenso, dato che erano passate diverse settimane e non era successo loro nulla, Ferretti e Scardavelli, sia pur in tono minore, ogni tanto si facevano sentire e si producevano nelle loro ben note “ragazzate”.
La luce fredda del mattino mi rimandò, filtrando attraverso la feritoia, un baluginìo proveniente dal pavimento; mi chinai per vedere di cosa si trattasse. Era carta stagnola e non mi fu difficile immaginare per quale motivo si trovasse lì; la raccolsi e vidi al suo interno delle tracce di polvere bianca, ciò che restava della cocaina che Ferretti aveva di certo tirato. Capii perché fosse ancora così allucinato quando gli avevo dato il cambio. “Povero scemo.” Pensai, e mi sedetti in attesa che qualcuno arrivasse per rilevarmi.
Mi assopii nuovamente, stretto nella coperta da campo, e dopo un tempo indefinito mi sentii chiamare da Giovannini, venuto per prendere il mio posto. Finalmente avrei potuto buttarmi in branda e dormire qualche ora un po’ più comodamente; ma non avevo fatto i conti con Ferretti.
Quando feci per infilarmi tra le lenzuola della branda, la prima cosa che provai fu un senso di umido, del quale non afferrai subito l’origine, ma che poi, sentendo Ferretti che si sbellicava dalle risate, mi divenne ovvia: mi aveva pisciato nel letto. “Dormi preoccupato!”, mi aveva detto.
Il primo impulso sarebbe stato quello di saltargli alla gola e farla finita una volta per tutte, per quanto ero esasperato, ma, sorprendendo perfino me stesso, senza dire una parola mi alzai e uscii dalla camerata. Tutti stavano in silenzio, apparentemente dispiaciuti, Ferretti aveva le lacrime agli occhi.
Andai a rifugiarmi nel posto di medicazione, uno stanzino che aveva come arredo solo un primitivo lettino medico, con le gambe ricoperte da un omogeneo strato di ruggine, un tavolino con relativa sedia sfasciata e una vetrinetta recuperata chissà dove. Le pareti della stanza erano quasi completamente foderate di muffa.
Mi sedetti sul lettino ingoiando la voglia di piangere e prendendomi la testa tra le mani; avrei voluto spaccare tutto, andarmene, fare una strage, suicidarmi…non lo sapevo nemmeno io. Vedevo tutto come attraverso uno spesso vetro ondulato, lacrime di rabbia e di odio mi riempivano gli occhi. Mi guardavo attorno senza focalizzare nulla, poi lo sguardo mi cadde sulla vetrinetta, e fu allora che lo vidi: un vasetto di ceramica bianco con delle decorazioni blu, di quelli che un tempo facevano bella mostra di sé nelle farmacie e nei quali venivano conservati i composti che si utilizzavano nelle preparazioni galeniche. Lo presi. Mi passavo il vasetto da una mano all’altra leggendo e rileggendo l’etichetta ingiallita: - Strychnos nux vomica -. Sicuramente era stata utilizzata negli anni precedenti per preparare esche avvelenate per topi e ratti.
Nell’arco di un solo istante mi apparve, chiaro come in un film, il modo in cui avrei portato a compimento la mia vendetta. Speravo solo che il contenuto del vasetto fosse effettivamente quello dichiarato dall’etichetta e che, a dispetto degli anni sicuramente trascorsi da quando era entrato nel posto di medicazione, avesse mantenuto la sua efficacia. Lo rimisi a posto e mi stesi fiducioso sul lettino.
Nel pomeriggio, non prima di aver esaminato il brogliaccio con i turni di guardia, tornai al posto di medicazione e riempii un sacchetto di plastica con il contenuto del vasetto. Me lo infilai nel tascone della mimetica, lavai accuratamente il barattolo e strappai l’etichetta per poi farla sparire nella turca.
Avrei preparato io le esche adesso, e non per topi e ratti.
Per la prima volta la sorte mi fu favorevole. Non visto, mentre Ferretti era fuori per servizio e gli altri artiglieri stavano cazzeggiando in mensa, andai a frugare nello zainetto tattico di quella che speravo diventasse la mia prima vittima. Non trovai subito ciò che stavo cercando, ma guardando in una tasca laterale, sotto il rotolo di carta igienica conforme al regolamento, trovai cinque piccoli involti di carta stagnola, il cui contenuto già conoscevo.
Con la bocca asciugata dalla tensione mi infilai i cinque involucri in tasca e velocissimo mi chiusi in bagno. Dovevo fare in fretta, anche se le mani mi tremavano per la paura di essere scoperto.
Aprii uno ad uno i cinque cartocci, travasai tre quarti del contenuto di ciascuno in un sacchettino che mi ero portato e ne ristabilii la quantità con un uguale misura di polvere di Strychnos nux vomica. Mescolai col mignolo la miscela ottenuta; era divenuta ambrata, ma alla flebile luce dall’altana Ferretti non avrebbe potuto notare la differenza, e se anche la avesse notata era troppo stupido per insospettirsi.
Rimisi tutto a posto. Ferretti era fuori con la A. R. di compagnia per accompagnare il Tenente Rizzotto a sbrigare non so quale commissione, ma avrebbe dovuto tornare entro breve per prendere il suo posto in altana. Stava facendo buio, e io mi gustavo l’attesa come un bambino la notte di Natale.
Tornarono. Ferretti mangiò un boccone di corsa e andò a rilevare Genova alla sua altana, la numero 10.
Dopo un po’ salutai tutti e feci come per andare a dormire nel posto di medicazione. Visto quanto era successo, nessuno ebbe nulla da ridire in proposito. Aspettai ancora, sentivo un sudore gelido scorrermi lungo la schiena, il cuore martellava come un fabbro sull’incudine. Poi mi decisi ad andare; camminando nell’ombra come un ladro arrivai in prossimità dell’altana di Ferro. Tutto era tranquillo, nessun rumore, la canna del garand sporgeva dalla feritoia; pensai che qualcosa fosse andato storto.
Mi avvicinai ancora, fin sotto la scaletta, con le gambe incerte e i polpacci che mi tremavano. Sentii il rumore di un movimento rapido provenire dall’altana. Per diversi minuti non successe nulla, si sentiva solo un rumore come di strofinamento degli anfibi sul cemento.
Salii piano la scaletta e entrai nell’altana. Ferretti stava steso a terra, in preda agli spasmi muoveva ritmicamente le gambe, strofinando i piedi sul fondo di cemento. Mi sedetti sulla sedia e restai un po’ a guardarlo, aveva gli occhi sbarrati e pieni di angoscia; con le mani si teneva la gola, ma riusciva a produrre solamente un debole rantolo. Di fianco a lui un pezzetto di carta stagnola.
“Ciao Ferro, sono venuto a salutarti e a spiegarti cosa ti ho fatto, perché sono stato io, e ci tengo che tu lo sappia.” ?" presi a dirgli con tono vellutato ma chiaro, non c’era pericolo che qualcuno mi sentisse. “Vedi, quella che hai appena tirato non era solo cocaina come credevi, io ho aggiunto qualcos’altro, qualcosa che ti farà morire malamente, te lo garantisco. La polvere che hai tirato si chiama stricnina e i suoi effetti sono esattamente quelli che stai provando; tutti i tuoi muscoli si contrarranno allo spasimo, sempre più dolorosamente, fino ad impedirti qualsiasi movimento.”
La bava cominciava a colargli dalla bocca, aveva perso la capacità di deglutire. Una chiazza di urina si andava allargando sul pavimento. Mi supplicava con gli occhi, ma non provavo per lui nessuna compassione. Le lacrime gli bagnavano le tempie. Proseguii con la spiegazione quasi provandoci gusto.
“Ma sai qual è la cosa davvero divertente della stricnina? Che in tutto questo sfacelo non ti farà perdere la lucidità, resterai cosciente fino alla fine e io sarò qui seduto a vederti morire asfissiato, perché tra poco non riuscirai più a respirare. Infatti mi sembra di vedere che cominci a fare una certa fatica… Alla fine questo succederà: morirai rendendoti conto di morire. E io sarò sempre qui seduto.”
Mentre gli parlavo stava cominciando a cambiare colore, le labbra e la lingua principiavano a farsi bluastre, non sarebbe durato ancora molto.
“Ti saluto Ferro, e vaffanculo di cuore!”
Restai ancora qualche minuto ad osservarlo compiaciuto; aveva avuto ciò che si meritava.
Quando, al turno di guardia successivo, trovarono il corpo successe un pandemonio; artiglieri che urlavano, sottufficiali che correvano da una parte all’altra senza sapere bene cosa fare, tutte le luci della polveriera accese. Presto vennero a chiamarmi e non dovetti fingere molto per sembrare spaventato; mi portarono da Ferretti perché ne verificassi le condizioni, anche se tutti si erano perfettamente resi conto che ormai non c’era più nulla da fare.
Mi chinai sul corpo e con due dita gli andai a tastare la carotide, senza sentire la benché minima vibrazione; anche appoggiandogli l’orecchio al petto non sentii nulla. Con la voce bassa e tremante potei solo confermarne il decesso. Il Tenente Rizzotto, il più alto in grado, con le mani tra i capelli diceva frasi confuse e si dondolava da un piede all’altro.
“Mazzi, cosa dobbiamo fare adesso…Cazzo che casino…”
Dovette sedersi perché si sentiva venir meno e sedendosi vide il cartoccio di stagnola di fianco a Ferretti; lo raccolse osservando i residui di polvere che ancora conteneva. Divenne ancora più pallido:
“Cristo! Dobbiamo chiamare subito i Carabinieri! Fuori tutti, svelti! Tutti in sala mensa!”
Restammo tutti, soldati, graduati di truppa e sottufficiali, chiusi in sala mensa, mentre vedevamo le macchine dei carabinieri entrare nella polveriera. I lampeggianti blu diffondevano una luce irreale tutto attorno. Ad attenderli erano rimasti sul piazzale solamente il Tenente Rizzotto e il Sottotenente Manzoni. Cominciavo ad avere veramente paura, quando venne un maresciallo dei Carabinieri. Con pazienza, dopo essere riuscito a ristabilire un minimo di calma, ci spiegò che Ferretti era probabilmente morto per una overdose di stupefacenti e che nessuno di noi avrebbe potuto muoversi dalla sala mensa finché non fosse stato sentito in merito dal suo Capitano.
Fui il terzo a parlare con il Capitano e, quando mi chiamarono, prima di lasciare il locale mi voltai verso Scardavelli. Stava con la testa appoggiata al tavolo, sopra le braccia incrociate; mi sembrò che stesse dormendo, ma guardandolo bene vidi le sue spalle sussultare e capii che in realtà piangeva.
“Piangi, piangi, ne hai tutti i motivi…scemo!” Pensai.
Il Capitano dei Carabinieri aveva voluto sapere per prima cosa se avessi mai notato qualcosa di strano in caserma, e in particolare se nel corso degli ultimi giorni avessi visto qualcuno dare qualcosa a Ferretti. Io feci l’ingenuo e gli riferii che negli ultimi giorni non avevo notato nulla, ma che in caserma, come tutti, più volte avevo visto Scardavelli e Ferretti appartarsi per scambiarsi qualcosa che poi facevano sparire velocemente in qualche tasca. Dissi che solitamente era Scardavelli a dare qualcosa a Ferretti, raramente il contrario. Com’era prevedibile, e come avevo previsto, andarono subito a perquisire gli zaini di Scardavelli e trovarono nello zainetto tattico ciò che avevo fatto in modo che potessero trovare: una busta contenente della cocaina e una busta contenente della stricnina. Più che sufficiente per incriminarlo e lui avrebbe potuto solo negare ottusamente un’evidenza.
Quando poco dopo lo portarono via, aveva lo sguardo vacuo dei bovini condotti al macello; si guardava attorno stranito, non capiva cosa gli stesse succedendo, cercava di dire qualcosa che non sapeva neppure lui. Volgeva lo sguardo tutt’attorno, sembrava cercare aiuto con gli occhi negli occhi di quanti considerava suoi amici, ma era come se tutti lo guardassero schifati. Continuava a piangere.
Il giorno dopo, con l’ambulanza del gruppo, venni incaricato di trasferire il cadavere di Ferretti dalla polveriera all’Ospedale Militare di Torino, dove sarebbe stato sottoposto all’autopsia.
Ferretti stava steso in una cassa di acciaio a pochi centimetri da dove mi trovavo io, seduto di fianco all’ambulanziere, ma ricordo che la sua presenza non mi turbava minimamente, anzi, ero quasi contento di essere proprio io ad accompagnarlo in quel viaggio. In testa mi ronzava il motivo di “Acqua azzurra acqua chiara” di Battisti-Mogol.
Arrivati all’Ospedale Militare vennero dei portantini a prelevare il corpo. Io scesi dall’ambulanza e mi accesi una sigaretta con aria falsamente contrita; poche parole di circostanza con l’ambulanziere, l’attesa dei documenti per il ritorno, poi sarebbe stato un capitolo chiuso, da sigillare da qualche parte in qualche angolo del cervello.
Invece, poco distante vidi due persone anziane e dall’aspetto distrutto; l’uomo, minuto, indossava un vestito marroncino sformato dall’uso e scarpe lise che mai più sarebbero tornate lucide; nella mano teneva un fazzoletto con il quale ogni pochi secondi si asciugava le lacrime passandoselo su tutto il viso. Anche la donna vestiva un abito umile e decoroso, ma era priva di espressione. Il suo volto era una maschera di cera.
Erano i genitori di Ferretti; restai a fissarli incapace di qualsiasi gesto; Piccini, l’ambulanziere, si fece loro dappresso e con voce affranta porse le sue condoglianze. Io non mi mossi da dove stavo: sarebbe stato troppo.
Più li fissavo e più mi rendevo conto della mostruosità che avevo commesso.
Non fu di per sé la morte di Ferretti a stravolgere la mia esistenza da lì in poi, fu piuttosto l’immagine di quei due vecchi composti nel loro dolore, nel dolore che io avevo causato loro. Un dolore definitivo.
Scardavelli lo rividi nel corso delle udienze del processo, dove venni convocato in qualità di testimone e dove ripetei la storiella che mi ero inventato, confermando tra l’altro ciò che altri testimoni avevano raccontato. Fu condannato, ma non trovai in questo la soddisfazione che credevo avrei provato.
Questo è quanto accadde nell’ottobre del ‘79 ed è ciò che da allora mi pesa sulla coscienza.
È il motivo per cui, a partire da quei giorni di quasi trent’anni fa, mi sono buttato totalmente, con dedizione fanatica, prima nello studio e poi nel lavoro, trascorrendo anni su anni nel tentativo di seppellire il ricordo e il senso di colpa sotto conoscenza e responsabilità.
Ma ho sempre saputo di trascinarmi in una vita che non mi spettava e che non avrei avuto il diritto di vivere.
Tuttavia si fa l’abitudine a tutto ed io, con il passare del tempo, avevo imparato a sopportare e a convivere con questo fardello, convincendomi che fosse la mia giusta punizione.
Poi, un giorno di tre anni fa, mentre ero a Roma per un convegno, mi capitò per caso di leggere su un giornale di cronaca locale, tra i cornetti e il cappuccio della colazione, la notizia che da allora ha stravolto ulteriormente la mia esistenza. Più o meno il titolo recitava: “Rapinatore pluri pregiudicato ucciso durante un tentativo di rapina ad un ufficio postale”. Sotto il titolo c’era la fotografia del malvivente ucciso. Era probabilmente una foto segnaletica e ritraeva un uomo di mezza età, forse un po’ più giovane ma invecchiato precocemente, gonfio e appesantito, con la fronte pateticamente bassa.
Vi riconobbi Scardavelli. Alla fine era morto anche lui, e in un certo senso era come se lo avessi ucciso io. Ho ucciso Ferretti. Ho ucciso Scardavelli.
Non ne ho mai fatto parola con nessuno, perché ciò che ho fatto ha un nome preciso: omicidio, e il rimorso non è bastato a darmi il coraggio di affrontarne le conseguenze.
Il paradosso è che oggi, per tutti, sono una persona integerrima, un luminare della farmacologia e della microbiologia, il docente di chiara fama che tutti gli atenei del pianeta invidiano. Così illuminato, paziente e umano, in questo modo mi descrivono, che tutti si rivolgono a me con ossequio e deferenza.
Ma un assassino non deve essere trattato in questo modo!
Per questo motivo ho deciso di scrivere il racconto di quei giorni nel mio diario di lavoro, perché voglio che alla fine si sappia quale errore di valutazione abbiano commesso tutti nei miei confronti; per questo e perché oggi in laboratorio è successa una cosa della quale conosco benissimo le possibili e prevedibili conseguenze, dato che, a causa dell’allergia che ho sviluppato, da molti anni ormai non mi posso vaccinare. Potrei evitarle, invece ho deciso di lasciar andare le cose come verranno… non sarà giustizia, ma forse i conti saranno un po’ più vicini al tornare e il cerchio mostrerà una parvenza di quadratura.
Ho preso dieci giorni di ferie, basteranno.
Ora sono sereno.
Ospedale Maggiore di Milano
Istituto di Medicina Legale
U. O. Anatomia Patologica
N° prot. 1462/08 Data 23/05/2008
REFERTO AUTOPTICO-TOSSICOLOGICO: ESTRATTO
Esame autoptico effettuato in data 02/03/2008 su soggetto maschio, età 52 anni, nome Andrea Mazzi, professione Docente Universitario.
Il soggetto veniva ritrovato cadavere il 28/02/2008, riverso a terra, all’interno dell’appartamento di sua proprietà, sito in P. zza Leonardo da Vinci, 22 a Milano.
Le condizioni di conservazione del corpo suggeriscono che il decesso sia avvenuto circa due giorni prima del ritrovamento.
Evidenze anatomopatologiche rilevanti ai fini diagnostici:
a) Ferita lacero contusa alla mano destra con evidente edema gelatinoso estendentesi a tutto l’avambraccio e forte interessamento dei linfonodi regionali. Sottocute crepitante alla palpazione e al taglio per la presenza di notevoli quantità di gas.
b) Cavità toracica: presenza di numerose emorragie petecchiali a carico delle sierose con lieve versamento pleurico e pericardico; enfisema alveolo-bronchiolare acuto e leggera soffusione emorragica della zona basale dei polmoni. Esiti di polmonite apicale.
c) Cavità addominale: nulla di rilevante.
d) S. N. C.: Evidente congestione delle meningi con raccolta da ipostasi. L. C. R. nella norma, Ventricoli Cerebrali nella norma. Nessun segno di encefalite.
Esami batteriologici:
PCR ed esami colturali su terreno di Schaedler evidenzianti la presenza in seno alla lesione a carico dell’avambraccio di Clostridium spp., con particolare riscontro di Clostridium Tetani e Clostridium Perfringens.
Esami tossicologici:
Riscontro di elevati livelli di tetanospasmina e tetanolisina nei liquidi organici.
DIAGNOSI:
Il decesso è imputabile ad asfissia da tetano acuto per infezione da Clostridium Tetani.
L’origine dell’infezione è da considerarsi la lesione occorsa alla mano destra e procurata con materiale fortemente contaminato.
Il Medico Settore
Dott. Ettore Fumagalli
R. U. O. Anatomia Patologica e Medicina Legale
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0 recensioni:
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- Complimenti davvero!
- eccezionale, non eccezzionale. saluti ziohenry
- caro John, non mi è chiaro se si tratta di un complimento o di un'offesa... comunque grazie. ziohenry
- Grazie estrus per il commento, molto gradito. Ti sei mai ferito? Al Pronto Soccorso la prima cosa che si fa, oltre alle medicazioni del caso, è la vaccinazione antitetanica (o le immunoglobuline a seconda del caso). Questo proprio perchè, a distanza di anni dall'ultima vaccinazione, la copertura anticorpale non è garantita e il rischio di sviluppare la malattia è reale. Inoltre devi tenere conto anche della carica infettante: una cosa è un'infezione "di campo", tutt'altra cosa è ferirsi con i cocci di una piastra dove sono in coltura dei clostridi. Le cose cambiano decisamente. Grazie ancora e saluti; zio henry
- Ti ringrazio per il commento, davvero. Fortunatamente di autobiografico non c'è quasi nulla!
Per quanto concerne le vaccinazioni: a) è possibile, nel corso degli anni sviluppare allergie nei confronti dei vaccini, soprattutto se spenti, in particolare verso gli adiuvanti o altre componenti non antigeniche. Il protagonista era diventato, appunto, allergico.
b) La copertura vaccinale antitetanica decade nel giro di pochi anni, risultando totalmente inefficace, a meno che non venga "rinfrescata" con un richiamo, anche post infezione.
Ti saluto e ringrazio ancora. Ciao, ziohenry
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