Seduto in una di quelle piccole, sobrie poltrone di un cinema ormai lontano dagli standard moderni, con i rivestimenti di un velluto elegantissimo, e l’odore di tempi che ormai non tornano più. Tutta la sala occupata, pronta, vivida, carica di aspettative, brulicante di gente che ingoia uno dopo l’altro film a raffica senza nemmeno digerirli. Atmosfera piacevole, rilassata, espressioni distese.
Una ventina di teste sconosciute davanti alla mia e una serie di facce che non distinguo dietro le mie spalle. Non so cosa stia per iniziare, “un biglietto” ho detto, senza nemmeno costatare che la trama fosse esaltante, l’attrice bella e sensuale, il regista vincitore di un qualche importante premio. Non avevo la minima intenzione di finire qui dentro, ma la folla dietro la strada era davvero invitante e il luogo ideale.
Ed eccomi qui, sistemato tra due coppiette disgustosamente ingorde di pop-corn, bicchierone gigante da tre, quattro euro.
La poltroncina è scomoda, inizio a diventare impaziente.
Il bisbiglio di fondo termina, calano le luci ed appaiono le montagne della Paramount. Scorrono veloci i titoli di un film che non ho scelto, i nomi di attori che non conosco, e anche se il ritmo della colonna sonora è veramente incalzante, io non sono assolutamente interessato. Non sono qui per bere Coca-Cola né tanto meno per carezzare timidamente la gamba della mia compagna, per mangiare liquirizie o per capire se il protagonista merita quel cazzo di Oscar. Inizio a sudare, inizio a sudare perché sono fermo da almeno cinque minuti. Odio stare fermo, lo odia anche il mio corpo.
La scena si dipana all’interno di uno di quegli uffici che vivono esclusivamente nelle realtà americane; un mare di impiegati con la camicia bianca, ognuno nel suo mini box con un computer a schermo piatto della prossima generazione e una stampante ultramoderna. Pannelli divisori bianchi panna, persone perfettamente curate, uomini appena rasati, colletti candidi, giacche stirate.
Quasi mi dimentico che del film non mi importa assolutamente niente, quasi mi dimentico che dietro la schiena ho la mia beretta con due caricatori da quindici colpi.
Mi alzo in piedi, deciso, improvvisamente. Non sudo più. Dalle bocche di quelle sconosciute facce alle mie spalle escono i primi lamenti: non riescono a seguire l’azione.
Ed è proprio su quelle facce che scarico il mio primo caricatore, senza alcuna esitazione, colpo dopo colpo, in un attimo, trasformando stupore in dolore, curiosità in disperazione, sabato sera in tragedia.
Il secondo caricatore mi serve per colpire alla spalle le persone accalcate alla porta in preda al panico, terrorizzate, mentre tentano la fuga. Nessun rimpianto. Forse avrei dovuto scegliere un cinema più grande.
L’ultimo colpo è per me.