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sorrisi appannati
(e tu vedi davvero)
mi piace quando mi sveglio affacciarmi alle finestre.
questo è uno strano mondo, e vale la pena di cogliere ogni suo piccolo particolare.
appena aperti gli occhi guardo dalla finestra in parte al mio letto i passanti che come abitanti d’un formicaio si affrettano verso le loro destinazioni.
poi metto su il caffè ed aspettando che salga, mi perdo a guardare una signora.
son vent’anni che la guardo e son vent’anni che lei stira vicino alla finestra… ne son successe di cose in tutto questo tempo, anche lei è invecchiata, ma è rimasta sempre lì a stirare, con la stessa delicata serenità…immutata.
dall’altra parte dell’edificio si affaccia la casa di una signora molto triste.
è sempre lì; in una bella casa ridotta a catapecchia per noncuranza, a piangersi addosso su quello stesso divano bucato. passa il tempo, ma le lacrime non smettono mai di percorrere il suo viso, copiose. il suo sguardo per un solo istante si fa vuoto, ma poi puntuale torna a quella solita tristezza.
non c’è più tempo. il caffè gorgoglia, è tempo di andare e sono già in ritardo.
questo è uno strano luogo.
per arrivarci percorro strade divenute cimitero di foglie ingiallite, quelle sugli alberi invece arrossiscono imbarazzate.
è una mattina grigia e triste, c’è un velo leggero di nebbia ed il cielo acromatico lascia un senso di vuoto nel cuore, il vento pugnalava la carne ed invita in un ballo colmo di grazia i rami degli alberi che di tanto in tanto lasciano cadere le foglie in una danza di morte.
camminando in dolci dimensioni dai colori caldi (nonostante l’aria sia già fredda) tra le foglie scorgo appena, celato dal riflesso di finestra, un signore che immobile, guarda le persone che scorrono per le strade come l’acqua dei torrenti, in quell’esplosione di colori, incantato.
ha notato che lo guardavo, con i miei capelli del colore dell’autunno, tra i tanti ciechi e mi ha sorriso come si fosse improvvisamente destato.
per le strade mi piace guardare ciò che non è scontato… e le tegole s’intersecano, e le onde giocano rincorrendosi l’un l’altra.
il fico dentro a quella casa di anime morte non ha più frutti da offrire e le sue verdi foglie si tingono di giallo, muoiono, appassiscono piano.
e quei corpi che portan solo il ricordo di vita, si scorgono appena passare distrattamente dietro ai vetri.
cos’è questo luogo?
queste anime son quasi morte, vagano come fossero già spente.
ma c’è un uomo, molto malato, che mi piace guardare.
appena gli è permesso esce nel giardino, stringendo forte il suo cuscino cilindrico.
ride, parlando e cantando tutto solo, ed è come se non vedesse le persone attorno a lui.
il suo viso è apparentemente provato dalla sofferenza, ma nonostante la sua maschera di solchi si scorge sempre in lui un espressione felice, vive in un mondo creato da lui, che mi piacerebbe vedere per una volta soltanto.
poi come fosse spuntato in quello stesso momento, guarda quel fico ingiallito con un folle sorriso ed i suoi occhi illuminati; gli si avvicina piano, con delicatezza, come potesse scappare da un momento all’altro.
con dolcezza lo accarezza facendo scivolare le sue tozze dita sulla ruvida corteccia, visibilmente emozionato appoggia l’orecchio su di esso, come dovesse ascoltare un suo segreto, e paziente sta’ lì ad aspettare; all’improvviso poi lo guarda con un sincero sorriso e l’abbraccia come fosse un figlio o un amante.
teneramente stringendolo gli sussurra dolci parole con il viso sognante ed arrossisce come se l’albero gli avesse risposto.
timidamente infila la sua mano tra le sue foglie, ma quelle cadono fragili, si schiantano danzando verso il suolo.
lui con il terrore sul viso di un innamorato che è pentito d’aver ferito l’amata per errore, e con la grande fronte corrugata, cerca di rimediare e le raccoglie, con il viso rigato di lacrime cerca di riappoggiarle sui rami, ma quelle cadono ancora ed i suoi movimenti impacciati ne fan precipitare altre, allora cade in ginocchio in preda alla disperazione, singhiozza avvingandosi disteso attorno all’albero.
tra le lacrime si addormenta, stringendo con una mano quel cuscino di spugna color terra di Siena e con l’altro braccio il suo amore ferito.
dopo poco si sveglia e con lo stesso entusiasmo di prima bacia il tronco dell’albero e si siede appoggiandocisi con la schiena.
batte per terra con il suo cuscino e muove la mano libera a ritmo di una musica silenziosa, con stampato sul viso un sorriso appannato.
dei ragazzi lo guardano e ridono.
lo fotografano e gli urlano qualcosa, ma lui non li sente e con febbrile concentrazione continua le sue astratte attività.
io li caccio, mentendo sul fatto che quell’area è riservata al personale, loro si allontanano ridacchiando come quei pupazzi a cui sulla schiena tiri un cordino per far partire sinistre risa.
mi guardano e voglion ferire con le parole, ma io non li sento.
lui rapito improvvisamente guarda in mia direzione, io gli sorrido ma lui pare come vuoto, come se momentaneamente l’anima gli avesse abbandonato il corpo, e si avvicina, con lo sguardo perso in un sorriso malinconico; una foglia mi è caduta addosso, ed io con un sussulto l’ho lasciata cadere al di là di quel cancello che ci separa.
lui la raccoglie, scava un buchino nella terra e con soddisfazione la sotterra, guarda di nuovo in mia direzione, ma non mi vede. sorride agli ulivi che alle mie spalle paiono ancora verdi e rigogliosi, le loro foglie, che sul retro, verso il cielo, baciate dal sole si tingono d’argento, poi entra in casa, chiamato da una signora vestita di bianco.
io pensando a quel dolce modo di vivere torno alla mia panchina usurata dal tempo.
c’è un signore che sta’ raccogliendo le olive, io gli sorrido e lui viene a sedersi al mio fianco.
i suoi capelli bianchi e le sue rughe raccontano una storia, ma non mi lasca neanche il tempo di capirla.
mi racconta degli ulivi:
“sembrano sani e vivi, ma l’apparenza talvolta inganna.
sono marci dentro.
tutte le loro olive paion frutti succulenti, ma ognuna di esse è bucata ed ospita parassiti.
dopo aver controllato centinaia di alberi per Venezia” mi spiega “ne avrò raccolte così poche che non ci si fa nemmeno una pasta.
bisognerebbe trattarli questi alberi…” e mi sorride “ma si son fatti furbi, da fuori sembran perfetti…arrivederci signorina.” si alza e se ne va…
“son furbi…” penso io, poi guardo oltre quel cancello, e lui è lì che sorride al fico, attraverso un vetro.
non è ancora ora d’ uscire e dietro alle finestre si intravedono facce vuote e membra rigide. camminano strascicando i piedi e bofonchiando e con gli occhi sempre bassi, in quella casa aleggia sempre uno strano silenzio, spezzato di tanto in tanto, da urla furibonde.
gli alberi di quel giardino appassiscono, ed è ben visibile; e le persone in quella casa stanno male, vegono ritenute folli e si vede bene.
da questa parte del cancello invece, come gli ulivi, siamo marci dentro.
ridiamo dei folli perché noi possediamo un involucro che pare impeccabile. che ci protegge.
se lui non ci vede, nemmeno noi ne siamo capaci, e siamo ciechi anche in quel che lui vede con tanta chiarezza, distratti nel guardare, giudicare involucri che ci avvolgono, ci riduciamo ad essere un sottile strato di membra vuote, per farci crollare basta un lieve soffio di vento.
ripercorrendo quelle strade al contrario sorrido nel vuoto, distratta dalla porpora delle foglie cadute che scricchiolano sotto ai miei passi.
proseguo in una marcia automatica, nei colori di una natura che sta’ morendo, per poi risorgere.
fermandomi un attimo solo prima di ricominciare a perdermi nella folla penso:
“chissà che stagione triste deve essere l’autunno per quell’uomo con la mente di bambino.”
e poi proseguo tra le risa dei passanti, prive di significato, con un sorriso appannato.
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- Uno strano racconto... mi piace leggere quello che non è scontato... in saldi di vita cadono... le foglie-uomini... da questo piccolo albero di fico...
Complimenti c m... con un sorriso...

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