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LA ROSA NERA
Suonano ripetutamente alla porta. È già arrivata. Detesto
quando fa squillare il campanello in quel modo insistente.
Avrei voluto poltrire a letto e poi andare a correre nel parco,
ma, anche questo sabato, mia suocera ha scombussolato
i miei piani.
Compare radiosa come sempre, con la voce alterata da
un’incontrollata eccitazione. È fresca di parrucchiere che
forse ha esagerato con il biondo, ha poco trucco ma è molto
abbronzata, anzi, lampadata. Entra carica di borse della spesa
e si dirige in cucina; il suo fortissimo profumo all’ambra
ha già invaso la casa e il rumore dei suoi tacchi è fastidiosissimo.
«Cosa fai ancora in pigiama? Su, forza, vestiti che ho una
sorpresa per te!».
«Sono proprio una donna fortunata!» dico con sarcasmo,
ancora assorbita dal sonno.
Mi chiedo quale sarà la sorpresa che me la farà odiare di
più oggi: il mercatino etnico, l’inaugurazione di una mostra,
un corso di yoga, la colazione con qualche sua amica che
deviassolutamenteconoscere?
Meticolosa, prepara la colazione, guarda inorridita i miei
dolcetti strabordanti di crema e piazza sul tavolo frutta, yogurt
e del triste pane tostato.
«Sto risistemando la vecchia casa di campagna. Portati via
l’essenziale che stiamo via per tutto il fine settimana».
«Il fine settimana?» urlo dalla camera da letto dove mi sto
cambiando, esco saltellando su un piede solo, devo ancora
mettere l’altra scarpa da ginnastica «e Lorenzo?».
«Ho avvisato io Lorenzo e poi stasera parte per quel congresso
di giornalisti a Palermo».
Mi osserva dalla testa ai piedi, so bene che disapprova i
miei jeans scoloriti, allunga una mano per darmi una siste40
mata alla massa di capelli rossi che mi scendono sulle spalle
ma ci rinuncia rassegnata.
«Prometto che prima o poi indosserò qualcosa di più femminile
» le do un bacio sulla guancia.
Mentre mia suocera pianifica il fine settimana, chiamo mio
marito che sembra divertito da pazzi nel sapermi tra le grinfie
di sua madre a gestire inerme tutte le sue stranezze.
«In bocca al lupo, amore» mi dice ironico ridacchiando al telefono.
Prima di uscire prendo un dolcetto e lo divoro sotto gli occhi
severi di Carmen.
«Non sapevo dell’esistenza di una casa di campagna» commento
ingranando la marcia.
«I lavori di ristrutturazione sono una scusa, voglio farti conoscere
delle persone» rivela abbassando il volume dello stereo.
«Chi?».
Non risponde e sorride sistemandosi meglio sul sedile.
Abbiamo appena lasciato la città urlante dell’ora di punta, scivoliamo
nel verde e nel silenzio dei colli bolognesi.
Che gran bella sensazione di pace!
La dimora di campagna è vicino a un boschetto lontano dal
paese, in una posizione un po’ isolata. È una casa a due piani,
costruita in pietra con l’edera rossastra che si arrampica sui
muri esterni e una lunga parete in vetro al piano inferiore che
mostra un grande salone col caminetto. L’arredamento è bianco
e beige, di un delicato stile provenzale e dalla cucina una
portafinestra dà sul giardino che sembra un piccolo eden con
cespugli di lavanda qua e là.
Entro un po’ intimidita e spazio con lo sguardo in ogni angolo,
ci sono i ricordi di viaggio che mia suocera ha comprato
in giro per il mondo, scaffali di libri e dischi, una vecchia scacchiera,
una bellissima gigantografia di Carmen in bianco e nero
e, sul camino, una statuetta africana in legno che rappresenta i
corpi di due amanti che si intrecciano fino a formare un’unica
persona.
Sento voci e risate venire da un’altra stanza della casa, entro
incuriosita e mi compare un gruppetto di signore che bevono
cherry e mettono vecchi dischi.
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Vorrei tornare indietro e uscire da quella scena che non mi
appartiene, non è giusto guastare quella nostalgica intimità.
«Roberta, assaggia lo cherry di Sofia e dimmi che te ne
pare».
Con questa frase sono accolta dalle amiche di mia suocera,
alle quali, naturalmente, ha già parlato di me.
Le conosco una a una e rimango affascinata dal loro carisma
e dalla loro diversità.
Rosa si muove elegante con movimenti lenti nel suo tailleur
di Chanel, è stata una cantante lirica e adesso vive un
appassionato amore con un “giovanotto” di quarantacinque
anni; Sofia cammina scalza e indossa un abito di seta indiano,
è la spirituale del gruppo, ha vissuto tanto tempo in India e
adesso ha aperto una fornitissima erboristeria a Modena; Rebecca
porta con disinvoltura i jeans e la camicia bianca, è più
giovane delle altre e, credo, la più libertina, è una ricercatrice
universitaria, ha vissuto in pieno il Sessantotto e si è sposata
due volte.
In meno di un’ora mi sono scolata mezza bottiglia di cherry,
ho imparato qualcosa di più sull’opera lirica e sui vecchi film
in bianco e nero, mi sono lasciata andare ai loro racconti di
viaggi, sono scivolata silenziosa nei loro ricordi passando dallo
slancio della rivoluzione culturale del Sessantotto ad amori
impossibili e sofferti.
Queste incredibili ragazze attempate hanno occhi sereni che
si lasciano scrutare dentro, dove le immagini di un passato
inquieto ancora si agitano; sono semplici nel loro fascino ricercato,
usano parole a volte schive e a volte avvolgenti, conoscono
i colori più belli dove intingerle, i posti più suggestivi
dove raccoglierle, si parlano con uno sguardo tra di loro, si
scambiano i pensieri, si prestano i ricordi. Hanno mani grinzose
e vissute, gesti energici ma misurati e sanno cosa dire e
fare per crearmi un posto morbido e ordinato in cui fermarmi
per un po’.
Carmen entra in modo rumoroso, si sbarazza degli arnesi da
giardinaggio e si versa uno cherry. Ha lo sguardo diverso, di
una leggerezza che non le avevo mai visto prima, il sorriso è
quasi irriverente, i modi vivaci.
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«Cherry, La Turandot e le foto del viaggio in Africa con
Albert, cosa c’è di più appagante!».
So bene che il nome di mio suocero non era Albert e poi
Carmen non beve alcolici...
«Chi è Albert?».
«Il grande amore» sospira Carmen come un’adolescente.
Cala il silenzio, tutte pensano in modo diverso a quest’uomo
con sorrisi amari e sguardi traboccanti di nostalgia.
«Allora ragazze, di chi è stata l’idea di questa allegra rimpatriata?
» chiede Carmen guardandole fisse negli occhi.
«Carmen, tesoro, ci hai mandato l’invito a casa qualche settimana
fa» dice Rosa con la sua solita delicata innocenza.
«Non io, da anni non o più avuto vostre notizie, ho perso i
contatti dopo l’ultimo trasloco».
«Carmen, sei sicura di non avere problemi di memoria?».
«Sicurissima Sofia, questa sessantenne ha ancora energia da
vendere. L’invito non l’ho mandato io».
«Come vi siete conosciute?» domando per spostare la discussione
su un altro argomento.
«In carcere» mi risponde Rebecca buttandomi addosso i
suoi grandi occhi azzurri.
«In carcere?» chiedo allibita con una voce stridula che non
mi appartiene.
«Tentato omicidio. Abbiamo cercato di fare fuori un uomo
e per un pelo non ci siamo riuscite» dice sempre Rebecca sostenendo
il mio sguardo incredulo.
«Oh cazzo e chi avete cercato di uccidere?».
«Il marito di Rosa» mi risponde Sofia con l’alito che sa di
cherry e il rossetto un po’ sbavato.
«Cosa ha fatto per meritarselo?».
«Brava Roberta, hai detto bene, per meritarselo. Era il suo
manager, sfruttava il suo talento per fare soldi, la usava, la
picchiava e lei placava le angosce con alcol e tranquillanti. Un
giorno Rosa ha tentato il suicidio e allora siamo intervenute,
Rebecca fuori di sé ha colpito Egidio con un soprammobile
di marmo ma il bastardo non ha perso i sensi e ha cercato di
reagire buttandosi su di lei, a quel punto io gli ho sparato con
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la mia piccola Beretta» Carmen parla senza guardarmi, fissa
un’immagine del passato che non vuole morire.
«Mi sono fatta cinque anni di galera» prosegue mia suocera
«Sofia e Rosa un po’ di meno, Rebecca, che era ancora minorenne,
è uscita dopo sei mesi».
Tutte guardano Rosa con una tenerezza quasi materna, capisco
che quella dolce signora vestita di Chanel e con il vizio
dell’alcol non è mai più tornata alla realtà, vive sorretta a malapena
dal suo carattere fragile e da una sana follia.
Quel racconto mi ha dato una sensazione di vuoto e di soffocamento
insieme.
Guardo Carmen, mi rendo conto di non conoscerla e di
non averla mai voluta conoscere veramente. Mi sono bloccata
sulla soglia della sua vita, davanti a quella realtà color pastello
così apparentemente futile che mi faceva sorridere, non sono
mai voluta entrare in quel mondo. L’ho sempre rispettata e
accettata come madre di mio marito, “è una madre, non è
una donna” per dirla alla Pirandello, ma adesso ho davanti
una donna che ha combattuto e amato con il sangue e sono
spiazzata da una personalità tanto forte e verace.
Rosa va in cucina a preparare il pranzo, sul grande tavolo di
marmo c’è ogni sorta di verdura e aroma; affetta, spadella e
intanto canta qualche brano de La Tosca, la sua voce vibra e
riempie le stanze di note magiche.
Carmen e Rebecca giocano a carte, spesso si guardano, ricordano
e ridono, parlano in codice, tirano fuori personaggi,
situazioni, immagini che si muovono intorno loro.
Mi domando chi è, o chi era, quell’Albert che ha fatto brillare
gli occhi di mia suocera, perchè ha smesso di viaggiare con
lui ed è approdata in Italia per sposare Italo e trasformarsi in
una signora perbene dell’alta borghesia; vorrei sapere come
sono stati quegli anni in galera e mille altre domande ma mi
appaga solo sentirle ridere, vederle serene, ora che anche la
vita ha saldato il suo conto.
«Guardate che cosa vi ho portato, donne del peccato!».
Rebecca, la rossa, per smorzare l’intensità di quel ricordo,
tira fuori una foto che la vede con Carmen e Sofia al mitico
concerto di Woodstock nel 1969: Carmen ha una bandana a
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fiori in testa, deve avere circa vent’anni, bionda e truccatissima,
ha dei calzoncini corti e beve una birra dalla bottiglia; Sofia
era già stata folgorata dalla cultura indiana, perché indossa
un’inguardabile tunica viola, ride senza ritegno rivolta verso
Rebecca che è poco più di una bambina, ha i capelli corti e
balla in costume dimenando il corpo magrissimo.
«Manca Rosa» dico ancora ferma su quell’immagine.
«Rosa l’abbiamo bersagliata con le uova all’uscita della
Scala di Milano, ti pare che potevamo portarla con noi a
Woodstock sulla due cavalli sgangherata di tua suocera?»
ride Sofia.
Seguo Sofia in giardino e mi immergo tra tutti quei fiori e
le piante da travasare, potare, steccare e le foglie da tagliare e
i nomi da imparare e le radici da salvare. La mia nuova amica
mi dà lezioni di giardinaggio con il sussidio della filosofia
buddista, un’esperienza unica.
Mentre il resto delle “ragazze” fa una passeggiata nel boschetto
adiacente alla casa, io rimango sola con mia suocera.
Ci guardiamo complici, la aiuto a pitturare un vecchio mobile
di giallo, naturalmente non condivido la scelta del colore
ma le idee di Carmen sono talmente curiose che riescono
sempre a contagiarmi.
«Chi è Albert?» e mi siedo per terra per gustarmi la storia
di un amore impossibile, come me lo immagino.
«È stato l’uomo che ho amato di più. Era di famiglia irlandese,
l‘ho conosciuto all’università quando studiavo legge».
Capisco con amarezza che Albert non c’è più. Carmen si
siede sul pavimento accanto a me e mi parla con una sensibilità
tutta femminile, gli occhi le brillano e risvegliano i
ricordi come foglie che si staccano e volano ovunque.
«Hai studiato legge?» chiedo senza troppo stupore ma con
molta curiosità.
«Solo un anno, poi mi sono iscritta a giornalismo a Bologna.
Albert era più grande di me, si laureò l’anno in cui
ci siamo conosciuti; con il suo primo stipendio e i soldi di
qualche lavoretto di salvataggio avevamo realizzato il sogno
di una vita: un viaggio in Africa. Poi successe di Rosa, io e
le ragazze finimmo nei guai, Albert mi difese e riuscì a farmi
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uscire cinque anni dopo. Andammo a vivere in un quartieraccio
di Roma per qualche mese, ma poco dopo lui morì».
La durezza di quella frase mi sconquassa dentro, la subisco
senza alzare la testa, continuo a guardare il pavimento, non
ho il coraggio di incontrare i suoi occhi ma lo sgomento di
Carmen è palpabile, la voce è striata dalla commozione.
«Un pirata della strada lo investì» mi guarda smarrita e si
lega i capelli, è un gesto per spezzare la drammaticità di quel
ricordo «poi tornai a fare la giornalista a Bologna, ero sola,
senza una lira e soprattutto incinta, conobbi Italo al giornale
che mi sposò subito e mi aiutò a crescere Lorenzo».
«Lorenzo è figlio di Albert?».
«Proprio così».
La sua angoscia mi devasta, cado in quel silenzio che urla,
scivolo giù senza appoggio, vado a fondo.
Tornano tutte dalla passeggiata, Sofia ha raccolto mazzetti
di erbe miracolose, Rebecca arriva correndo, ha un fisico
asciutto e atletico, e Rosa non ha resistito a puntarsi qualche
fiore tra i capelli. Fanno del gran chiasso e ci strappano da
quei pensieri melmosi in cui siamo sprofondate.
Io e Carmen ci stringiamo la mano lasciando scorrere le
emozioni sotto pelle, una nuova complicità si diffonde tra noi,
intensa e rassicurante.
Un grido sfrenato e acuto irrompe dal giardino. Rebecca salta
dalla sedia e si precipita fuori, noi la seguiamo con più calma
ma comunque allarmate. Sofia sta gridando come un’isterica,
ha le mani tra i capelli e lo sguardo perso.
«Le rose... le mie rose sono state recise, ci sono più solo i
gambi».
Nel cestino da giardinaggio tra le rose spezzate è adagiata
una rosa nera con un biglietto.
Carmen legge senza indugiare: Benvenute c’è scritto con una
grafia nervosa e calcata.
Improvvisamente la musica de La Tosca si alza fino a diventare
assordante, si espande ovunque, il vento si alza, muove
le tende di velo e sparpaglia ovunque i petali delle rose recise,
si sente un rumore strano che viene dal cortile dietro la casa,
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qualcosa che stridula sulla ghiaia. Ci guardiamo irrigidite dalla
paura, senza neppure il coraggio di muoverci.
«Un vicino con uno scarso senso dell’umorismo? Chi ci ha
dato il benvenuto? Chi?».
Si interroga Rebecca e il tono di voce sale incontrollato, si
stringe nel suo maglione.
«Non lo so, non conosco i vicini, è un casolare isolato questo
» dice Carmen con un filo di voce che esce a fatica.
Difficile riprendere l’atmosfera gioiosa e un po’ nostalgica
di prima. Rosa è l’unica che non si rende bene conto di quanto
sia successo, ha lo sguardo confuso e oscilla tra la realtà e la
fantasia; rientra in casa, finisce di apparecchiare, serve lo sformato
di verdure e ci tiene il muso perché nessuna ha fame.
Rebecca e Carmen si muovono intorno alla casa, perlustrano
gli angoli, ispezionano il giardino, il vecchio fienile e la
soffitta, si muovono armate di pale e forchettoni e il coraggio
di usarli.
Io e Sofia stiamo di guardia in casa e badiamo a Rosa che
mi sorride innocentemente e mi mostra le foto del suo ultimo
amore con l’espressione di una liceale.
Nessuna traccia di estranei in casa, ma la tensione resta e i
nuvoloni in cielo anche.
Allo cherry si unisce la grappa alle more, facciamo scendere
bicchierini di alcol aromatizzato fino a stordirci, l’atmosfera si
dilata e tutto è più leggero. Sofia accende le sue candele per
cacciare le malignità, si siede sul pavimento in posizione yoga
e si eclissa tra tecniche di respirazione e strani lamenti che
vibrano in tutta la stanza.
Ci addormentiamo così sul divano, una accanto all’altra. Il
mattino seguente mi sveglia il verso degli uccelli e di qualche
animale del bosco, deboli raggi di sole filtrano dalle persiane.
Mi alzo per prima per fare il caffè. Rebecca ha ancora la bottiglia
di liquore in mano, Carmen dorme a pancia in giù con la
testa che cade dal divano, Sofia ha una mascherina nera sugli
occhi e russa ancora pesantemente, manca Rosa che sicuramente
è già in cucina.
Invece la trovo sotto il patio, adagiata sulla sua sedia a dondolo
in vimini con un abito di lino bianco e gli immancabili
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occhialoni neri da diva, ha una sua foto in mano, una di quei
perfetti primi piani che mostrano occhi languidi sapientemente
truccati e che sicuramente era destinata agli autografi per i
suoi ammiratori. Le rivolgo un sorriso e le accarezzo il volto,
è fredda, freddissima e incredibilmente pallida, quasi trasparente,
ha dei segni neri intorno al collo e stringe tra le mani
una rosa nera.
Il cuore prende a battere con tonfi sordi, il mio grido è lacerante
davanti all’immagine cruente di Rosa che ora sembra
una statua di marmo. Mi chiedo se l’ultima immagine sia stata
quella del suo giovane amore oppure l’incubo del passato che
l’ha perseguitata per tutta la vita.
Sento ancora quel rumore indecifrabile che viene dal cortile
ma non riesco a muovermi, l’orrore mi tiene salda dove sono.
Rebecca e Carmen chiamano l’ambulanza e i carabinieri, Sofia,
invece, sviene alla vista dell’amica senza vita.
Mi muovo sprofondando nel terrore, vorrei uscire da questa
storia in cui sono entrata da spettatrice e che ora mi appartiene.
Non riesco a difendermi, non riesco ad afferrare un pensiero
logico, non riesco neppure a vedere con nitidezza quello che è
successo, la paura deforma tutto.
L’ambulanza arriva poco dopo, seguono la polizia, i carabinieri,
il medico legale. Le sirene stridenti, le porte che sbattono,
i poliziotti che urlano e corrono e Rosa che viene coperta
da un telo bianco e trasportata su una barella nell’ambulanza.
Scene cruenti che si vedono spesso in televisione ma questa
volta si tratta della mia vita.
I nostri sguardi vuoti e arrossati si posano su di lei, su quella
diva fragile, quella donna sola che si rifugiava nel suo mondo
per sopravvivere alla ferocia della vita.
Voglio chiamare Lorenzo ma me lo impediscono, prima devono
interrogarci tutte e mettere sotto sequestro i nostri cellulari.
Tutto questo trambusto, gli uomini in divisa che corrono
avanti e indietro, i moduli da compilare rendono la situazione
ancora più irreale, vorrei un po’ di quiete per capire quello che
è successo, elaborare la morte di Rosa, vorrei un po’ di spazio
per piangere e disperarmi, vorrei Lorenzo accanto a me e invece
seguono ore e ore di estenuanti.
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Lorenzo viene avvisato dell’omicidio, senza troppo tatto e
in modo sbrigativo, da uno dei poliziotti.
«Venite al commissariato domattina alle otto. Vi lascio qualcuno
dei mie uomini?».
Chiede garbatamente il commissario. Ha un tono pacato e
rassicurante, come se sapesse in quale direzione proseguire le
indagini, ma non riesce a confortare anche noi.
Si decide di rimanere da sole ma io sarei stata più tranquilla
con un uomo in casa. Nessuna dorme quella sera.
Non è ancora l’alba quando Carmen mi sveglia strattonandomi
violentemente, trema e non riesce a trattenere una crisi
isterica.
«La foto... guardate la foto!».
Qualcuno ha cancellato la faccia di Carmen sulla fotografia
scattata al concerto di Woodstock, ma quel che è peggio è
che c’è una rosa nera accanto a quell’immagine deturpata.
L’angoscia cresce ed esplode dentro, abbiamo volti di pietra
e occhi segnati dalla paura. Uno strano e minaccioso silenzio
ovatta l’interno della casa.
Il terrore ci inghiottisce, qualcuno ha tagliato i fili del telefono,
i cellulari sono spariti, impossibile comunicare con
l’esterno. Rebecca corre a perdifiato verso la sua Cinquecento
parcheggiata nel cortile ma si accorge subito che ha le
gomme squarciate, anche la macchina di Carmen ha i copertoni
a terra.
Torniamo in casa con la paura che ci fa aumentare i battiti
del cuore, ci impossessiamo di armi rudimentali: coltelli
da cucina, forbici, bombolette; è la disperazione che ci fa
muovere, nessuna riesce a pensare a quale volto possa avere
l’assassino, l’importante è agire, anche senza avere chiara la
direzione ma agire.
Dal giardino giunge uno strano rumore, sono passi sulla
ghiaia del cortile accompagnati da un cigolio incomprensibile.
Il respiro viene meno man mano che quegli strani rumori
si avvicinano, il silenzio è totale, gli occhi si dilatano
per la paura, poi, la grande porta-finestra si apre lentamente,
compare l’immagine di un uomo in carrozzina che entra a
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fatica. Ha un impermeabile e un cappello calato sugli occhi,
guardiamo tutti quell’immagine angosciante, poi la mano
dell’uomo si alza per scostarsi il cappello e compaiono due
occhi profondi e diabolici su un volto butterato e sfregiato.
È molto invecchiato ma le donne riconoscono subito Egidio
Gatti, il marito di Rosa.
«Era meglio se mi uccidevi, Carmen, piuttosto che ridurmi
così» ha una voce profonda che graffia le parole «ho giurato
vendetta a tutte voi, non mi è bastato aver fatto uccidere
Albert».
«L’ho sempre saputo che l’avevi investito tu, brutto bastardo!
» dice Carmen scattando verso di lui. La freno afferrandola
per un braccio.
«Io sono finito su una sedia a rotelle e lui vi ha fatto uscire
di galera, doveva pagarmela».
Prima che possiamo reagire due giganti vestiti di nero ci
tolgono i coltelli di mano, ci prendono di peso e ci imbavagliano
con dello spesso nastro per pacchi. Ora sono fermi
dietro di noi, sento i loro aliti che sanno di sigaretta e il peso
delle loro mani sulle spalle.
Carmen è l’unica che non hanno legato.
La sedia a rotelle di Egidio si muove e avanza verso mia
suocera che gli butta addosso uno sguardo di odio e sputa
per terra.
«Voglio che ognuna veda la fine dell’altra» dice dilatando
ancora di più gli occhi inquietanti.
Tira fuori una pistola e la punta scintillante contro Carmen
che gli lancia addosso il coltello ma non lo prende.
Mi sento mancare, non credo di riuscire a resistere a tanto, i
nervi stanno cedendo, il cuore quasi sfonda il petto, il sudore
mi si è ghiacciato addosso.
Dio, non voglio morire.
Parte un colpo di pistola che rimbomba nella stanza e dentro
di me, echeggia, mi spacca, fa tremare i miei sensi come
corde impazzite, chiudo gli occhi e non voglio più aprirli.
Il grido di Carmen mi obbliga a reagire, è accovacciata sul
pavimento, si stringe come un animale ferito. Getti di paura
e orrore escono dal mio grido, mi sembra di sfibrarmi, i
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muscoli cedono, fisso mia suocera con un dolore senza fine.
Carmen si muove, si trascina a fatica sul pavimento.
Non è morta, grazie Dio, non è morta, non vedo sangue, si
muove, si trascina, non è morta, no, non è morta!
Egidio Gatti, invece, è accasciato con la testa a penzoloni,
dalla tempia il sangue scende a zampilli densi e continui, i suoi
occhi demoniaci continuano a fissarci inermi.
I poliziotti sono entrati fulminei e silenziosi come gatti selvaggi,
hanno immobilizzato gli uomini di Egidio, in realtà non
avevano mai lasciato la casa, ma non sono stati loro a uccidere
l’uomo, il colpo è partito dalle scale. È stato Lorenzo a sparare,
è ancora immobile, accovacciato sulle gambe tremanti, le
braccia rigide, la pistola è sempre puntata verso il cadavere di
Gatti.
Saliamo sulle ambulanze che ci porteranno tutte all’ospedale
per accertamenti.
Mio marito mi stringe al petto e mi chiude dentro di sé,
ci barriamo dentro di noi e stiamo immobili a mescolarci le
emozioni.
Fuori, intanto, si alza silenziosa un’alba che nessuno sperava
più di vedere.
Tratto da uno dei racconti di “I Colori di Venere” di Simona Bertocchi
Edizioni Il Filo collana Nuove Voci
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- bello e brava un po' lungo...
- Si nota un tocco realmente professionale
- brava
- Quando si è bravi c'è sempre un editore disposto a pubblicarti. Complimenti.
- molto bello
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