"Non lo so se ti possiamo fare uscire. Le tue condizioni sono quelle che sono. Lo sai anche tu".
Lui non rispose, si girò verso la finestra e guardò fuori, appoggiando la fronte al vetro che gli riflesse parzialmente la sua immagine. Era dimagrito. Vistosamente.
"Hai qualcuno che ti aspetta?".
"Suppongo di si" rispose lui troppo in fretta.
Alzò le spalle "Cioè, non lo so. Credevo di si, ma ora non ne sono più tanto sicuro" aggiunse.
"Tutti abbiamo qualcuno che ci aspetta, da qualche parte".
"Eh".
Fece mezzo passo indietro e si sedette sul letto. Allungò il braccio libero e frugò sul comodino alla ricerca del suo cellulare. Lo trovò sotto un vecchio Dylan Dog. Guardò il display pur sapendo già cosa avrebbe trovato, o meglio, cosa non avrebbe trovato. Però - si disse - magari non l'ho sentito io.
E invece nulla. Nessuna chiamata e nessun messaggio.
"Forse non c'è campo" mormorò alla stanza vuota.
Si appoggiò con la schiena alla spalliera del letto, tirò su le gambe verso il petto e le abbracciò posando la testa sulle ginocchia.
Chiuse gli occhi.
Nel silenzio poteva sentire il percolare ritmico della flebo.
Cominciò a contare le gocce, come faceva sempre.
Arrivò fino al numero trenta, poi al cinquanta e poi ancora oltre e all'improvviso le gocce furono troppe per lui da solo, e così assordanti in quel silenzio, che credette di affogare.
"Sto impazzendo?" domandò a se stesso, e più che una domanda sembrava una placida constatazione.
Ma fuori c'era un sole splendido, e non si poteva affogare in un giorno così.
E allora decise di rimandare la follia a tempi migliori.
In quel momento preferiva vivere.