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Salute!
"Mute parole "
Non trasmetteva neanche uno dei suoni che avevano contribuito alla elaborazione e scrittura di queste due parole. Neanche uno dei battiti d'alette che avevano spento la candela al cui chiarore, vere, erano nate. Forse non aveva alcuna importanza averle pensate. Ma la materia dei pensieri, non era forse la stessa, fitta e pregnante dei desideri? E non aveva forse anche a che fare con la deliziosa sostanza dei sogni?
Così, rileggeva e rileggeva, ora convincendosi della vacuità diurna delle creazioni in cui sprofondava gli occhi pesanti; ora illuminandosi di quella felicità stoica dell'eroe che, solo, anela e difende il vero. Nel primo ora, ripeteva "zzz!" e si diceva che questa era la lingua conosciuta, questa l'unica da usare per non cadere nei capricciosi vortici della superbia e ancora questa per amare con l'umiltà insita nelle sue dimensioni, il mondo e il cielo.
Nel secondo ora, voleva. Spasmodicamente voleva, con tale intensità che senza accorgersene, alla fine del vagheggiare, poteva ritrovarsi a molte miglia di distanza da dove aveva iniziato a desiderare, mossa appunto dalle contrazioni veloci e involontarie dei piccoli muscoli alla base delle ali. Molti suoi simili avevano scritto e cantato componimenti la cui sola vicinanza, faceva volare Scerì, fino alla cima dei più alti e imponenti Baobab. Quando la vicinanza delle opere di simili esemplari era tale e tanta, così come può accadere arrotolandosi per caso o intuizione in uno spartito, Scerì poteva volteggiare anche più in alto. Una volta gli sembrò per esempio, di essere giunta fin quasi alla via lattea. Una delle plausibili spiegazioni di quel volo (assai arduo per un moscerino piccolo come lei e non facile neanche per i grandi aviatori della sua specie o delle altre), era che le righe del pentagramma, svoltolandosi, si fossero dapprima frammentate e poi, con legami di tempi e toni tra le note ora fluttuanti, si fossero riunite a formare due lunghe righe parallele che Scerì aveva sfruttato come binari per la sua ascesa. Il processo di "binarizzazione" doveva essere stato sostenuto da forze simili e affini a quelle che dal "brodo primordiale" o, come dicevano le mosche, dalla "cacca primordiale", avevano generato, per scontri casuali di atomi, l'universo.
Rileggeva: "... incontrandoci sulla strada del ritorno ci son voci che risuonano nel vento, fiati e corde che all'andata trascurammo. I frutti, i fiori, le illusioni, ed il gusto della vi(s)ta tralasciato, scialacquato e diluito nell'istante precedente, nell'attimo rapito, nell'ora danzante, nella sera del ventre "
Tra gli artisti le cui opere facevano fremere, planare e piroettare Scerì vi era un certo Feden, poco noto alla gran parte dei moscerini e degli altri insetti, non tanto per l'ermetismo dei suoi papiri in sé stessi, quanto per il fatto o leggenda, ch'egli non avesse mai conosciuto ne usato lo Zzzese. Secondo alcuni interpreti, Feden fuggì o si perse (i maligni dicono che fu abbandonato dalla madre) in tenerissima età, ancor prima di saper distinguere l'ala destra dalla sinistra e crebbe sotto la guida d'un misterioso fenicottero fin quando si perse di nuovo in una grande città. Avrebbe imparato a volare molto tardi rispetto ai suoi simili ma subito, a questa nuova pratica unì l'arte che era nata con lui: dipingere parole. Usava liquidi vitali che, non avendo corrispondenti nomi in Zzzese, venivano tacciati di macabre provenienze e sibaritiche mesciture. Ma Scerì, amava ogni filo, sfumatura e incrostazione di quell'arte che le pareva torrenziale linfa e le consentiva, con semplici e decisi balzi, d'intingere le proprie zampine nei pollini profumati, così da trarne il liquido gelatinoso con cui scarabocchiare foglie e cortecce. Gli ignari ed eventuali ospiti delle corolle spesso soprassalivano, colti di sorpresa dal "boom" o "stam" che accompagnava i non sempre delicati atterraggi di rifornimento. Con fretta e non per questo mancando di cortesia porgeva scuse gioiose, spesso dimenticando di usare linguaggi comprensibili a causa dei vortici di nuove parole tosto fluite, dalle antiche foglie di Feden, fino al suo cuore. Si rivolgeva così ad una povera coccinella sgomenta con frasi del tipo: "Confido voglia fugar da lei ogni biasimo per le mie piroette, sì lungi dal volerle recar turbamenti, che, in fede, sgorgano non d'altra sorgente se non quella dalla simpatia animica che nutro anche nei vostri riguardi!" Altre volte invece riusciva a porre attenzione sufficiente da esprimersi in maniera consona: "zzzsz bs zzzzzzz brrrrrrr z zzzszzss zz. Zsssss zzzzz".
Correva, sentiva, in spaccata, ascoltava. Non risparmiava neanche le schive gocce di polline che, timide, le si nascondevano addosso. "Suvvia! Schizzate giù, su tutto ciò che vive e vi attende!". Poi, quando il distillato veniva assorbito dalle forti ed orgogliose vene delle fronde, il piccolo moscerino contemplava l'esito, talvolta avendo l'impressione di distinguere i sorrisi delle stille appena esortate. Sicuramente ridevano dei loro tentennamenti, felici nelle loro nuove forme, ed anche del solletico procuratogli dalla fusione con la materia lignea.
Che l'autunno avrebbe mutato senza riguardo tutti i colori, non le faceva risparmiare neanche i sorrisi più diffidenti, che sentendosi strappar via da un'espressione meno radiosa, talvolta, si presentavano nostalgici. "Suvvia! Non sprecate aria affacciandovi così titubanti".
Non che tutti i suoi scarabocchi fossero allegri, anzi, i più straripavano di malinconia, ma corrugamenti e bronci, in tutte le classi e sottoclassi di moscerini, provocano ectaparesi; quindi Scerì non avrebbe potuto creare neanche una semplice"Z" senza sorrisi.
Solo le Drosophile(*) avevano, nel corso di sciagurate generazioni, sviluppato espressioni infelici non a rischio di paralisi. Da molto tempo ormai questi piccoli commensali dei frutteti e digiunanti delle nature morte, avvezzi ai frequenti e misteriosi rapimenti che li vedevano come destinatari, avevano perso la capacità di ridere. All'inizio del fenomeno delle sparizioni di massa e quindi all'inizio dei crucci, si vedevano ampi pezzi di terra del tutto ricoperti da sciami tremolanti e via via immobili. Si formarono spontanee squadre di soccorso e tra le Drosophile scampate ci furono anche intrepidi e valorosi rivoluzionari. Sembrava che la guerra andasse condotta su più fronti, si parlava di almeno una decina di veri e propri eserciti tra i quali squillavano cacofonici: Entomologi, Biologi e Genetisti. La battaglia fu pianificata in lunghe e violacee notti tra gli acini di nascosti vigneti, dove i sorrisi erano facilmente corroborati dall'uva e sostenuti dai bagliori di qualche lucciola solidale ma, alla vigilia dei combattimenti, giunse una Bolla Reale, con priorità esecutiva assoluta. Re Moscozz, avendo esaminato con cura i risultati dei lunghi studi dei suoi Mimolatori, istituiva l'obbligo, per tutte le Drosophile, di iscriversi ai corsi di espressione facciale e conseguire il relativo certificato di apatia, previo il quale non avrebbero più avuto diritto al volo. Dalle ricerche emergeva infatti che alla "facies apatica" non si associava paralisi nel 98, 8% dei casi esaminati, con valore predittivo del 99%. La legge fu di facile applicazione su gran parte della popolazione, ormai paralitica e perse il carattere coercitivo quando molte mosche, alcune lucertole e qualche zanzara, chiedendo l'ammissione alle scuole, lanciarono una vera e propria moda.
Oggi nessuno rammentava tutta questa storia e nessun altra domanda sarebbe risultata più bizzarra di : "Perché questa espressione?"
Nei secoli infatti "perché" era diventato "zzzs" ed "espressione" o "szchiù" era l'antenna ricurva in avanti di qualche insetto demodé o tutt'al più uno stravagante starnuto.
Ma Scerì aveva questa domanda nel cuore da sempre, da quando nei suoi primi tentativi di volo, lanciandosi da un petalo di Myosotis cadde sulla schiena di una lucertola che le attutì il colpo. Vide occhi sporgenti pieni d'acqua e verdi zampe tremanti. Le sembrò che il fremito da sotto la pelle secca e rugosa del rettile s'immettesse, diretto, nelle sue zampe e spandendosi radialmente con moto a spirale sospendesse nel vuoto il suo respiro fino a chiudersi nella gola. Mai aveva visto o sentito una "szchiù" così dirompente e fragorosa. Allo sguardo invadeva il sentire ed il tocco era già abbraccio prima di essere tatto. Vagamente dolente, non più di una spolverata di briciole, scintillanti nella fenditura che un deciso raggio di sole traccia nell'aria, su felici e intontite pupille. Vide che era corta per essere una lucertola: "Piangi la tua coda?" "Il mio cuore è in piena "
"Lascia che si riempia! Volgi lo sguardo sopra il tuo sasso".
"Non voglio guardare che a terra. Conosco il cielo maestoso e i suoi piccoli lumi amichevoli, so che splenderanno anche domani notte della loro sapienza immutabile e vera, so che saranno alti e benevoli fari per le lucertole così come per le talpe".
"Dunque le tue lacrime sono di gioia?"
"Sono la piena del fiume irruente che scorre e del suo sinuoso argine, germogliante di fiori su morbide terre, si allieta. Corre, si allarga e gorgoglia con spume salmastre e schizzi frizzanti che i cari raggi del sole traversano, cadendo poi freschi, fecondi, sull'opimo verde e ancora nell'acqua. Le mie lacrime provengono da questo veemente e gonfio emissario, che trae impeto dalla grandiosità del mare alla sua foce, non meno che dagli eterni ghiacci dove, goccia a goccia, zampilla".
"Tu menti! Queste sacre parole, la grazia di questi elementi che arroghi al tuo spirito possono solo esaudire la felicità e in alcun modo portare mestizia nell'anima(le) che davvero li accoglie".
"La mia anima è sincera come il fiume che giura di fluire perpetuo e non meno essere sempre nel suo letto. Il mio spirito è grato al cielo così come alla luna di essere al loro pari immenso quando questi, al solo sguardo, suonano per lui. Ma ora non voglio guardare che la mia coda mozzata e trovare nel suo infimo dolore ancora quel moto che l'acqua non perde, foss'anche prigioniera d'una diga. Ricrescerà nuova e veloce perché anche lei sa delle stelle nei suoi guizzi fedeli, ma ora, deve trovarsi grande e bella anche così. Piango perché sono così piccolo, qui, non più fiume ma strada e palazzo, senza la mia coda".
"Oh, ti prego, insegnami queste 'z' che mi riempiono tanto di gioia da non poter neanche lasciare spazio all'invidia!"
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La lucertola donò a Scerì un meraviglioso libro e da allora ella non smise mai di porre entusiasticamente la domanda da cui era nato l'incontro con la lucertola ma, quasi tutti i successivi interrogati, sentendo "espressione" o "szchiù" e non avendo mai avuto uno zocalobario in dono, dopo essersi sistemati l'antenna con un po' d'imbarazzo, rispondevano: "Salute!"
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Elena il 13/03/2006 20:40
Prova con "Gamelia", lì non ci sono moscerini, al max una marionetta...

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