racconti » Racconti drammatici » La festa
La festa
Il sole non si vede più, sparito dietro un orizzonte fumoso e grigio. La pioggia scende giù silenziosa ed insistente, oleosa e sporca, dilavando le strade polverose intasate di automobili, passi e luci al neon.
Il sole non si vede più, sta per sorgere ancora il chiarore elettrico, per privarci di un’altra notte. Dopo la frenesia di un giorno qualunque, inizia la festa.
Dietro un banco carico di cibo due cani dormono, sdraiati sul fango. Il vecchio cuoco, calvo e col naso gonfio di vino e butterato come una grossa patata, ansima tra il fumo grasso: suda, bestemmia sottovoce, sorride viscido ai clienti che gli porgono poche banconote vecchie, contando avidamente i soldi con lo sguardo obliquo. Una cagna si sveglia, si sporge verso il banco, annusa l’aria chiedendo muta un po’ di cibo. Il vecchio la allontana con un grugnito ed un calcio. Sconfitta, barcolla lentamente verso il suo cantuccio, con le mammelle flaccide che le pendono dal corpo ossuto come se non le appartenessero.
Poco distante, in un ristorante riparato da un’elegante cinta di cespugli rasati ad arte, una giovane coppia siede ad un tavolo finemente imbandito, sorseggiando vino bianco da calici imperlati da gocce d’una sottile nebbiolina fredda. Il brusio degli astanti è una sola parola che dice nulla. Lui è bruno, scuro d’occhi e di capelli, la mascella brutale si muove a scatti ad ogni sorso, mentre la mano, che sfoggia un vistoso anello d’oro chiaro, tamburella nervosamente sul tovagliolo candido. Lei è molto alta, scura come lui, bellissimi occhi verdi screziati di nocciola, e si muove inquieta sulla sedia. Ha un’espressione divertita e stupida, è stretta in un provocante vestito da sera che fa esplodere il suo seno gonfio. Cicaleccia continuamente, con una voce argentina e piena di vezzi, mentre lui divide le sue attenzioni tra le poche parole che riesce a cogliere, alle quali risponde con svogliati cenni della testa o monosillabi gettati a caso, e le cosce profumate di una procace vicina di tavolo che lo guarda di sbieco, visibilmente in calore.
Intanto, nella toilette di marmo verde, una giovane donna si piega sul water, gettando via se stessa attraverso la gola ed il naso, tra il profumo dolce del suo collo fragile e la seta rossa che le avvolge i fianchi sottili. Piange mentre si annulla, e guarda il pavimento nella speranza vana che esso si apra, per accoglierla come nessuno ha mai fatto.
Dietro il muro un uomo, maturo ed elegante, ritorna vivo respirando un turbine di neve fresca, mentre due amici poco distanti parlano con voci alte e sussiegose, gonfiando il petto e la gola e mostrando fieri il proprio orgoglio di essere lupi. Per un attimo manca la luce, e le voci si acquietano timorose, per tornare ad abbaiare in pochi secondi, e ridere dell’angoscia del buio.
Nelle cucine i cuochi urlano tra il calore insopportabile dei fornelli e la nausea di un’abbondanza molle; i camerieri si muovono furiosamente, gli sguardi vitrei senza espressione, le mani ricolme di piatti carichi d’ogni profumo si trasformano sotto i loro occhi in ammassi di letame. Nel retro, tra le pozze di fango e i gatti ciechi, gli scarti puzzano così come succede ovunque.
Giù in centro inizia la giostra, la sfilata di ogni notte: un po’ elegante, un po’ cafona, un po’ sognante, rumorosa ed ubriacona. Dentro le auto tirate a lucido si scambiano ammiccate furtive, si consumano litigi stizziti le cui voci non sanno di parlare attraverso un muro di pietra, occhiate lascive in fondo a sedili bagnati, veloci deliri allucinogeni, che illuminano di colori sgargianti il buio fitto di menti alla deriva. Il serpente di metallo occupa prepotentemente il viale e le sue molte costole, come un immenso parassita borioso. Centinaia di minuscoli atomi di vita isolati si scontrano in una danza ritualizzata sino al minimo gesto, dove attori goffi recitano la prima commedia del mondo, con nuovi costumi che non riescono a nasconderne la parossistica ripetizione.
In una piazza buia si accendono occhi di cristallo, accecanti. Puntano un uomo sottile dallo sguardo feroce e triste. Le mani si incontrano, qui il denaro, qui la scala. Gli occhi si allontanano squarciando il buio sornione.
Il ventre della città vomita a fiotti torme di ubriachi seminudi, i corpi si toccano insistentemente, il tanfo del desiderio cieco acceca il profumo, la danza si evolve, si separa, gioca con un tempo sempre più breve, in giri più stretti, finché la centrifuga non ricaccia tutti nel magma indistinto.
Nella montagna scintillano le vesti succinte e le sigarette sottili, scorre sangue chiaro e frizzante, scende per le gole e giù a bagnare le morbide scollature, l’amplesso è dentro, fuori, ovunque. Volti lucidi, malattie nascoste tra le risate che fanno a gara a coprire il silenzio, oro e polvere di stelle lontane si mischiano al sudore, che ora profuma di sandalo e pietre, mentre il sordo rumore del tam tam elettronico dispensa la parola e scatena mille animali in una stretta gabbia lucente…uno contro l’altro, con i denti e le unghie: il sacrificio è il senso del rito, il movente dell’orgia. La Signora si aggira soddisfatta, col suo vecchio passo strascicato, tra i mille invitati alla folle festa.
Sotto, il fiume scorre sporco e supino, senza più maestà. Tra topi e diavoli radioattivi, come una vecchia puttana, subisce lo schizzo ed il grugnito del maiale di cemento, senza poter mai alzare la testa, senza più senso, sommerso dal suo non esser più nulla.
Risuonano i colpi soffocati di una rissa esplosa dal profumo d’una gonna o dal collo troppo stretto d’una bottiglia scura. Le sirene non cantano, ma illuminano ritmicamente sguardi stravolti che emergono dal cristallo a pezzi, mentre mostri di ferro rantolano in agonia, distrutti nello scontro, vomitando rivoli densi di sangue nero.
La strada è umida, riflette la luce gialla: la notte è già alta, e sullo stretto viottolo cammina leggero un angelo. Ha i capelli biondi illuminati d’un rosso dolce, umidi sulle spalle nude, esili e bellissime. Gli omeri d’avorio riflettono una luna verde di bile, restituendole il suo primo colore, le gambe sottili e veloci cantano attraverso una sottile veste di seta. Gli occhi, pura acqua, sono limpidi e sereni. Cammina in silenzio, scalza, mormorando tra sé le parole del sole, i serpenti si ritraggono codardi, la strada non può toccarla.
Dalla bocca del viale, come da una fornace, l’eco del fumo ed un rumore stridente crescono ad un ritmo forsennato. Un’ombra cresce nella distanza, prende forma, i fianchi neri ed immobili riflettono la strada vuota. Cresce, cresce ancora. È vicina.
L’angelo sorride, rapito da un nuovo pensiero. Guarda lontano, lì dove sente il rumore più forte. Sorride, mentre scende a toccare terra, la veste si stringe attorno al corpo, umida di nebbia. Sorride al mostro, che cresce ancora…
Un rombo scuro e metallico ride sardonico, esplode in un urlo agghiacciante. Strappa, consuma, divora l’angelo con una furia meschina, e nulla è successo, niente s’è mosso, il mostro sparisce così come era sorto, dal buio, nel buio.
La festa volge al termine, sorge un sole timido e bianco, incapace di svegliare una natura ormai morta. È l’alba, ed è come se nulla fosse mai accaduto.
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- inferno trasuente oltre ogni confine da dentro a fuori da fuori a dentro oltre un orizzonte invisibile oltre la ragione e il rimpianto... una immensa torta malsana... mi piace