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La palla
Oggi è un mese che Adriana mi ha lasciato, portandosi via lo stretto necessario che è riuscita ad introdurre in due valigie.
È andata dalla madre, per ora.
Mi disse che quando se la sarebbe sentita, avrebbe provveduto a prendere tutte le altre sue cose.
Io non feci il minimo accenno di resistenza e d'opposizione a questo suo gesto che, da qualche tempo, ormai, stava maturando.
Il nostro rapporto, infatti, negli ultimi mesi, registrava quotidiani battibecchi e accese discussioni, che nascevano, sempre, da futili motivi.
Mi ha sopportato anche troppo a lungo. Per troppo tempo ha subito le mie stupide angherie, le mie provocazioni, il mio scaricare su di lei le mie angosce e le mie ansie.
Mi rendevo conto che sarebbe arrivato il giorno in cui, esasperata dal mio comportamento, mi avrebbe affrontato, com'è suo costume, per chiarire definitivamente il nostro rapporto.
Quel giorno giunse.
Era una delle, ormai consuete, noiose ed insulse domeniche, che trascorrevamo in casa, come due estranei.
Con fare deciso Adriana, richiama la mia attenzione e mi dice:
"Claudio, io ti ho tanto amato e ti amo ancora, ma non posso più assistere al disfacimento del nostro rapporto, senza vedere una possibilità di recupero. Non posso più combattere con una persona che fa di tutto per affossarlo sempre di più".
Seguì un'intensa pausa indotta dalla commozione di Adriana. Dopo pochi secondi, tratto un profondo respiro, proseguì:
"Claudio, non vedo la benché minima intenzione, da parte tua, di recuperare l'equilibrio e la serenità che ti ha sempre contraddistinto. Non mi fai partecipe dei tuoi sentimenti, non comunichi più, non mi consenti di aiutarti ed io, a questo punto, sono tanto avvilita che non vedo altra soluzione che quella di andarmene, per poi separarci.".
Cominciò a singhiozzare intensamente ed io continuavo a fissarla come se fosse un'estranea e parlasse di cose che non mi riguardassero.
"Vedo che non te ne importa niente! Sai che ti dico, meglio così. Avrò meno rimpianti!"
Raccolse le sue valige e se n'andò, sbattendo platealmente la porta e da quel giorno non l'ho più vista o sentita.
In questo periodo di solitudine totale, non ho fatto altro che sprofondare sempre di più nelle mie inquietudini ed agitazioni, caricandomi fino al punto di esplodere, fino a contemplare la soluzione finale, per porre fine alla mia disperazione.
Avevo perso, anzitempo, il lavoro, perché la ditta in cui ero occupato, con una discreta soddisfazione, aveva scoperto che ero divenuto un esubero, un ramo secco e costoso, che andava tagliato per riequilibrare i conti della società.
Mio figlio si era allontanato da casa per un lavoro, che avrebbe svolto in un altro continente, a diecimila km di distanza.
Rimproveravo mia moglie di non comprendere e consolare le mie frustrazioni, senza capire che lei le comprendeva benissimo, ma faceva di tutto per stimolarmi a reagire ed a superarle, invece di adagiarmi su di esse, per essere compatito.
Così, giorno dopo giorno, ho mandato a rotoli anche l'unica cosa bella che mi era rimasta: il rapporto con Adriana.
Ormai ero perso dietro alla mia autocommiserazione, continuavo ad involgermi sempre di più nelle sabbie mobili della depressione, che mi stava lentamente risucchiando.
In questo stato confusionale e senza più punti di riferimento, iniziai a maturare l'idea che l'unica soluzione fosse il suicidio.
Solo così avrei posto fine alle mie sofferenze ed a quelle di Adriana.
Avrei tolto il disturbo a questo mondo, che non si era nemmeno accorto della mia presenza ed a quelli che ancora mi stavano vicini, a patire delle mie ubbie.
Fu così che, pienamente compreso della validità di questa soluzione, mi recai nello studio, presi la mia Beretta 7, 65 e, così come stavo, sciatto, trasandato e con la barba lunga, uscii, per non più tornare.
Appena giunsi per strada, mi diressi verso il parco, situato poco lontano da casa. Esso è abbastanza grande ed ogni tanto ha degli spazi fitti di vegetazione, come delle piccole macchie, che, nella mia mente, in preda ad una lucida follia, rappresentavano il luogo ideale per il gesto estremo.
Dopo pochi minuti di cammino, con un'andatura innaturale, quasi fossi in trance, giunsi a calpestare l'erba del prato.
Mi guardai intorno, per scegliere il luogo adatto.
Individuatolo, con lo stesso incedere m'incamminai verso di esso, con la mano sinistra che già accarezzava la pistola, nella tasca della stazzonata giacca.
Fu a quel punto che udii la voce insistente e stridula di un bambino, che più volte ripeté: "Signore, signore la palla, per favore.".
Non avrei voluto voltarmi, ma fu tale l'insistenza di quel moccioso, che mi girai proprio mentre quella sua stupida palla finì di rotolare sui miei piedi.
Pochi secondi dopo arrivò anche il bambino, avendo capito che non gliela avrei mai rilanciata.
"Signore! Non mi hai sentito? Perché non mi hai lanciato la palla?"
In quelle domande c'era tutta la sfrontatezza e l'ingenuità dei bambini e non potei fare a meno di guardarlo in volto.
Nell'incrociare il suo sguardo, quando lui si piantò dritto, innanzi a me, aspettando che io gli rendessi la palla, vidi due occhi che non erano di un bambino. Erano due occhi talmente penetranti ed intensi che feci fatica a sostenerne l'espressione, e mi fissavano in un modo tale che, pur volendo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Essi mi trasmettevano un'energia tale che la mia mente fu preda di un turbinoso rimescolamento di pensieri e di ricordi, che si accavallavano, apparentemente senza un ordine logico. Stavo ripercorrendo, in pochi secondi tutta la mia vita e dentro la mia testa si stava facendo ordine. Una luce improvvisa illuminò il mio cervello, qualcosa di straordinario accadde, senza comprendere bene cosa fosse.
Non ricordo quanto tempo trascorsi in questa condizione.
Vidi il bambino battere le palpebre ed io, subito dopo, mi chinai per raccogliere la palla.
Appena mi risollevai, con la palla fra le mani, nell'atto di porgliela, mi accorsi che il bambino non c'era più. Mi girai tutto intorno e sebbene il prato sia molto grande, non vidi nessun bambino che si allontanava o giocava.
Restai inebetito, con la palla fra le mani. Mi sentii confuso e sempre sotto l'azione di quelle strane percezioni, posai il pallone per terra e, come un automa, ripresi ad andare verso la macchia che avevo scelto. Infilai di nuovo la mano nella tasca sinistra e la pistola non c'era più. Al suo posto trovai il mio cellulare. Lo presi, incredulo e sullo schermo c'era un messaggio: "Chiama Adriana!"
Rimasi impietrito e sconvolto e con lo sguardo mi volsi, ancora alla ricerca del "bambino".
Tornai indietro di pochi passi, raccattai la palla, infilai di nuovo la mano in tasca, ripresi il telefono e chiamai Adriana.
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0 recensioni:
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- La storia la trovo banale, e poi a metà già si capisce che non può andare a finire altro che con un miracolo. Invece il personaggio negativo poteva restare tale, dibattersi fino all'estremo, diventare cattivo e crudele, anche con la moglie e il bambino, forse per mostrare meglio e a tutti che era ancora persona.
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