Un led verde lampeggia nella notte e un paio di quegli orribili trilli da sveglia elettronica cancellarono gli ultimi sprazzi di sonno. 6:30. Ora di alzarsi, anche se lui era sveglio da molto tempo. Un forte dolore alla testa lo riportò a riconsiderare tutto ciò che era successo in quegli ultimi giorni.
Tutto era iniziato circa un mese prima, il mattino di un qualsiasi venerdì.
6:30. Suona la sveglia. Quei gesti ripetuti quasi meccanicamente avrebbero annoiato qualsiasi osservatore esterno ma erano la base della vita di un uomo non più giovane col viso segnato dal tempo e dall'apatia che ormai aveva preso il sopravvento.
Se è vero che la vita ha un senso e che quel senso è soggettivo per chiunque, chi non avesse mai visto - se non quella mattina stessa - il signor Bernard Fasman avrebbe pensato che lo scopo della sua vita era unicamente quello di fare un nodo alla cravatta. I penetranti occhi azzurri viaggiavano febbrilmente da un capo all'altro dello specchio, in attesa che le mani facessero il loro lavoro, quel lavoro seccante che Fasman eseguiva con incredibile perizia, fare il nodo alla cravatta.
Una frugale colazione, consumata da solo in piedi vicino al tavolo, era l'unico momento in cui il pensiero dell'uomo si attivava. Non si pensi che Fasman fosse un uomo con scarsa abilità nell'usare il proprio cervello, anzi la sua mente era sempre attiva, attiva ma priva di immaginazione, domande e desideri. Fasman era, o è, difficile a saperlo, un morto dotato di movimento.
Nella vita di Fasman non c'era niente, era vuota. Non c'era scena patetica che potesse risvegliare un sentimento in quell'uomo arido, difficile dire se per cinismo o per indifferenza, ma in fondo queste due possibilità non si sovrappongono in questo caso?
Con la stessa emotività di un blocco di granito prese la bella ventiquattrore di pelle e uscì come ogni giorno per andare a lavoro.
Se Fasman avesse avuto un'auto probabilmente non sarebbe successo nulla, ma, nonostante il ricco stipendio di neurochirurgo, non ne aveva mai posseduta una. Chi pensa che non avesse voluto comprarla per evitare l'impatto ambientale non ha evidentemente capito che parliamo di un egoista. Il motivo per cui non l'ha mai fatto è dovuto al semplice calcolo che gli ha fatto notare che assicurare l'auto, pagare il bollo, rifornirla di benzina e, ovviamente, comprarla, sarebbero state spese superiori a un abbonamento all'autobus.
Con passo moderato, non eccedeva neppure in questo, si recò alla fermata. Su un marciapiede attendeva l'autobus, quando arrivò un vagabondo.
Il disgusto è un sentimento? Se si è uno dei pochi che Fasman provò mai.
Pochi centimetri di distanza separavano i due uomini, ma in quei centimetri un abisso di differenze e di elementi comuni. Da un lato un uomo, dall'altro un relitto umano, ma è difficile dire da quale lato fosse Bernard Fasman.
Ore 7:20, come sempre arriva l'autobus, come sempre è in ritardo. Fasman sale e nel toccare la sbarra di ferro sudicio nasce in lui un forte disgusto. Stranamente anche il vagabondo sale, stranamente ha il biglietto, la cosa turba un po' Fasman.
Fra il ricco uomo in gessato e il povero vagabondo dai vestiti usurati un uomo che legge il giornale. Pigramente Fasman da un'occhiata al giornale del vicino. Morti là, economia in declino, il mondo spacciato, la nascita di un figlio a un'attrice famosa; tutto come al solito. "Bene", pensa Fasman "vuol dire che il mondo gira".
Prima fermata. Un paio di persone scendono dall'autobus, fra queste una graziosa ragazza dai capelli castani, graziosa, tuttavia con un velo di tristezza, o forse di noia, sul viso.
Fasman era stato sposato, ma la moglie non sopportava la sua apatia, la sua rassegnazione alle leggi del mondo.
Fasman era indubbiamente un essere umano, ma non un uomo. La differenza fra questi due termini, spesso sovrapposti, sta nel fatto che l'essere umano è la persona fatta di ossa e carne, mentre l'uomo è colui che si pone delle domande e cerca delle risposte.
Seconda fermata. L'uomo con il giornale deve scendere. Il vagabondo è fra la porta e l'uomo, cerca di spostarsi, ma non gli è facile visto che il tizio con il giornale è piuttosto tarchiato. Dopo svariate manovre da contorsionista il vagabondo riesce a far passare l'uomo. Non c'è più nessuno fra il vagabondo e Fasman.
L'autobus riprende la corsa. A un certo punto la strada gli viene tagliata da un'auto gialla. Frena di colpo. Fasman, che non si aspettava la brusca frenata, cade sul vagabondo.
Il vagabondo, per nulla turbato dall'accaduto, con grande gentilezza aiuta Fasman a rialzarsi. Il contatto, durato peraltro pochi secondi, sembrò a Fasman che fosse durato ore e ore…
Terza fermata.
Benché la costosa clinica privata dove lavorava il neurochirurgo fosse ben lontana dal luogo dove si fermò l'autobus, egli scese lo stesso. Gli altri giorni non sarebbe sceso a quella fermata, avrebbe aspettato la prossima, ma quel giorno il vagabondo era salito sull'autobus e il solo fatto stesso che lui, lui, il prestigioso neurochirurgo, gli fosse sbattuto contro l'aveva sconvolto.
Un sentimento stava nascendo in lui. Un sentimento piccolo, ma presuntuoso. Odio. Fasman odiava il vagabondo, questo è certo, ma proprio perché era un vagabondo, oppure lo odiava perché aveva costretto il suo cervello arido a immaginare, a pensare?
Se si spegne il cervello, se non si immagina, se non si spera si finisce nell'apatia. Se si finisce nell'apatia non si gioisce e non ci si addolora. Fasman aveva raggiunto l'apatia. Per fortuna, anche se alcuni potrebbero pensare per sfortuna, da quel incontro i sentimenti, o quantomeno le idee, di un uomo misero ripresero vita.
Sudore sulla pelle. Una cosa che il chirurgo non provava da tempo. Lui arrivava sempre in perfetto orario. Il volto, sempre freddo e flemmatico, diventava sempre più rosso e il fiato, sempre regolare, sempre più affannato.
Lo sguardo di scherno di alcuni ragazzi si piantò come un pugnale nell'orgoglio dell'uomo. Così, inciampando nella ventiquattrore, pensando tremende bestemmie contro quegli sfaccendati e misurandosi il battito cardiaco a ogni isolato, arrivò in ritardo per la prima volta in venti anni di lavoro.
La tanto pratica quanto anonima e triste clinica privata si stanziava con orgoglio e prepotenza in mezzo al verde che la circondava. L'imponente cancello di ferro battuto dipinto di un orribile verde si aprì quando colui che lì veniva chiamato Dottor Fasman suonò il campanello.
Nel cortile un lussureggiante giardino, una lussureggiante e meravigliosa gabbia per chi la società giudica pazzo.
Un pezzo di carta in una cornice dava a quel uomo una qualifica in più dei comuni mortali. Come può una cosa di così poco valore materiale dare tanto rispetto a un uomo? Come possono cinque parole dare una carica a un uomo? Che uomo è chi si sente al di sopra di un suo simile perché ha in una cornice il proprio nome seguito da "… Dottore in neurochirurgia…"?
Ad alcuni piace considerare il proprio lavoro come una missione. A Fasman piace considerare il proprio lavoro come una fonte di guadagno.
Per il cortile molti individui in camicie bianco ne conducevano altri. Per il cortile venivano condotte molto persone con un accappatoio su un anonimo pigiama.
Le persone con i camici bianchi non ridevano mai, i loro volti erano tristi e freddi. Alcune persone con gli accappatoi ridevano, altre sorridevano. Difficile dire se gioia o malattia.
All'entrata della clinica una bella donna con degli occhi lontani e freddi come ghiaccio dava le indicazioni ai visitatori. L'eccessiva magrezza, dovuta a creme, consulenze e diete, la faceva apparire più sinistra di quanto non fosse. L'eccessiva magrezza del vagabondo che, come crema, usava la tintura di iodio che gli applicavano in ospedale al momento di strappargli dell'altro sangue, le consulenze degli sguardi carichi d'odio della gente e le diete forzate dovute alla povertà, lo facevano apparire più vicino a un cadavere che a un uomo.
Una porta uguale all'altra. Un nome diverso dall'altro. Un uomo, dentro quelle stanze tutte uguali, simile a qualunque altro e diverso da chiunque.
Le belle scarpe in pura pelle proveniente dall'Italia facevano un allegro scricchiolio, mentre le suole strisciando sul pavimento perfettamente pulito facevano un altro rumore, in quello che si poteva anche definire una sorta di melodia orchestrale.
Venti metri quadri di ceramica formavano lo studio del chirurgo. Il mobilio, molto semplice, quasi spartano, era composto da una vecchia scrivania in legno di noce, che stonava terribilmente con il resto della stanza, un paio di sedie in finta pelle e una sedia più alta. Un trono che permetteva al medico di vedere dall'alto in basso chi gli stava di fronte.
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Occhi verdi e duri. Una cravatta nera a righe verde scuro, un abito grigio e un paio di eleganti occhiali da miope posati sul naso adunco. Un volto apparentemente normale. Il volto di un cadavere. Era così che Fasman ricordava il suo più caro, e forse unico amico. In realtà Richard Stevenson era qualcosa di più. Sono tanti i motivi che possono spingere un bambino di dieci anni a diventare amico di un vecchio di sessant'anni. Erano passati molti anni, ma ricordava tutto distintamente. Un giorno tornando da scuola, uno zaino aveva fatto un volo oltre una recinzione. La zaino era quello di Robert Fasman, all'epoca senza laurea e forse con minore apatia, la recinzione era quella che portava al giardino di Richard Stevenson, allora ancora in piedi. Stevenson era un chimico appassionato di botanica, il suo giardino era meraviglioso. Da destra iniziavano le peonie, più avanti, nelle calde serate d'estate, sbocciavano le belle-di-notte, e come tanti fiocchi di neve perenne, i gigli.
Tutti conoscevano il vecchio Stevenson, ma tutti lo conoscevano con quella conoscenza superficiale che spinge a odiare una persona, o a temerla.
Fra le goliardie dei ragazzi del paesino di Fasman, quella che riscuoteva più successo era quella di suonare il campanello del vecchio, o di rubargli i fiori coltivati con tanta dovizia per vedere il sorriso sul volto di una ragazza. Un altro atto, meno goliardico e più vigliacco, era prendersela con chi non poteva, o non voleva, difendersi.
Spesso Fasman era tornato a casa con brutte ferite e abiti stracciati. La vigliaccata del giorno era stata lanciare lo zaino oltre la cinta.
C'è un qualcosa di magico, quando gli occhi di un uomo perseguitato dai suoi simili, per un motivo o per l'altro, incontrano, quelli di un altro perseguitato che non lo guarda con odio. La carità, nel suo significato più puro, è strana, a volte prende le vesti di un messia, a volte si accontenta di quelle di un bambinetto con gli occhi azzurri.
Sessanta secondi sono molti per un uomo. Quarant'anni sono pochi per la memoria. Sono ancora meno per chi non ha molto da ricordare.
Dalle vesti del chimico proveniva un forte odore di zolfo o di chissà quale altra sostanza, le mani, grandi e rovinate, davano un'idea di vigore mantenutosi intatto negli anni, gli occhi incavati e duri mettevano soggezione e paura.
- B-Buongiorno…- disse il bambino.
Stevenson non rispose, si limitò a squadrarlo da capo a piedi e a ricaricare la pipa.
- Sono venuto a riprendere lo zaino… L'hanno lanciato oltre il suo recinto…
Non rispose neanche ora, così il bambino pensò bene di girare e andar via…
- "Se la miseria è grande l'uomo è ancora più grande"- disse improvvisamente l'uomo - ragazzo, sai chi l'ha detto?
Fasman visibilmente scosso si girò verso lo sconosciuto e disse di no, di non sapere chi l'avesse detto.
- Perché il tuo zaino è nel mio cortile?
Il bambino spiegò cosa era successo. Il vecchio inarcò una sopracciglia, ma questo fu tutto ciò che fece.
- Entra - disse improvvisamente, spostandosi per farlo passare.
Si affrettò a fare come aveva detto il padrone di casa.
L'ingresso era una bella stanza con un pavimento in legno di mogano. L'arredamento era estremamente semplice, due poltrone di pelle scura vicino a una bella libreria piena di libri dai titoli più disparati, libri che raccoglievano nozioni di chimica, biologia, letteratura e almeno un esempio di qualunque cosa lo scibile umano abbia mai prodotto.
In un angolo, accanto a un portaombrelli, stava sdraiato un vecchio cane dall'aspetto malaticcio. Vedendo arrivare un visitatore aprì gli occhi, ma la vecchiaia non gli concesse di fare di più.
Attraversarono l'entrata e si ritrovarono in bagno, qui Stevenson prese della tintura di iodio e prese a disinfettare le ferite del piccolo ospite. Dopo averlo medicato lo bendò.
Uscirono dal bagno e andarono sul retro, dove c'era il cortile.
Preso lo zaino si avviarono verso il portone principale.
Fasman aprì la bocca per ringraziare, ma non uscì che un flebile suono.
- Prego - rispose Stevenson.
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Le memorie di Fasman furono interrotte dall'infermiera che veniva a chiamarlo per un intervento.
- Arrivo - disse e si incamminò con lei.
Il caso era quello di una donna sulla trentina colpita da un tumore al lobo temporale. Fasman godeva di una grande considerazione da parte dei colleghi, che vedevano nella sua professionalità l'incarnazione di Ippocrate.
Il segreto della bravura di Fasman stava, oltre che nelle proprie mani e nella propria intelligenza, nella freddezza e nell'obbiettività con cui svolgeva il proprio lavoro. Chi era quella donna? Non lo sapeva, non gli interessava saperlo. Sarebbe morta? Certo, tutti moriremo. Voleva salvarla? Voleva salvare sé stesso, se l'avesse uccisa avrebbe potuto essere accusato di negligenza.
Con tutta probabilità sul suo tavolo erano passate persone famose o criminali incalliti. C'era questa possibilità, ma non gli importava. Spesso dietro quegli uomini o donne c'erano famiglie. Non gli importava, non lo aiutava sapere che alcuni avrebbero sofferto per una sua distrazione. Doveva essere lucido e freddo e lo era, fino a quell'intervento almeno.
I ricordi, la stanchezza e il nervosismo possono fare sbagliare anche i grandi uomini. Fasman non era un grand'uomo. A tutti capita di sbagliare. Capita ai bancari di sbagliare addebitando venti dollari in meno. Capita. Capita ai fisici di sbagliare calcolando male la distanza Terra-Sole. Capita ai neurochirurghi di sbagliare tagliando così il sottile filo che divide la morte dalla vita.
Della vita di una donna non era rimasto che il nome all'anagrafe, il ricordo nei cuori e un triste bip su uno schermo.
Non era la prima volta che Fasman vedeva morire qualcuno. Omicidi, ne aveva visti in televisione, suicidi, spesso anche dal vivo, morti per errore, ne aveva visti troppi.
12:30. Il pesante orologio da polso segnava l'ora di pranzo.
Gli occhi guardavano il vuoto. Il viso era rivolto al nulla. Le mani pensavano solo a versare dell'altro brandy nel bicchiere. Le labbra esangui vibravano.
Gli era successo altre volte. Gli era successo altre volte di sbagliare, raramente, ma era successo. Una donna di cui non conosceva il nome era morta. Una donna che per lui non aveva volto era morta.
Il giorno prima tutto ciò non gli sarebbe importato. Oggi si.
Le sottili mani da pianista avevano abbandonato il bicchiere e ora abbracciavano la testa dell'uomo.
- La gente muore, capita. Non potevo fare di più di ciò che ho fatto. - Ripetendosi mentalmente questa litania cercava di scacciare i sensi di colpa.
Finalmente si accorse di che ore fossero. Decise di andare a mangiare un boccone, si era già disperato abbastanza e non mangiare avrebbe solo peggiorato la situazione.
Ci sono creature e ci sono uomini. Le creature hanno il potere di distruggere, sono sottili, usano le parole, gli sguardi, sono deboli, possono trovare la felicità solo nella disgrazia e nella sofferenza altrui. Charles Taylor era una creatura.
Charles Taylor, trent'anni portati male, varie migliaia di dollari in conti svizzeri portati benissimo.
Figlio di papà, Hammett lascia la scuola a diciotto anni e ne passa cinque a gozzovigliare e a fare bravate. Rinsavito grazie alla paura della diseredazione, a ventiquattro anni riprende gli studi in una facoltà cuscinetto. Entrato a far parte, tramite raccomandazioni e mazzette, nella clinica di un amico di suo padre ha scalato le tappe che lo hanno portano al posto di responsabile del settore di neurologia. Tutto questo senza nemmeno sapere a cosa serve neanche il proprio cervello.
Daniel Hammett, sessant'anni portati e basta.
Figlio di qualcuno, Taylor non è un uomo è un braccio. Con un diploma in tasca si iscrive in medicina sperando di ottenere una borsa di studio, non la ottiene. Cerca lavoro nella stessa clinica dove lavorano Fasman e Hammett, che però non ci lavoravano ancora. Non trova lavoro che come inserviente. Un giorno viene visto dal padrone di tutta l'impresa, che contava altre cliniche in svariate parti del mondo, e viene assunto come autista.
Prima doveva mettere una rete nei capelli, indossare guanti e grembiule e guadagnare una miseria. Ora indossa ricchi abiti, guadagna una miseria e si deve togliere il cappello davanti al datore di lavoro. Prima non si doveva togliere il cappello davanti a nessuno.
Quel giorno Hammett aveva scelto Fasman come bersaglio delle sue angherie.
- Buongiorno Bernard - disse Hammett prendendo un vassoio e mettendosi in fila dietro di lui in mensa.
- Taylor - rispose Fasman, che, nonostante l'anzianità e il prestigio che godeva presso la clinica, chiamava per cognome i superiori.
- Quante volte ti devo dire di chiamarmi soltanto "Charles"?
Fasman non rispose.
- Comunque - ingaggiò Taylor - per quella donna… - Fasman si fece più attento mentre l'altro parlava - Sapevi che era incinta? Sissignore, un bel maschietto di tre chili, un vero peccato che non vedrà mai la luce, vero?
Gli occhi di Fasman si sbarrarono mentre le dita tenevano così forte il vassoio da diventare bianche. Contento di aver raggiunto il proprio scopo Taylor salutò e fece per andarsene quando l'altro l'afferrò per una manica.
- Aveva altri bambini? - chiese dopo un paio di secondi.
- Mi pare di aver visto una bambina nell'atrio… - rispose la creatura.
La conversazione con Taylor l'aveva sconvolto, prese il vassoio e si andò a sedere in fondo, da solo.
Lì, seduto su una sedia con davanti un brutto tavolo di plastica, concesse al suo cervello di pensare.
Non tanto il dolore fisico uccide l'uomo quanto ciò che ha dentro lo fa in maniera più subdola. Il fatto che Fasman stesse soffrendo per un'altra persona era un segno che stava ritrovando la propria umanità? E se la stesse ritrovando, questo è un bene o un male?
La testa nelle mani, l'uomo nella mente, il sangue nelle viscere e il corpo nei vestiti. Così sembrava uguali a tanti, ma l'uomo che vagava nei propri pensieri era diverso da tutti. L'uomo che vagava nei propri pensieri stava piangendo lacrime amare per la morte della donna. Così sembrava diverso da tanti, ma il-corpo-nei-vestiti era uguale a tutti.
Il-corpo-nei-vestiti manteneva la sua austerità e la facciata raramente si incrinava, mai si rompeva.
Si alzò senza aver mangiato niente e se andò a casa, non poteva lavorare quel giorno.
Alla fermata dell'autobus tanta gente, era l'orario in cui la gente usciva da lavoro per andare a pranzare. Tante facce tutte uguali, tante facce grigie e tristi, tante facce anonime e vaghe. Tanti uomini, dietro quelle facce, tutti diversi, tanti uomini, dietro quelle maschere, felici anche di essere solo vivi, tanti uomini, dietro quei sipari, speciali e unici.
Non riconosceva nessuno, fatta eccezione per la graziosa ragazza dai capelli castani, quella che oggi aveva visto nell'autobus. Probabilmente quella ragazza era sempre salita sul suo stesso autobus, probabilmente l'aveva sempre vista, ma non l'aveva mai guardata.
La ragazza, notando lo sguardo puntato su di lei, decise di andare a parlare con l'uomo.
- Ha bisogno di aiuto? - chiese la ragazza, vedendo che Fasman aveva lo sguardo perso nel vuoto e un volto stanco.
- Come?
- Pensavo avesse bisogno di aiuto…
- No, grazie non ho bisogno di niente.
- Ma lei sta tremando…
- Signorina, la ringrazio ma le ripeto che non ho bisogno di nulla.
- D’accordo, mi scusi… - disse infine la ragazza e si allontanò…
A Fasman dispiacque di essere stato così duro con la ragazza, ma aveva bisogno di star solo a riflettere.
Dopo che la ragazza se ne fu andata si accorse che stava veramente tremando. Si accostò la mano alla testa per misurare la temperatura, se la ritrovò bagnata di sudore.
Le voci che diventavano più forti, l'aria che diventava spessa, la voglia di urlare, le labbra che si muovevano senza che uscisse suono, poi il vuoto.
****
Fasman si sveglia.
È in una grande stanza grigia, e in un buio angolo vede una donna. Una donna vestita con un camice bianco, ha un velo sul viso ed è incinta.
- Ti conosco - disse la donna.
- Chi sei? - chiese Fasman impaurito.
- Non mi riconosci?
- No
- E come potresti? infondo io non sono che un'ombra…
- Dove sono?
- Sei in un pericoloso limbo dove si decide della tua vita…
- Nessuno decide della mia vita all'infuori di me! - disse Fasman accalorandosi.
- Tu hai deciso della tua vita e di quelle di molte altre persone di cui ignori anche il volto…
- Tu sei la donna che ho ucciso?
- Ritorna all'inferno da cui provieni Bernard Fasman e sfrutta bene l'occasione che ti è stata data.
****
Un forte mal di testa accompagnò il risveglio dell'uomo.
Prima ancora di aprire gli occhi riconobbe, dall'odore, il clima d'ospedale.
I freddi occhi azzurri saettarono per la stanza e notarono subito la flebo attaccata al braccio, più in là, su una sedia, la ragazza della fermata che leggeva un libro.
- Come sta? - chiese la ragazza.
- Perché sono qui?
- È svenuto, così ho chiamato un'ambulanza e l'hanno portata qui…
- Signorina, lei ha fatto ciò che probabilmente nessun altro avrebbe fatto e gliene sono grato, e le sarei ancora più grato se mi dicesse il suo nome…
- Monique Perine
- Beh, credo che non la ringrazierò mai abbastanza…
Entrò un medico che invitò la signorina Perine a uscire.
- Quanti anni ha? - chiese il medico dopo i controlli di routine.
- Cinquanta
- Il suo gruppo sanguigno?
- AB
- La signorina le ha salvato la vita…
- Come?
- Lei si è abbassata la pressione, e alla sua età può essere molto pericoloso…
- Mi avete somministrato qualche droga?
- No, perché?
- No, niente… - concluse Fasman.
Dopo che il medico se ne fu andato Fasman ringraziò la ragazza, a cui fu chiesto dai medici di lasciarlo riposare.
- Cosa mi sta succedendo? - pensò, quando rimase solo nella stanza.
Un orologio da muro scandiva le ore con un incessante ticchettio che martellava il cervello già provato dell'uomo.
Le 18. 00. Aveva veramente dormito per più di cinque ore? Gli arti indolenziti dicevano di si, ma lui non riusciva a pensarci.
- Solo un sogno, un sogno niente di più… - si ripeteva Fasman cercando di autoconvincersi.
Decise di alzarsi, si sentiva abbastanza bene e comunque rimanere a letto lo faceva sentire debole e lo faceva arrabbiare.
Aggrappandosi all'asta a cui erano attaccate le flebo si mise a sedere sul letto. L'operazione fu penosa e richiese circa cinque minuti. Facendosi forza, orgoglioso di aver raggiunto quel traguardo che non pensava nemmeno di poter sfiorare, decise di alzarsi. Il cervello voleva che le gambe mettessero il corpo in piedi, ma il corpo, che non aveva la stessa forza di volontà del cervello, rimase fermo. Ci provò ancora tre volte e, finalmente, ci riuscì. Restò in piedi circa due minuti, prima di finire con la faccia a terra.
Si rialzò maledicendo le sue gambe e tutto il resto del corpo. Sentendo il rumore le infermiere accorsero pensando che fosse successo qualcosa al paziente. Preoccupate per la sua salute lo invitarono a riposare.
****
- Cosa è questa? - chiese il piccolo Bernard Fasman
- Quella? È una storta, si usava per raffinare i prodotti chimici - rispose Stevenson
- Come si usa?
- Non si usa più, ormai ci sono macchinari migliori…
Erano passati alcuni giorni dall'episodio dello zaino e i due perseguitati erano diventati amici, il bambino insegnava al vecchio i valori dell'innocenza e il vecchio insegnava al bambino i valori dell'esperienza.
C'erano fra i due molti anni di differenza, ma loro sembravano non sentirli.
- Chi è? - chiese un giorno Fasman al suo maestro di vita, indicando la foto di un uomo esile con degli occhiali molto larghi sul viso scarno.
- Quello è un uomo che ha cambiato il mondo…
- Come si chiamava?
- Non è tanto chi siamo, ma ciò che facciamo che ci qualifica come uomini, quindi non chiedermi chi fosse, ma cosa ha fatto per essere così importante…
- Chi era?
- Era un uomo che sopportando i colpi di sfollagente, la fame e gli sputi ha liberato il proprio paese e ha dato un importante lezione al mondo.
- Qual era questa lezione?
- Un giorno la scoprirai e quel giorno capirai molte cose…
****
- Perché i miei sogno sono così tormentati? Perché mi ritorna in mente il volto di quel pazzo? - pensava Fasman appena svegliato.
Il cervello dell'uomo provava rabbia, ma il cuore guardava l'alba.
Passarono i medici e decisero che poteva uscire, quindi raccolse le sue cose e si avviò verso l'uscita dove rivide la signorina Perine.
- Buongiorno! - disse con gioia la ragazza.
- Buongiorno signorina…
- La prego mi chiami soltanto Monique…
- D'accordo, Monique
Ad aspettarli, davanti l'ospedale, c'era un taxi.
- Mi spiace, ma non avendo la macchina… - disse la ragazza.
- Non si preoccupi
Salirono sul taxi. Nonostante le proteste di Fasman la ragazza lo accompagnò a casa.
Lo fece appoggiare al suo braccio finché non arrivarono all'ingresso.
- Mi prometta che riposerà - disse Monique.
- Ho riposato abbastanza per oggi, piuttosto vorrei invitarla a bere un caffé…
- Accetto volentieri
Entrarono nel sontuoso atrio, dove c'era uno strano odore di gelsomino misto a qualcos'altro. La stanza era molto illuminata, la luce proveniva da delle grandi finestre che si aprivano sul piccolo giardino. La stanza era spoglia di mobili, in compenso c'erano svariati quadri e un bel tappeto.
Fasman invitò la signorina Perine a sedersi su una sedia in cucina, visto che non riceveva molte visite non aveva delle poltrone per gli ospiti, mentre lui armeggiava con la caffettiera.
In pochi minuti la piccola stanza si riempì dell'odore del caffé. Prese una presina e versò la bevanda in due tazze bianche.
- Quanto zucchero? - chiese l'uomo prendendo la zuccheriera.
- Niente, grazie
Fasman calcolò mentalmente la quantità ideale di zucchero da versare nel caffé. Un cucchiaino e mezzo.
Di fronte a quella tazza di caffé, che non vedeva altro essere umano, oltre a Fasman e la sua domestica, da anni e anni, si sciolsero discorsi banali fatti con i mattoni della fredda gentilezza, anziché della vera amicizia.
Erano circa le 11 del mattino, quando i due si lasciarono.
Dopo che la ragazza fu uscita fece un rapido controllo della pressione. Era nei parametri.
Decise di fare una robusta colazione, per rifarsi del cibo dell'ospedale.
Prese due toast e li mise nel tostapane, prese il burro dal frigo e anche un paio di arance. Aveva voglia di pancetta e, anche se ciò contravveniva alla sua dieta povera di grassi, la mise a friggere in padella.
Era domenica, quindi poteva mangiare tranquillamente. Mangiò con appetito e, siccome non aveva altro da fare, decise di provare il tapis-roulant che aveva comprato un paio d'anni fa e non aveva mai usato.
Dopo circa quindici minuti capì che quella era un'idea idiota.
Si fece una doccia e decise di uscire a fare una passeggiata.
Andò al parco, perché non sapeva in quale altro posto andare. Lì su una panchina, a poca distanza da una fontana a forma di angelo, dormiva il vagabondo della fermata.
Qualcosa scattò nella mente di Fasman. Un odio feroce e piantato con forza nel cuore dell'uomo. Un odio che lo porto ad avvicinarsi al vagabondo.
- Chi sei? - urlò Fasman all'incredulo vagabondo che nel frattempo si era svegliato.
Molte persone si girarono a guardare la scena.
Il vagabondo non rispose, si limitò ad alzarsi.
- Chi sei? - ripeté inferocito Fasman.
Il vagabondo fece dei segni con le mani, ma non disse una parola.
Fasman sentendosi preso in giro colpì il volto dell'uomo con il pugno destro.
L'altro, che non mangiava da due giorni, barcollò. Altra gente si stava avvicinando per vedere la scena, ma nessuno cercò di dividere i due litiganti.
Arrivò un poliziotto a cercare di allontanare Fasman dal vagabondo. Fasman incurante delle parole del poliziotto cercava di aggredire il vagabondo che cercava di scappare. Allora l'uomo in divisa afferrò l'uomo in ricchi abiti e il morto di fame per portarli. Fasman si ribellò alla stretta e allora il poliziotto lo colpì con il "Taser".
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Fasman si risvegliò nella stessa stanza grigia del sogno precedente.
Questa volta non c'era la donna incinta, al contrario c'era un uomo sulla sessantina, che, nonostante l'età, mostrava un fisico tonico, tipico di chi è stato iniziato troppo presto al lavoro.
- Chi sei? - chiese Fasman
- Sei cambiato ragazzo, ma pensavo che ti ricordassi di me…
- Stevenson? - chiese Fasman che aveva riconosciuto il vecchio amico.
- Per te, "Signor Stevenson"! - disse Stevenson colpendo Fasman con un gancio.
Il pugno colpì in pieno lo zigomo di Fasman, ma le parole fecero più male.
Non tanto l'imponenza di quel corpo faceva paura a Fasman, quanto quegli occhi duri, capaci da sempre di metterlo in ginocchio.
- Non ti ho insegnato ad avere rispetto? - disse Stevenson
- Mi hai anche insegnato a non risolvere i problemi con la violenza…
- Dammi del "lei", ragazzo - disse mentre un altro pugno si abbatteva sul viso di Fasman
- "Parla ai tuoi nemici, le parole fanno più male dei pugni", questo mi HA insegnato - disse, soffermandosi particolarmente sul "HA".
- Mi limito a farti vedere cosa hai fatto a quel vagabondo…
- Mi ha provocato!
- Quarant'anni hanno trasformato un bimbo di dieci anni in un cinquantenne attaccabrighe?
- Sta zitto! Non sei che un pazzo!
- Ciao Bernard, ciao… - disse scagliandogli un pugno in pieno petto, all'altezza dello sterno.
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Si risvegliò in una cella con un forte dolore al viso, come se qualcuno l'avesse preso a pugni.
In quella cella c'era un qualcosa d'infernale, un qualcosa capace di ucciderti senza sfiorarti. Il grigiore di quella cella, le sbarre che ti facevano vedere la libertà senza però poterla toccare, l'attesa di un giudizio, che di per sé era già una tortura, che ti toglie la libertà di essere libero.
Nelle altre celle non c'era nessuno, ma a Fasman non importava, la cosa più importante era capire cosa gli era successo. Perché aveva colpito quel vagabondo? Perché i suoi sogni erano tormentati? Ma erano davvero sogni? Il dolore alla faccia faceva pensare che avesse davvero ricevuto davvero dei pugni. Nella cella non c'era né uno specchio, né un lavandino dove potersi specchiare. Ma anche se ci fosse uno specchio non avrebbe guardato, perché aveva paura di quello che sapeva di essere.
Stava ancora facendo questi ragionamenti quando entrò una guardia. La guardia era piuttosto esile, e i suoi occhi non erano abbastanza forti da scavare dentro le persone. Sembrava un ragazzo molto timido. L'enorme pistola che portava alla cintura gli dava un senso di superiorità e di comando. Almeno era quello che pensava.
I due non si dissero una parola. La guardia aprì la porta della sua cella e disse che Fasman poteva uscire, ma non parlò al prigioniero, bensì al muro alle sue spalle.
In silenzio Fasman si alzò e si diresse fuori. Aveva ancora i suoi vestiti, quindi prese il portafoglio e le altre cose e uscì dal commissariato.
Ad aspettarlo davanti la porta c'era Daniel Hammett nella sua tenuta da autista. Allora Fasman capì chi aveva pagato la cauzione.
Hammett lo condusse fino alla limousine. Fasman aprì la portiera e vide Charles Taylor intento a fumare un sigaro.
- Buongiorno Bernard - disse gioviale Taylor
- Buongiorno Taylor - disse mesto Fasman.
- Per te, amico mio, solo "Charles" - replicò Taylor - ti hanno detto? Quando alla clinica si è saputo in che situazione ti trovavi abbiamo fatto di tutto per aiutarti, c'è voluta qualche telefonata e tremila dollari di cauzione, sai, siamo riusciti a insabbiare la rissa, ma colpire un pubblico ufficiale in servizio…
- Grazie - disse Fasman, senza tuttavia provare gratitudine.
- Per cosa? Bernard tu sei il miglior medico della clinica, non potevamo permettere che tu andassi in carcere, portandoti così nel fango anche il nome del tuo capo…
- Uhm… Quando hai comprato questa?
- La limousine? È di papà, non potevo uscire con la mia macchina, tutti qua la conoscono, non sarebbe certo passata inosservata..
- Invece una limousine…
- Beh, è vero è molto vistosa, ma almeno ha i finestrini oscurati…
****
Fu accompagnato a casa.
Era da poco passato mezzogiorno, ma non aveva né fame né voglia di mangiare. Aveva voglia di vomitare. Era stato tirato fuori dai guai da Charles Taylor. La cosa gli faceva schifo.
Prese una bottiglia da un mobile della cucina. La guardò. Il liquore era così scuro che non riusciva a vedere, sotto la bottiglia, la sua mano.
Prese anche un bicchiere. Lo riempì. Aspettò dieci minuti, indeciso se berlo o meno. Rinunciò al liquore.
Scese una rampa di scale, che lo portarono direttamente davanti una grossa porta di legno. Alla serratura c'era appesa una grossa chiave. La mano di Fasman la prese e la girò. Il volto di Fasman era sudato, le mani tremavano, il cuore batteva veloce e la mano destra si aggrappava alla chiave con disperazione e paura.
Spalancò la porta. L'odore di chiuso e di muffa lo colpirono alla sprovvista e lo fecero quasi vacillare. Scosse la testa, come per risvegliarsi e camminò a grandi passi.
In un angolo ancora più angusto degli altri, c'era una scatola per biscotti. Non era che una semplice scatola di biscotti, una semplice scatola di latta con il marchio di una qualsiasi azienda. Quella scatola non conteneva più biscotti, conteneva bensì l'altro Bernard Fasman.
****
Richard Stevenson stava tornando a casa quella sera, dopo essere stato a comprare il tabacco per ricaricare la pipa.
Stevenson diceva sempre che non sarebbe stato il fumo a ucciderlo. Infatti. A ucciderlo fu una calibro trentotto.
Stava camminando, quando da un vicolo spuntano due ragazzi sui venti.
Uno gli stringe il collo con il braccio e lo tira nel vicolo, l'altro si mette fra Stevenson e l'uscita del vicolo, per non farlo scappare.
- Molla i soldi! - disse il ragazzo che lo aveva preso per il collo e che ora lo stava perquisendo, mentre l'altro lo teneva sotto il tiro della pistola.
- A cosa ti servono i miei soldi? - chiese Stevenson che, nonostante la pistola puntata, aveva una voce e un aspetto che non lasciava trasparire nessuna emozione, tranne il disgusto.
- Ho detto molla i soldi! Dove sono?
- Come sei arrivato a questo? Come sei arrivato a rapinare un vecchio? - chiese l'uomo, e mentre parlava prese un braccio del ragazzo che lo stava perquisendo e gli alzò la manica.
- Lasciami! - replicò il ragazzo ritirando il braccio.
- Cocaina? L'astinenza è così dura da mettere a tacere la tua morale?
- Sta zitto vecchio! - disse il ragazzo con la pistola.
- Calma John! - replicò il ragazzo che stava perquisendo Stevenson.
- Bravo! Digli anche dove abito!
- Cosa c'è? Hai più paura di una prigione di sbarre anziché di una di siringhe? - disse con tono di rimprovero Stevenson.
- Sta zitto! - disse John, mentre il suo dito sfiorava il grilletto e una pallottola partiva verso il torace del vecchio.
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Fasman aprì la scatola. Dentro un paio di foto e un quadernetto.
Le foto erano in bianco-nero, alcune parti erano state distrutte dal tempo, ritraevano persone felici. Lo specchio di una felicità passata.
Il quadernetto conteneva appunti scritti con una calligrafia infantile e delle foglie.
Fasman odiava e, allo stesso tempo, temeva quei ricordi. Ricordi di una vita passata e di uomini morti.
Era stata la morte di quegli uomini a uccidere Fasman, a ucciderlo nella parte più interna e vitale. Il pensiero.
Ci sono molti modi di soffrire e di fuggire alla sofferenza. Fasman cercò per sé il peggiore, chiudersi in un mondo fatto di mattoni chiamati cinismo, egoismo e rabbia.
Prese una foto. C'erano ritratti lui e Stevenson. Quella foto era stata scattata pochi giorni prima dell'omicidio di Stevenson.
Erano passati circa quarant'anni da quando Fasman, tornando da scuola, aveva visto nel vicolo il corpo ormai freddo dell'uomo.
La morte di Stevenson era avvenuta la sera prima del ritrovamento del corpo e se non fosse stato per un bimbo di dieci anni che passava di lì probabilmente non sarebbe mai stato ritrovato.
Quel quartiere così rispettabile alla luce del sole, la notte rigurgitava uomini pieni di odio, paura e omertà.
Lo sparo era stato forte. Gli ansimi e le urla dell'uomo colpito avevano squarciato la tiepida notte estiva. Nessuno si mosse per aiutare il ferito. Fu così che morì Richard Stevenson, ucciso da un colpo di pistola che l'aveva preso fra le costole, vedendo le stelle oscurate dalle luci dei lampioni e sentendo intorno a sé l'aria appesantita dallo smog.
Vedere un uomo esangue, colpito e lasciato morire al pari di un cane sconvolge un uomo. Vedere il proprio maestro e mentore esangue, sporco di polvere, ucciso per ricavare venti dollari, uccise l'animo fragile del bambino.
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- Siamo degli assassini! John, abbiamo ucciso un uomo, la polizia ci starà cercando!
- Zitto! - replicò John al suo complice mentre fuggivano per le stradine deserte - Bah, venti dollari… Sicuro che non ci fosse altro?
- Non lo so… Troppo sangue… Abbiamo ucciso un uomo!
- Vuoi farlo sapere a tutto il quartiere? Non potevamo fare altro, ci ha visti in faccia… Perché non l'hai colpito agli occhi?
- Non lo so… Non lo so…
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"SIRINGHE INSANGUINATE!" questo recitava il titolo dell'articolo di giornale che parlava della morte di Stevenson, oltre a questo, alle foto e al quaderno nella scatola c'era anche un misero necrologio.
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Fasman non andò più nella vecchia casa, si limitava ad osservarla dalla finestra, vedendo della gente che faceva a pezzi le vetrate. Più tardi arrivarono gli sciacalli. Si muovevano in gruppo come gli omonimi animali, ma questi erano più feroci. I pezzi di antiquariato, i mobili e tutto il resto sparì senza lasciare traccia.
Fasman vide dalla finestra un altro tipo di sciacalli. Uomini in giacche eleganti modellate sulle spalle grasse entravano non rompendo vetri, ma aprendo le porte con le chiavi. Avevano un taccuino su cui annotare il valore della casa e non avevano certo paura di tornare a casa e non trovare niente nel piatto. Notai, avvocati e una moltitudine di uomini simili a quelli con i taccuini visitarono la casa. Giorni dopo arrivarono semplici uomini il cui unico scopo era impadronirsi delle ricchezze del parente defunto, ma nulla indicava la sofferenza degli uomini e nessuna lacrima cancellava il trucco delle donne.
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Gli occhi gli uscivano dalle orbite e le mani tremavano. Quello che prima era solo una stupida litania ora stava diventando un urlo di dolore e di rabbia. "Stevenson… Stevenson…" ripeteva a voce sempre più alta. Il viso dell'uomo diventava sempre più bianco e la bocca smise di parlare per esibirsi in una smorfia di pazzia. La cantina era silenziosa, non c'era nessuno all'infuori di Fasman, tuttavia lui sentiva delle voci nella testa.
Un urlo squarciò il silenzio e portò via un po' di paura dal cuore di Fasman. Senza neanche accorgersene strappò la foto che ritraeva sé stesso e Stevenson. Lo strappo divise i due uomini, ma non fu netto e il braccio di Stevenson rimase appoggiato alla spalla di Fasman con fare paterno.
Non era un uomo superstizioso, per Fasman esisteva sempre una spiegazione scientifica e anche se per ora non la si poteva dare, l'umanità progredendo avrebbe spiegato. Non era superstizioso, ma in quella scatola c'era un qualcosa che non gli permetteva di pensare razionalmente. Il dolore racchiuso nei ricordi di giorni felici.
Incerto sul da farsi, si fermò sulla porta. Era attento, voleva essere sicuro di avere il controllo della situazione. Silenzio. Deglutì il vuoto e poi mosse la gamba con un movimento strano e innaturale.
Risalì lentamente le scale, guardandosi attorno spaventato. I gradini non vollero ruppere il silenzio e evitarono di scricchiolare.
Andò in bagno e prese un sonnifero dall'armadietto dei medicinali. Aveva capito che le risposte che voleva le poteva ottenere solo in sogno.
Si distese sul divano e ingoiò due pasticche. Si addormentò dopo pochi minuti.
****
Si risvegliò dopo qualche ora, riposato ma senza aver sognato nulla. Non capiva perché nessuno fosse venuto a parlargli. Rimase con gli occhi chiusi per assaporare gli ultimi attimi di sonno.
- Sai, dopo quarant'anni questa pipa funziona ancora bene… - disse una voce che proveniva dalla poltrona di Fasman.
L'uomo aprì gli occhi e guardò in direzione della poltrona. Non capì subito chi era, perché gli occhi appena aperti dovevano abituarsi alla luce, ma comunque distinse una sagoma imponente.
- Stevenson! - urlò Fasman sorpreso, appena gli occhi gli consentirono di riconoscere il volto dell'uomo.
- Perché urli?
- Hai ragione, è normalissimo che un fantasma si trovi a casa mia, sulla mia poltrona a fumare la pipa… - disse con ironia Fasman.
- Dimenticavo che preferisci essere normale, per questo hai strappato la foto, per essere cinico, per uniformarti alla massa e dimenticare il presente… Ti rendi conto di non avere diciassette anni, vero?
- Questo umorismo facile non è da te, comunque che vuoi?
- Sei stato tu a cercare di contattarci, quindi lo dovrei chiedere io a te…
- Perché non mi avete contattato nel sogno?
- Con chi credi di avere a che fare? Non siamo il servizio abbonati, decidiamo noi quando venire!
- Che mi sta succedendo?
- Hai messo a tacere il tuo cervello, la tua morale e la tua coscienza e ora hanno deciso di ribellarsi…
- Idiozie! La verità è che tu non esisti! Già deve essere così, la prima volta è stata colpa della pressione, la seconda della scossa e ora dei sonniferi…
- Hai mai sentito di persone che in seguito a queste cose che hai elencato hanno avuto visioni?
- Se tu sei reale, di cosa sei fatto? - chiese Fasman con una sicurezza tale che rasentava l'impertinenza.
- Io? Dell'essenza della vita, lo spirito, tu invece sei fatto di cinismo, egoismo e omertà...
- Certo, perché ora vuoi dire che siamo fatti di sentimenti…
- In un certo senso si…
- Siamo fatti di proteine, vitamine e cose simili!
- Da quando in qua guardi le cose in maniera unilaterale?
- Cosa erano quelle voci che ho sentito in cantina? - chiese Fasman ignorando la domanda.
- Le voci di uomini e donne dimenticati dal loro assassino, fra quelle voci ci sono tutte quelle dei pazienti che hai ucciso…
- Non è stata colpa mia! - ribattè Fasman.
- Nessuno ti accusa di averli uccisi, qui ti si accusa di non averne preservato la memoria…
- Non posso ricordarmi i nomi di tutti i pazienti che muoiono!
- Non ti vergogni di prendere la morte di un uomo come un fatto normale?
- No, perché È un fatto normale!
- Ma non scontato!
- Vuoi ricominciare a fare il maestro con me? Non ho più dieci anni!
- Già, allora avresti capito il valore della vita umana…
- Valore della vita umana? Ti ricordo che ti hanno ucciso per comprare della droga!
- Mi hanno ucciso perché mi sono ribellato, perché ho cercato di insegnargli la morale!
- Ma sei morto, ti hanno ucciso e loro con i tuoi soldi hanno comprato della cocaina!
- Ho provato a cambiare il mondo… - replicò Stevenson.
- Ci sei riuscito?
- Si, perché ora la gente ha una maggiore coscienza…
- Infatti, gli sciacalli che hanno rapinato la tua casa avevano molta coscienza…
- Meglio un mobile in meno a casa mia che un uomo morto in più…
- Sarebbero morti comunque
- Forse
- Hai mai sentito di qualcuno che vive in eterno?
- Fisicamente no, ma migliaia di persone vivono nei ricordi di altre, come me per esempio
- Tu sei morto! - disse con calma Fasman
- Fra noi due c'è un morto, ma quello non sono io… Ciao Bernard - disse e sparì nel momento in cui Fasman sbattè le palpebre.
- Stevenson! - gridò urlò l'uomo con una voce che voleva essere dura e sicura, ma che in realtà tradiva la sua paura.
Aveva bisogno di parlare con qualcuno, ma non sapeva con chi. Pensò di chiamare Monique Perine, ma poi rinunciò presumendo che la ragazza l'avrebbe preso per pazzo.
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- Capisci? Stevenson si è presentato a casa mia… È impossibile! Stevenson è morto!
- Scusi, ma ha provato ad andare da uno psicanalista? - chiese a Fasman la ragazza del servizio informazioni.
- Perché dovrei? Quelle non erano che allucinazioni provocate dagli eventi… Tu credi che io sia pazzo, vero?
- Signore, non so cosa dirle… Ma perché ne sta parlando proprio a me?
- Già, perché? - chiese Fasman e riattaccò.
Non sapeva con chi parlare. Un tempo ne avrebbe parlato a Stevenson, ma quel tempo era passato. Era troppo orgoglioso per andare da uno psicanalista, perché andarci significava ammettere di avere un problema.
Aveva passato circa venti minuti al telefono del servizio clienti. Quella telefonata era costata circa venticinque dollari e gli aveva fatto perdere parte del rispetto per sé stesso.
Di colpo si sentì sporco, perciò decise di farsi una doccia. L'acqua gli accarezzava il volto con una mano tiepida e il vapore appannava i vetri del bagno. La doccia non lo pulì, si limito a rilassare il corpo e ad agitare la mente.
Si vestì e uscì. Andò in un negozio di articoli sportivi e comprò una corda da alpinista.
****
Le mani si tagliavano e si graffiavano nell'intento di fare un cappio con la corda. Lanciò l'estremità della corda che non era legata oltre una trave e gli fece un robusto nodo.
Prese una scala. Il volto era all'esatta altezza del cappio. Rinunciò all'insano intento e si limitò a sedersi e a bere un bicchiere di liquore. Il sapore dolce, quasi stucchevole, della bevanda lo disgustò e l'alcool lo colpì alla testa come un colpo di sfollagente. Ne prese un altro. Questa volta gli sembrò che qualcuno lo stesse massacrando a colpi di spranga. Il terzo bicchiere lo fece tossire violentemente. Cercò di alzarsi, ma finì a terra e svenne.
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Quando si svegliò si trovò lungo disteso sul tappeto del salotto. Nessuno era venuto a trovarlo. Prese la bottiglia e la guardò. Il vetro rifletteva un'immagine triste che assomigliava poco a un uomo. Gli occhi azzurri, sempre freddi e distaccati, erano diventati quelli di un pazzo. Le mani sicure e precise ora non riuscivano a smettere di tremare. Posò la bottiglia sul tavolo e guardo il cappio che penzolava dalla trave. Sapeva bene l'agonia che avrebbe provato se avesse scelto di impiccarsi, ma non era tanto quella a spaventarlo quanto la consapevolezza che quello sarebbe stato il gesto finale e che dopo avrebbe saputo il TUTTO o forse non avrebbe saputo più nulla.
TUTTO e nulla. Fasman aveva paura di entrambe le cose. Forse Stevenson aveva ragione, forse c'era qualcosa che andava oltre la sua comprensione. Coscienza, è una parola vuota o c'è dentro più di quanto Fasman non possa immaginare?
Aveva preso le ferie, ma proprio il fatto che doveva stare fermo, che il fisico non fosse impegnato lo portava a chiedersi, lo portava a soffrire e a gioire.
Diede un ultima occhiata al cappio e decise di andare a fare una passeggiata.
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La fresca aria invernale gli entrava nel naso mentre camminava in silenzio, avvolto nel suo cappotto marrone lungo fino ai piedi. La strada era lunga, ma non volle prendere l'autobus per paura di incontrare Monique Perine e dover rispondere alle sue domande.
Si fermò davanti una croce di legno senza nome e senza data.
Non sapeva dove si trovasse la donna che aveva ucciso, probabilmente ancora nell'obitorio dell'ospedale, ma non era per lei che era venuto lì. Si fermò a guardare in silenzio la gente che era lì per un funerale. Poca gente era triste, pochissimi piangevano. Molti si trovavano lì solo per dare pace alla loro morale, altri per fare propaganda, alcuni pensavano di ottenere un favore ma a pochi interessava del morto.
Fasman non era mai andato a un funerale, interpretava la morte come un fatto naturale e non aveva morale, quindi i sensi di colpa per non essere andato erano molto lontani da lui.
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Dopo aver vagato per un paio d'ore nel cimitero trovò per caso la tomba di Stevenson.
Non c'era nessuna foto nella lapide dell'uomo. Fasman si ficcò le mani in tasca e fece per andarsene, quando trovò, nella tasca dei pantaloni, la foto che aveva strappato. La guardò, era il pezzo che ritraeva Stevenson. La lasciò sulla terra che ricopriva la salma e se ne andò.
****
Tornato a casa sentì dei rumori provenire dalla cucina. Prese un bastone dal portaombrelli e decise di andare a controllare.
- Bernard, dove tieni il liquore?
- Stevenson! - disse Fasman sorpreso abbassando il bastone.
- Già… Tu hai fatto visita a me e io ho voluto farne una a te…
- Casa tua non mi sembra molto accogliente.
- Dipende di quale casa parli.
- Ne hai più di una?
- Naturalmente, i tuoi sogni, la mia vecchia casa… A proposito, che fine ha fatto?
- Rasa al suolo, ora lì c'è la villa di un mio… amico - disse Fasman che aveva dei dubbi su come descrivere l'uomo che lo portava alla distruzione.
- Un tuo amico?
- Charles Taylor
- Non sei mai stato bravo a giudicare le persone…
- Neanche tu.
- Sbagliato, le persone non sono mai state brave a giudicare me.
- Se lo dici tu.
Stevenson rinunciò al liquore che non trovava e si diresse in salotto.
- È nuovo? - disse indicando il cappio appeso alla trave.
- Si, va di moda.
- Oh, non ne dubitavo… Perché non c'è una poltrona qui?
- Perché ci dovrebbe essere?
- Per far sedere i tuoi amici fantasmi, mi pare ovvio!
- Tu NON sei mio amico! - ribattè Fasman.
- Hai ragione, io sono il tuo maestro.
- Un maestro che è stato assente per quarant'anni.
- Scusa se sono morto, non volevo in effetti…
- Figurati, comunque ho studiato da autodidatta.
- Nessuno può imparare la morale da autodidatta.
- Infatti io non ho studiato la morale, ma soltanto la logica.
- Vuoi dire di essere logico?
- Nei limiti dell'umano si.
- Se fossi completamente logico saresti pazzo.
- Come fai a dirlo?
- Ci sono cose che, perlomeno ora, non si possono spiegare e se tu cercassi veramente la verità finiresti nella tua bella clinica con un accappatoio addosso.
- Lì non curiamo disturbi psicologici, ci occupiamo solo di neurologia e neurochirurgia.
- Il sogno della tua vita, vero?
- Paga le bollette.
- E non solo mi pare - disse Stevenson alludendo alla splendida casa - peccato che per quel lavoro tu abbia dovuto rinunciare a molto altro.
- A si? E a cosa?
- Dovresti saperlo tu…
Fasman chiuse gli occhi che stavano bruciando perché aveva cercato di tenerli aperti per tutta la visita. Quando li riaprì il suo ospite era scomparso.
- È incredibile, compare e scompare dal nulla, sa tutto di me e della gente che conosco e poi non riesce a trovare il liquore - pensò Fasman dirigendosi in cucina e aprendo, con la chiave che portava al collo, uno sportellino. Fatto ciò se ne versò un generoso bicchiere e bevve ridendo del fatto che Stevenson non l'avesse trovato.
Pensò a quello che gli era stato detto e concluse che poteva anche essere vero, ma ciò che gli importava davvero era se Stevenson era vero o no.
I suoi pensieri furono interrotti da un allegro scampanellio. Si alzò e andò ad aprire la porta.
- Buongiorno signor Fasman - disse Hammett dopo essersi tolto il cappello e aver fatto altre riverenze totalmente inappropriate.
- Buongiorno a lei Hammett, cosa la porta qui? - chiese Fasman che conosceva già la risposta alla domanda che aveva fatto.
- Mi manda il signor Taylor.
- Cosa vuole Charles?
- Oh no, non il signorino Charles, intendo il signor Taylor… - disse Hammett a cui tremavano le mani per il nervosismo, cosa che inspiegabilmente accadeva quando si parlava di Robert Taylor.
Fasman salì sulla limousine.
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Robert Taylor era un coetaneo di Fasman. Fra i due scorreva un forte odio viscerale mascherato soltanto dalla fredda cortesia e dall'ipocrisia. Taylor inconsapevolmente aveva fatto un favore a Fasman, era stato lui molti anni fa a lanciare lo zaino di Fasman oltre il recinto di Stevenson, facendo così conoscere i due.
La storia da imprenditore di Taylor iniziava quando a diciotto anni lasciò la scuola, si fece dare una parte dell'eredità e inizio a giocare in borsa. Ebbe poco successo, ma poi l'intera eredità andò a finire nelle sue mani. Per circa due anni sperperò il patrimonio, a vent'anni ebbe un figlio da una donna conosciuta in un locale. I due si sposarono, nel frattempo il piccolo Charles cresceva così come il patrimonio del padre, ma gli affari dell'uomo diventavano sempre più loschi e immorali. La sua strategia era investire nelle armi e quando la guerra non si preannunciava ci pensava lui per mezzo dei suoi uomini, ma le sue mani erano sempre candide e nessuno osava pensare che un uomo come Robert Taylor fosse un trafficante d'armi, persino la moglie lo ignorava. Lo scoprì una sera quando il marito si ubriacò e le racconto dei suoi loschi traffici. La moglie impallidì nel sapere che i suoi preziosi vestiti e il lusso in cui vivevano provenivano da morte e distruzione perpetuate nel nome del guadagno.
Lei non parlò mai di quello che aveva scoperto e lui dimenticò tutto a causa dell'ebbrezza, ma un giorno non potendo sopportare i sensi di colpa la donna si suicidò sparandosi alla tempia.
Fu questo che portò Charles a comportarsi come si comportava? Fu questo che lo portò a godere delle sofferenze altrui? L'unica cosa certa è che il bimbo vide la madre morire a soli sette anni.
Taylor non si risposò mai, non voleva intaccare la fama di uomo per bene che aveva faticosamente costruito. Della moglie si scrisse che aveva avuto un problema neurologico e che fosse impazzita arrivando al punto di suicidarsi.
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Fasman, in assoluto silenzio, sedeva nella parte posteriore della limousine mentre Hammett con indosso il suo cappello da autista era al posto di guida.
I due uomini non parlarono per tutto il viaggio, Hammett perché era impegnato a guidare e Fasman perché cercava di capire cosa volesse da lui Robert Taylor.
Il viaggio fu abbastanza lungo, perché la casa dove viveva Taylor era una bella villa fuori dalla città.
Prima del vialetto che portava alla villa c'era un grande cancello di ferro nero con una "T" in oro nel punto in cui le due parti del cancello si univano.
Accanto al cancello una piccola portineria, dentro c'era un uomo sulla quarantina che era intento a leggere un giornale quando i due arrivarono. Appena sentì il rumore della macchina posò il giornale e si aggiustò la giacca. La macchina si fermò e Hammett abbassò il finestrino.
- Ciao Sam - disse l'autista.
Sam rispose con un grugnito e prese in mano la cornetta del telefono che stava accanto a lui.
- Signore?... C'è qui Hammett con un passeggero… Si, signore sarà fatto - disse Sam con evidente disagio e poi mise giù la cornetta e aprì il cancello.
Hammett visibilmente soddisfatto fece entrare la macchina nel cortile, arrivarono fino all'ingresso della villa. Era un edificio immenso e leggermente sopraelevato. C'erano delle scale che portavano alla hall e su queste ad aspettarli con aria gioviale c'era Robert Taylor. Le stesse mani che, fino a pochi minuti prima, erano sporche di denaro e sangue ora erano racchiuse in dei guanti di pelle nera e stringevano con vigore quelle di Fasman.
- Bernard, che infinito piacere vederti.
- Lo stesso vale anche per me, Robert.
- Ho saputo che sei stato male, ma purtroppo non sono potuto venire a trovarti di persona, quindi ho pensato di invitarti qua.
- Ti ringrazio, è sempre un piacere vedere questa splendida villa.
- Grazie.. Oh, ma cosa facciamo qui fuori? Entriamo, su entriamo…
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I due uomini parlarono a lungo ma senza dirsi nulla. Quando arrivò il momento di andare, Fasman salì sulla macchina in silenzio.
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Benché la visita non fosse durata che un paio di ore a Fasman sembrò che fosse durata un'eternità. Tornato a casa si tolse il cappotto che lo avvolgeva e lo soffocava.
- Come mai stai sudando? - chiese Stevenson, da uomo che odiava i convenevoli e voleva andare al sodo.
- Di chi era quella frase? - chiese Fasman, che in effetti stava sudando molto.
- Quale frase?
- Quella che mi dicesti tanto tempo fa… - si sforzò di ricordare, poi aggiunse - "Se la miseria è grande…" com'era?
- Se la miseria è grande l'uomo è ancora più grande, magari?
- Si, quella… Chi l'ha detta?
- Tagore.
- Era un idiota…
- Forse.
- Forse? Guardami, costretto a abbassare la testa a un trafficante d'armi, costretto a fargli complimenti per quella villa orrenda!
- Hai deciso tu di farlo.
- Sono stato obbligato!
- Non mi pare ti abbiano puntato con una pistola… E io me ne intendo!
- Sono stato obbligato perché quell'uomo poteva farmi licenziare!
- Non vedo il problema, tu odi questo lavoro…
- L'UNICA COSA CHE ODIO È IL TUO SENTIRTI SUPERIORE! - urlò e preso un posacenere da un mobile lo lanciò con forza contro Stevenson. Il posacenere passò attraverso il fantasma, che rimase perfettamente composto, e colpì invece la cornice di un quadro mandandola in frantumi.
- Cosa volevi ottenere lanciandomi quel posacenere? - chiese Stevenson, ma Fasman non rispose, restò aggrappato al mobile da cui aveva preso il proiettile improvvisato e a respirare affannosamente.
- Nulla, solo impedirti di parlare…
- Beh, non ci sei riuscito…
- No, però mi sono sfogato…
- …E hai rotto una cornice…
- Fidati, ne valeva la pena! - disse Fasman e andò a prendere una scopa per raccogliere i vetri.
- Se ne sei convinto…
- Allora, dimmi un po'… Cosa si prova quando si muore?
- Tu dovresti saperlo meglio di me… - rispose ironico e tagliente Stevenson.
- Io? Io sono vivo! - ribattè Fasman.
- Fisicamente si, ma per il resto?
- Ma non hai altro da fare?
- Certo, la mia vita è così ricca di divertimenti…
- Bah…
Proprio in quel momento suonarono alla porta. Fasman andò ad aprire, e vide innanzi a sé un una piccola bocca piena di denti bianchi che gli sorrideva.
- Buongiorno Bernard - disse allegramente Monique Perine.
- Buongiorno a lei, Monique - rispose cordiale Fasman.
- Ho pensato di farle visita per chiederle come sta… - le parole di quella ragazza furono come balsamo per Fasman, ma erano veramente cariche di interesse oppure era egli che aveva bisogno di sentirle così?
- Sto molto meglio, grazie… - detto ciò si spostò dall'uscio per permettere alla ragazza di entrare.
Ci sono discorsi gentili ma idioti che si possono fare solo con persone che si conoscono poco e che si ha paura di offendere, il discorso che Fasman e la signorina Monique Perine intrapresero era uno di questi.
Si vergognò un po' di dover far sedere la ragazza in cucina, d'altronde non aveva poltrone. Il suo cinismo aiutava le relazioni sociali, gli permetteva di dire ciò che pensava, quantomeno nei limiti dell'educazione.
Passarono dieci minuti in imbarazzante silenzio, poi la signorina Perine introdusse l'argomento tempo. I due si stupirono notando quanti minuti di conversazione si potessero occupare con quell'argomento così spesso sottovalutato. Non ci volle molto perché delle frasi d'occasione subentrassero nel discorso, frasi come "non ci sono più le mezze stagioni", oppure "che caldo oggi!", nonostante fosse inverno e ci fossero cinque gradi fuori.
Con l'imbarazzo visibile sul volto la signorina Monique si alzò dalla scomoda sedia in legno e si preparò ad andarsene, Fasman insistette perché rimanesse, anche se voleva che lei se ne andasse.
****
Fuori faceva freddo e Monique Perine camminava con piccoli passi veloci. La sciarpa stretta a coprire la bocca e il collo, la mano destra a tenerne congiunte le due estremità di lana. Fuori faceva freddo, ma era felice, perché quello era un freddo pulito e secco, non era il freddo del cinismo come quello che c'era in casa di Fasman. C'era qualcosa in quell'uomo che la spaventava, e non si trattava solo della cornice rotta e dei vetri per terra (non li aveva ancora raccolti), c'era dell'altro.
****
Fasman si sentì sollevato e allo stesso tempo impaurito dal fatto che la signorina Perine se ne fosse andata. In silenzio si avviò verso lo stanzino, per prendere una scopo per pulire il pavimento dai vetri rotti.
Era abituato a stare solo, spesso era solo anche in mezzo alla folla, ma c'era qualcosa di nuovo in quella solitudine, sentiva che mancava qualcosa.
Quando finì di raccogliere i frammenti di vetro si sedette sulla sedia della cucina. La sedia non aveva cuscino quindi anche la minima possibilità che il profumo della signorina rimanesse nell'aria e aiutasse Fasman a sentirsi meno solo fu cancellata.
Si mise a fissare il muro come cercando la risposta a una domanda che non conosceva. Sapeva di aver bisogno di qualcosa, qualcosa che né la laurea né i soldi e neanche la forte opinione di sé stesso potevano dargli. A Fasman mancava l'umanità. Per tanti anni aveva vissuto senza curarsene, cercando di nascondere la voglia di essere di nuovo un uomo con la voglia di fare carriera, con il sogno del potere. Ora il sogno era svanito, la speranza di fare carriera si scontrava inesorabilmente contro il tempo che passava e contro la classe dirigente arrogante e ottusa.
Prese dei sonniferi e andò a letto.
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Quella notte sognò sogni duri fatti di odio e delusione. Alla mattina non ricordava nulla. Si diresse in bagno, si guardò allo specchio e fece fatica a riconoscersi. Il viso era più scarno e pallido del solito, gli occhi azzurri erano pallidi e senza vita, si appoggiò con forza al lavandino per paura di cadere. Le gambe resistettero alla forza che le attraeva giù, ma Fasman stava lentamente precipitando.
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Era spaventata, non sapeva che fare. Quell'uomo la intimoriva, ma allo stesso tempo aveva pietà di lui. Nello squallido appartamento che condivideva con un'altra ragazza (lo stipendio da guardarobiere non le permetteva di averne uno suo), su una brutta sedia di metallo e plastica sedeva tremando Monique Perine. Il riscaldamento era spento come il sogno di far carriera e il corpo da ballerina che stava lentamente perdendo il tono.
Accanto a lei, su un tavolo, un telefono. Era indecisa se chiamare o no. Forse quell'uomo aveva bisogno di aiuto, ma d'altronde non erano affari suoi.
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Fasman aveva appena finito di ricordare tutto ciò che era successo in quei giorni, quando suonarono alla porta.
- Chi disturba la gente alle sei e mezza? - diceva l'uomo che non si era ancora accorto che erano le nove passate.
Sulla soglia della porta c'erano due uomini.
- Il signor Fasman? - aveva chiesto uno degli uomini a Fasman.
- Sono io, cosa volete? - aveva risposto ancora in pigiama.
Senza rispondere i due uomini lo afferrarono per le braccia e lo caricarono su di un'ambulanza.
- Che succede? - chiedeva Fasman mentre l'ambulanza si allontanava.
Uno dei due uomini era salito sulla porta anteriore della vettura, mentre l'altro era salito con Fasman nel posto della lettiga.
- Dove mi portate? - aveva chiesto Fasman, ma l'uomo non gli dava risposta, si limitava a guardarlo con disprezzo.
Dopo aver notato che l'uomo che gli stava accanto non intendeva rispondergli e ben sapendo che non avrebbe potuto ottenere una risposta con la violenza si è deciso a guardarlo con insistenza negli occhi pensando che i suoi occhi potessero spingerlo a parlare.
Gli occhi del paramedico fissavano con svogliata curiosità l'uomo di fronte a loro, gli occhi dell'uomo erano castani e calmi, nonostante ciò avevano un vantaggio su quelli di Fasman, loro sapevano il motivo della visita.
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L'ambulanza si era fermata davanti al cancello della clinica dove lavorava Fasman, è così tutto era diventato chiaro. Era sollevato, ora sapeva cosa fare, non c'era più un velo che gli impediva di conoscere la verità. Non aveva più paura perché ora sapeva cosa fare e come.
I due uomini lo avevano aiutato a scendere e, preso per le braccia, lo portavano all'interno della struttura.
Molti dei suoi colleghi si aspettavano di rivederlo, ma non in quelle condizioni. In pigiama, con gli occhi spenti e il viso da malato terminale, poco rimaneva del chirurgo cinico e calcolatore che sembrava non avere nulla di umano.
In silenzio lo avevano portato in camera, lo avevano fatto sedere sul letto ed erano usciti lasciando aperta la pesante porta di ferro.
Era rimasto così per un paio di minuti, seduto fissando il vuoto, quando dalla porta era comparso Charles Taylor.
- Buongiorno Bernard - aveva detto Taylor mettendogli una mano sulla spalla - si risolverà tutto, sta tranquillo, c'è stata una telefonata anonima… Beh, noi l'abbiamo saputo e abbiamo preferito farti stare un paio di giorni qui invece di mandarti da uno psichiatra…
Aveva aspettato un paio di minuti nella speranza che Fasman lo ringraziasse, ma aveva aspettato invano.
Fasman non aveva ascoltato niente di quello che aveva detto Taylor, continuava a guardare un punto imprecisato davanti a lui.
- Comunque sappi che puoi uscire e vagare liberamente, non sei come gli altri pazienti, tu… - aveva detto Taylor prima di uscire.
Questa è stata l'unica frase che Fasman aveva veramente sentito.
Taylor era uscito in silenzio.
Dopo un paio di minuti Fasman aveva deciso di uscire. Era passato davanti a una camera dove aveva visto un suo paziente. Conosceva le condizioni di quell'uomo, era uno dei pochi ancora capaci di formulare pensieri razionali. Aveva circa altri tre giorni di vita.
La famiglia non gli aveva detto delle sue condizioni e nulla nel suo viso gioviale faceva pensare che lo sapesse.
L'uomo era sdraiato sul letto e stava leggendo il giornale, ad un certo punto aveva sentito l'impulso di girarsi. Non sapeva da che derivava quell'impulso, era come una silenziosa forza che lo spingeva a guardare in quella direzione. Un presentimento.
I due uomini si erano squadrati e dopo un silenzioso ma esplicito invito a entrare si ritrovarono entrambi seduti sul letto della camera.
- Dottore… - aveva detto l'uomo sotto le lenzuola.
Fasman aveva ignorato la domanda, si era alzato e se ne era andato.
Era sulla porta quando il paziente l'aveva chiamato…
- Morirò presto, vero? - aveva chiesto senza apparente paura l'uomo.
Fasman era appoggiato allo stipite della porta e stava in silenzio, l'uomo aveva capito la risposta e senza chiedere altro si era sdraiato di nuovo sul letto.
Fasman si sentiva in qualche modo simile al suo ex paziente, due uomini senza paura della morte. Non sapeva se il moribondo fosse un credente o no, ma non gli interessava. L'unica cosa che gli interessava era che fra poco avrebbe conosciuto la verità o avrebbe comunque messo fine a quel duro viaggio che aveva intrapreso cinquant'anni fa, ma che era diventato buio e triste solo da quaranta.
Si dirigeva in camera strascicando i piedi in un'atmosfera che ricordava molto il braccio della morte, e che per certi versi era uguale. La durezza dell'aria, appesantita dalla cupezza di chi stava là, e quella prigionia vergognosa erano anche peggio della morte.
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"MUORE GENIO DELLA NEUROCHIRURGIA", "MEDICO SUICIDA", "NEUROCHIRURGO PAZZO", titolavano i giornali il giorno dopo.
" Le circostanze del suicidio sono chiare - riferisce il rapporto della scientifica sull'omicidio del dottor Bernard Fasman - il medico ha avvolto la propria mano in un lenzuolo preso dal letto della propria camera e ha rotto il vetro della finestra. Preso un frammento affilato ha reciso la carotide, provocando la morte. - Le cause sono quindi molto chiare, quello che non si riesce a capire è il motivo. La vita dell'uomo è immersa nell'oscurità da quando è entrato a far parte dello staff clinico di cui è anche azionista il noto uomo d'affari Robert Taylor. Bernard Fasman ha avuto dei precedenti con la polizia per l'aggressione di un poliziotto, ma su questa notizia non si hanno dati certi. Il fatto stesso che Fasman si trovasse in una clinica neurologica e non psichiatrica è un mistero. La notizia certa è che c'è stata una denuncia al commissariato locale di comportamenti sospetti in casa del medico. La denuncia anonima è stata fatta da una voce femminile ".
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