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Lo specchio del tempo
Sono in dormiveglia o sto sognando e vedo qualcosa.
Ci sono le mie mani e centomila penne, c'è le mia faccia e centomila sorrisi.
Manca però la possibilità di leggere chiaramente quello che è scritto o impresso.
Forse è perché le forme sono sfocate: sembra uno specchio che rimanda indietro immagini perdute nel tempo.
Io ci sono e mi vedo, come attraverso una finestra, ma il fondale non è abbastanza scuro da riflettermi adesso.
Quello che distinguo è il mio viso a sedici anni. Ho gli stessi capelli che conosco, lo stesso sguardo, le stesse mani. Ho appena scritto una canzone d'amore che non credo riuscirò a far comprendere profondamente all'oggetto del mio sentimento quando gliela farò ascoltare. Tra poco uscirò perché ho finito di studiare e mi do un'occhiata allo specchio per controllare se la chitarra nella custodia non dà fastidio alla borsa di tolfa a tracolla. È strano, ho la forte sensazione di avvertire l'odore di Patchuli.
Ancora studio le mia immagine e ritengo di avere sbagliato: forse questa è la mia faccia a una ventina d'anni. Un po' truccata, luccicante di orecchini grandi, e probabilmente quel movimento che mi sembra di vedere è la mia mano destra piena di anelli che impugna una penna pronta a riempire quello che sembra essere un foglio bianco. Sarà una lettera o una poesia che voglio scrivere. Intanto mi pare di notare che ho gli occhi lucidi, come stessi piangendo, anche se le lacrime non riesco a vederle. Quello che riconosco adesso bene è cosa impugno: un pennino intinto nell'inchiostro (che ricordo, solo ricordo) di color seppia. Forse sto disegnando, forse scrivendo... non capisco. E l'odore che mi stordisce è quello del suo profumo Kouros. Può darsi che ci abbia impregnato le mie carte, per sentirlo comunque presente.
Magari invece ho trent'anni: lo "specchio" è lo stesso, è ancora la finestra di casa dei miei, perché ci sono le piante fiorite del giardino; dunque è la primavera del 1993, mi sto per sposare e quindi andrò ad abitare altrove. Quello che sento potente è l’odore delle rose che cadono appassite sul prato e insieme quello delle sigarette spente nel posacenere.
Per ciò che capisco la faccia è la stessa: gli stessi occhi, gli stessi capelli, eppure il mio sguardo in questo momento mi sembra diverso. Mi pare di avvertire una gioia che urla, dagli occhi, dalla bocca, ma senza suoni, senza quello che il mio vedere non può trasmettere.
E se invece intravedessi me stessa adesso... Ho quarant'anni, gli stessi capelli biondi, la stessa mano destra che impugna una penna o una matita. Oppure una sigaretta. Nello stesso modo strano che ho sempre usato per scrivere e poi per accettare la mia imprevista sclerosi a placche. Non comprendo.
Non comprendo neppure perché questa mattina all'alba (se non è notte fonda) vedo questa mia faccia, sento degli odori antichi, ora mi sembra anche di ascoltare voci remote, dei miei genitori quarantenni, degli amori ormai smarriti, dei miei insegnanti, dei miei nonni morti, di mio marito e di mia figlia. O di me che canto, rido, piango, m'incazzo…
C'è la mia faccia, dunque, la mia faccia e centomila risate. Manca però la possibilità di comprendere, in modo inevitabile, ciò che nella memoria è chiaramente impresso.
Forse perché le voci sono soffocate: sembra una caverna che rimanda echi smarriti nel tempo. Io ci sono e posso sentirmi, magari attutita, come attraverso una finestra, e il silenzio intorno non è abbastanza da confondermi adesso.
Ma anche l'individuarmi non sminuisce lo sconcerto che ho nel riascoltare chi mi sta parlando.
“Non piangere Cecilia” sta dicendo senza dubbio nonna Anna; l'ho persa per prima, ma è la prima a rivolgersi a me, come sempre dolcemente. Forse perché sono piccola o forse perché è il mio carattere a spingerla a rivolgersi così alle mie lacrime mentre si alza chiaro il profumo di pulito da casa sua.
“Porca puttana” dice a mezza bocca mio padre nella stanza odorosa di disinfettante del policlinico che ha decretato la fine di un frammento di storia, la mia gravidanza. Così non l'avevo mai sentito parlare. Ma era senz'altro lui, che non aveva mai usato questo tipo di linguaggio in circostanze drammatiche; e solo dopo tanti anni mi è diventato chiaro.
“Coraggio” è l'espressione che più mi addolora. È la calda voce di un uomo, sicuramente di mio marito, sul portone dello stesso ospedale da cui era previsto uscissimo con nostro figlio in carrozzina. Sentirsi dire così sembra denotare la mia mancanza di forza, e credo di non averlo mai meritato, ma probabilmente “Coraggio” era pronunciato anche per sé, uomo raggiante gioia fino a pochi giorni prima che tutto precipitasse.
Da quello che dice, deduco che ora a parlare sia mia figlia, la mia unica e bella figlia adottiva. “Ti posso chiamare mamma?” È il suono inconfondibile che emettono le labbra rosse e timorose di una bambina undicenne di fronte ad una nuova avventura. “Siete voi la mia famiglia definitiva?” aveva appena detto in un giardino profumato di primavera. Nel caleidoscopio della mia memoria la vocina titubante, che fosse o no sincera, resta indelebile e identificabile.
Riconoscibile, anche se pronunciato in tanti toni differenti, è il richiamo del mio nome pronunciato da mia madre. Mi sta rimproverando, mi chiama, mi consola, m’insegna, vuole sapere, vuole scherzare. E non c'è assolutamente da confondersi, tranne che capire a quale Cecilia si stia rivolgendo, se abbia 3 anni, se 16, se 25, se 30, se 40… Ma è certamente la voce di mamma e certo l'aria è quella di casa.
Più concentrazione prevede il riconoscimento del “Ti amo”. Qui un indispensabile aiuto proviene dagli odori e, dopo un rapido frullo di memoria, diventa tutto limpido. Il primo amore, poi il più straziante, infine il più estremo. Tornano i conti e i connotati
Sono solo suoni e profumi, adesso, ma così vicini da restarmi stampati nella mente ben catalogati per chissà quanti altri anni. Come erano immagini in technicolor soffocate quelle viste poco fa: sembra davvero uno specchio magico che sa restituire immagini e voci e profumi apparentemente smarriti nel tempo.
Sono io ancora lì, mi dico ormai sveglia, in tutte le possibili sfaccettature, fiera, sensibile e caparbia come da sempre, anche se la vita muta e qualche volta sembra volermi travolgere.
Racconto vincitore del secondo premio del concorso Le Fenici, sezione A, I edizione,
Edizioni Montag, Tolentino, 1° settembre 2007
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0 recensioni:
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- bella storia!! travolgente e scorrevole brava
- Magnifico, Cecilia. Storia di una vita, diario semionirico di avvenimenti e situazioni vissute in una scomposizione del tempo che non è cronologica, ma dettata dall'inconscio, che non possiede tempi e luoghi.
Eventi dolorosi hanno segnato una vita che immagino sia la tua, tanta malinconia nei tuoi ricordi, tanta commozione mia nel leggerti.
Il tuo non è propriamente un racconto, ma una confessione autobiografica che mi ha molto colpito.
Il tuo stile mi piace: molto chiaro, diretto, immediato, pieno di implicazioni psicologiche e denso di malinconia, nostalgia e belle immagini.
È un racconto che metterò tra i miei preferiti, perché è la storia di una vita e di un'anima.
Un abbraccio fortissimo.
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