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Banane Tibetane
Quando avviavo il plastico il trenino illuminato cominciava la sua corsa rotonda, un moto perpetuo rallentato solo dalle mie manovre di piccolo capostazione intento a spostare gli scambi e a immaginare viaggi fantastici.
La passione mi è rimasta anche da adulto e l’ho assecondata viaggiando a bordo di treni leggendari: l’Orient Express, la Transiberiana e il Treno delle Ande.
È il 2006, sono pronto per un altro viaggio memorabile, il viaggio sul tetto del mondo, 48 ore sul treno dei ghiacciai, sulle carrozze verde cupo del Pechino-Lhasa,.
Il treno si allontana dalla West Railway Station con un dondolio silenzioso, negli scompartimenti qualche turista, pochi tibetani e molti cinesi. Gli uni da una parte e gli altri dall’altra, lo specchio di una realtà che si dimostra in tutta la sua verità quando, finalmente, metto piede a Lhasa.
I cinesi sciamano verso i quartieri nuovi costruiti da loro per loro; larghi viali, luci sfacciate, palazzi alveare e ruspe in movimento che cancellano una civiltà millenaria.
I tibetani, invece, fanno rotta verso la città vecchia, aggrappata al tempio di Jokhang, seguiti da turisti e pellegrini giunti sin qui alla ricerca della spiritualità perduta.
Mi incammino dietro di loro per raggiungere la pensione che mi ospiterà dalle parti del Barkhor, l’antico mercato immune dall’invasione di cianfrusaglia cinese. Ho mal di testa, un senso di nausea, il respiro affannoso: il mio fisico reclama un acclimatamento. Glielo concedo. Me ne starò tranquillo alla guest-house che ha i soffitti e le scale coperti da disegni tibetani colorati a tinte vivaci.
Il pomeriggio del giorno dopo sto meglio, decido di visitare il Potala, il palazzo dove ha vissuto il Dalai Lama prima dell’esilio. A fatica trovo l’ultimo prezioso biglietto. Avverto una strana sensazione, sembra che il padrone di casa debba tornare da un momento all’altro: la sua assenza è forte quanto la sua invisibile presenza.
La sera e il freddo sono calate su Lhasa quando esco dal palazzo, mi avvio per le strade che portano dritto al Barkhor, dove compro un cappello di lana di yak e una ruota di preghiera in ottone lucido; adesso posso unirmi alle persone che passeggiano, pregando mi sento uno di loro.
Siamo centinaia e ci muoviamo in una sincronia collettiva permeata di pace, a fatica mi stacco dal gruppo per tornare alla guest-house dove sosto nella hall per ammirare i dipinti.
Su un divanetto due stranieri parlottano tra loro, fermo la ruota con il suo fruscio per capirne la provenienza: americani, penso avviandomi verso le scale.
Li rivedo il giorno dopo sulla Piazza del Potala vicino al pennone su cui svetta la bandiera rossa del Regime. Passeggiano sotto gli sguardi penetranti di poliziotti travestiti da monaci.
Ma c’è qualcosa di stonato nell’aria, forse la bandiera che sventola con troppa fierezza, forse gli abiti cremisi indossati da persone sbagliate.
Non ho tempo per pensare ancora: con un gesto fulmineo i due aprono i loro zaini e cominciano a distribuire fotografie; il Dalai Lama sorride dietro gli occhiali, sul retro una scritta: free Tibet.
Le armi spuntano assieme ai pugni e ai calci con i quali gli americani vengono allontanati inneggiando al Tibet libero. E il Dalai Lama li osserva dalle foto incollate al selciato.
Attendo che tutto si calmi prima di raccoglierne una. Ma un calcio mi colpisce dritto nello stomaco, mi fa cadere. Una mano ruvida afferra la mia. Appartiene a un’anziana dal viso incartapecorito e dal sorriso sdentato, è lei che mi aiuta ad alzarmi. Con una mano fa roteare una preghiera con l’altra fruga nella tasca dell’abito e mi porge qualcosa: due banane, due piccole banane verdi. Poi si allontana mormorando “Free Tibet”. O forse è la mia immaginazione.
Li ritrovo alla guest-house: i finti monaci stanno aspettando proprio me. Vogliono i documenti, perquisiscono lo zaino e, con un sorriso finto come i loro abiti, mi invitano a lasciare il paese dopo aver “suggerito” che il treno Lhasa Pechino parte di lì a un’ora.
E’solo a metà viaggio che mi ricordo delle banane: sono dolci, come il sorriso della vecchia e gli sguardi dei pellegrini. E quella dolcezza non si stempera quando piombo di nuovo nella routine quotidiana. Le devo trovare, quelle piante di banano, se sopravvivono in Tibet attecchiranno anche in Trentino.
Comincio a peregrinare fra le serre della Regione ma ricevo sempre una risposta mascherata da domanda: “Banane Tibetane? Forse si sbaglia.”
Mi arrendo, questo vivaio altoatesino è l’ultimo che visiterò. “Banane Tibetane? Sì, quante piante?”. Non credo alle mie orecchie: “20 piante entro un mese, i primi frutti fra un anno, produzione assicurata con una potatura e un letargo invernale sotto la paglia.”
E i primi caschi verdi arrivano puntuali. La voce si è diffusa, le Banane Tibetane sono richiestissime e le vendite galoppano. Metà del ricavato andrà ai tibetani in esilio in India, con l’altra metà acquisterò altre piante di banano: il Tibet non è mai stato così vicino.
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