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tutto un sogno

Piove. Quando piove il luogo dove lavoro diventa un’immensa pozzanghera: tutt’attorno all’Arena il vallo si riempie d’acqua.
È strano. Di solito presto servizio al cancello 61, mi ritrovo invece all’entrata 8.
L’intensità della pioggia aumenta. Le gocce cadono violente, sbattono sul selciato, lanciano schizzi che inzaccherano scarpe e pantaloni.
In lontananza mi pare di veder avanzare una carrozza.
Comincio ad avere gli occhi offuscati.
La gente mi spinge, cerca di entrare senza biglietto. Il vallo areniano mi si apre innanzi sempre più ampio. Sempre più zeppo di fango.
Un disabile in carrozzella mi si fa incontro. Mi chiedo come sia potuto arrivare sin qui. È solo. Punta le ruote della carrozzella contro le mie gambe. Nel tentativo di frenare il suo sfondamento, lo scaravento a terra.
Ecco. Un lombrico.
Mi si presentano i bambini del popolo. Comparse. Sono tutti vestiti alla marinaretta, calzoni scuri, stivaletti. Devono far finta di essere bambini parigini di una Parigi dell’ottocento.
Hanno tutti una faccia molto cattiva.
Quando scosto il cordone rosso per farli passare mi sbeffeggiano.
Uno di loro fa il gesto di sferrarmi un pugno sulle palle.
Paro il colpo.
Sento qualcuno afferrarmi per le spalle. Ma che? Un gruppo di facinorosi spinge ai lati del cancello. Sono tanti. Sembrano incazzati. Srotolano un lungo striscione.
Sopra c’è una scritta: Arvedi vendi il Verona.
Tutti si mettono in posa. Scatta qualche risata. Il tempo di un click. E mi ritrovo solo. Disorientato.
Mi volto. Un signore fuma indisturbato nell’antro areniano. Non riesco a completare la frase, non lo vede il cartello?.
È vietato fumare. Il signore mi spegne la sigaretta sulla fronte.
Non vedo un posacenere qui intorno, mi fa.
Io indietreggio di qualche passo, scivolo, poco manca che mi ritrovi dritto nella fanghiglia.
Lo vedo allontanarsi, le spalle larghe, il busto eretto, l’andamento di uno appena sceso di canoa. La sua figura si perde mentre ondeggia un po’ a destra e un po’ a sinistra.
Cerco di risistemarmi al meglio. Stringo il nodo alla cravatta. Pulisco le scarpe con un fazzoletto già usato.
Qualcuno mi chiama. Strilla qualcosa che non riesco a comprendere.
Prima che il fango mi arrivi alla gola.
Mi trascino via.
Torno a casa.

Non è casa mia.
Riconosco la cucina di una casa vecchia. Un tavolo di legno scuro piazzato al centro. Una poltrona sfondata. Il posacenere della Davidhoff.

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2 commenti     1 recensioni    

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1 recensioni:

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  • Anonimo il 20/09/2013 17:30
    Non riesco a chiarire la presenza di una carrozza con l'arrivo del disabile in carrozzella.
    È un lavoro ingrato che non paga, così come non paga la solitudine.
    Un pugno allo stomaco per affermare la vuotezza della vita.
    Da 1 a 10 ti do 7.
    Ciao.

2 commenti:

  • Anonimo il 20/09/2013 12:13
    ciao valerio. Leggerti è sempre bello.
  • Maria Rosa Cugudda il 31/01/2011 10:58
    lettura scorrevole e gradita!

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