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Notturno rosso
«Ancora un bicchiere, forza!»
I lumi ballavano nell’ombra dei vicoli quasi deserti, in una notte calda e pesante. Da lontano si avvertiva ancora l’eco ovattata delle voci che affollavano l’atmosfera ebbra del vecchio centro, che ancora a quell’ora tarda continuava ad essere popolato da una rumorosa moltitudine di uomini semiubriachi, volgari e chiassosi, e donne scomposte e lucide, occhi brillanti nella modesta orgia di una sera di fine estate.
«Cristo santo, l’hai vista quella?! Buonasera, splendore!» berciò Alfredo in direzione di una donna bruna e provocante, che rispose guardando i due compagni di sbieco con un sorriso malizioso, e poi proseguì, ancheggiando in maniera vistosa. «Santo cielo, guardala ti dico! Adoro questo posto! – urlò, accennando una sorta di sgraziato passo di danza, e, non contento, portando le mani vicino alla bocca: «ADORO QUESTO POSTO! Mi hai sentito, Antonio?! Mi sentite?! Che serata, cazzo! Prima quelle due bionde, mio dio che tette! Poi Ambra, capisci, proprio Ambra! Che non s’era mai dimostrata così “dolce” – sottolineò quest’ultima parola con un’ammiccata allusiva al compagno che gli camminava a fianco – ed infine questa... Mi sento forte come un bue, cazzo, beviamo ancora!» Antonio non rispose, perso ancora nel ricordo ipnotico di quella splendida sirena, che nel voltarsi aveva guardato entrambi con un’espressione indecifrabile, conturbante, che gli aveva rimestato lo stomaco. Non era ancora ubriaco, forse un po’ brillo, non proprio euforico come il suo irruente amico, e si sentiva ancora sveglio: quella notte, pensava, profumava d’una promessa di oblio ed oriente così forte che nulla al mondo l’avrebbe ricondotto a casa, adesso, se non il vino, o un silenzioso invito...
Improvvisamente si fermò di fronte ad un’insegna che rosseggiava nell’ombra: «Questo qui è fantastico – disse rivolgendosi ad Alfredo, intento a canticchiare un motivo incomprensibile – Vieni qui, bestione, entriamo! Vedrai che posto!». Trascinò quasi il compagno, che sembrava riluttante all’idea di entrare in qualsiasi posto, con quel caldo dannato, e barcollava senza meta, come se il suo motivetto guidasse i suoi passi incerti sul lastricato lucido e scuro. Imboccarono un vecchio portone massiccio che li introdusse in un piccolo vestibolo semibuio, dal quale scaturiva una fioca luce rossa, che sembrava muoversi come il riflesso d’una fiamma viva. Alfredo, entrando, ebbe una strana sensazione: «Dove diavolo siamo?» disse, mentre si guardava intorno con aria ebete. Decine di piccoli lumini di ferro, inchiodati ad una parete scarlatta, mandavano bagliori cupi sul pavimento liscio e sulla volta irregolare che li sovrastava, ad un’altezza che veniva amplificata dalla luce tenue. Un velo di raso rosso si parava davanti agli occhi, come una cortina che copre un’alcova immaginaria dietro la quale ogni cosa sarebbe stata possibile. Specchi, ottone macchiato e piccole poltrone coperte da velluti pesanti dal gusto decisamente barocco completavano un’immagine che inquietava per i suoi mille contrasti, e che attraeva col fascino obliquo d’una sfinge.
Dietro il velo un piccolo tavolo addossato al muro rosso attrasse l’attenzione malferma di Antonio. “Sediamoci, dai. Un’ultima bottiglia, poi basta.” Alfredo, lo sguardo stralunato sotto le luci sanguigne, si avvicinò allo sgabello come fosse in trance, ipnotizzato dall’atmosfera pesante che si respirava. Il locale era quasi deserto, dietro al bancone una donna sbadigliava, visibilmente stanca, ed i suoi occhi luccicavano d’uno scuro bagliore quasi esausto. Antonio iniziò a parlare, evidentemente a suo agio in quel luogo poco frequentato, come se tutta la sua timidezza fosse rimasta sulla soglia ad attenderlo, per concedergli qualche minuto di mondanità. Alfredo, invece, sembrava stretto in un mutismo asfittico, nervoso, e tutto l’alcol trangugiato creava adesso tra i suoi occhi ed il mondo una fitta nebbia angosciante.
Improvvisamente si alzò, con passo traballante, madido di impuro sudore, e si precipitò fuori, incapace di tollerare ancora quella luce che sembrava insinuarsi in gola come un asciutto torrente di fumo. Tornò qualche minuto dopo, visibilmente più tranquillo: sembrava reduce da una cruenta battaglia con una paura innominabile. Il respiro s’era fatto regolare, e sulle labbra un sorriso obliquo disegnava una traiettoria che conduceva dentro, ad un ricordo recente. Trovò Antonio intento a chiacchierare sommessamente con una minuta cameriera, che dopo aver posato i bicchieri ed una bottiglia di vino greco, si ritirò senza fretta, ripercorrendo la breve distanza che la separava dal bancone illuminato.
Sedutosi, Alfredo fissò Antonio, che guardava ancora in direzione della cameriera. Intuendo il corso dei pensieri dell’amico disse: “Non è male. E secondo me ci sta pure!” Antonio sorrise incerto: “Mah, facevamo solo due chiacchiere. È carina, certo che lo è, ma non sono tipo da... – e così dicendo si voltò ancora a guardarla, distogliendo lo sguardo dall’amico, che intanto si era lanciato in una performance di occhiate allusive e fastidiose. “ Smettila, coglione! Ho capito che ti sta a genio, ma perché allora non ci provi tu? Lo sai che non mi piace fare l’idiota con tutte quelle che vedo!” Alfredo non colse l’allusione malcelata, anzi raddoppiò gli sforzi nel mimare, il più dettagliatamente e rumorosamente possibile, una virtuale fellatio. Scoppiò dunque a ridere, versandosi un altro bicchiere e tracannandolo tutto d’un fiato. La stanza gli iniziò a premere sulle tempie; allontanò il bicchiere con un gesto brusco e fissò Antonio, senza vederlo, con espressione vitrea, ebete.
“Tutto ok? – chiese Antonio, accortosi delle pietose condizioni del compagno – se vuoi andiamo a casa, ne ho abbastanza anch’io, e domani sarà una giornata pesante.” Per tutta risposta Alfredo riempì ancora il bicchiere: il vino rifletteva il rossore delle lampade e delle ombre, arrossandosi esso stesso. “ Tranquillo, fesso, sto bene. Certo che questo posto, però... soltanto uno spostato come te potrebbe trovarlo bello! Guarda quei veli! Sembra la stanza di una vecchia troia!” Antonio fece un gesto stizzito, infastidito dal tono di Alfredo, mentre si accorgeva che la donna dietro al bancone aveva sentito tutto, e li fissava disgustata. “Zitto, bestione! Che cazzo di figura!” Sorrise alla cameriera, che lo ignorò a bella posa.
Dopo un attimo disse, all’improvviso: “È qui che ho conosciuto Lidia. C’era poca gente, lei era seduta in uno di quei divani vicini allo specchio, sola. Io ero entrato per ripararmi, diluviava e faceva un freddo boia, e rimasi intontito, proprio come te, entrando qua dentro. Non so se fu soltanto suggestione, ma sentii come se fossi stato proiettato in un’altra dimensione, nulla a che fare con la merda che c’è qua fuori... Certo, è un po’ stravagante, ma ha un fascino particolare, non trovi? Mi sentii... eccitato, ecco, ma non come puoi pensare tu: avevo i sensi puliti e vigili, ed ogni particolare sembrava collimare per comporre un’atmosfera sensuale, conturbante... E poi vidi lei. Lo sai, no? Fu un colpo pazzesco, mai vista prima una donna più attraente...” Si fermò, come se fosse esausto dopo la lunga confessione. Aveva quasi dimenticato Alfredo, quando incrociò gli occhi con i suoi: il compagno lo guardava sardonico, con un volto duro come pietra. “E bravo il sognatore!” disse, ridendo e sputando vino rosso, “questi qui ti pagherebbero a peso d’oro per fargli da pubblicitario! L’ho sempre detto, io, che hai sbagliato tutto nella vita! Dovevi fare il poeta, il letterato, invece di impolverarti il naso nei libri, dovevi scrivere tu le tue liriche! Sai che successone!” E rise ancora, convinto che Antonio ridesse con lui.
In realtà era così ubriaco da non accorgersi che l’amico lo guardava trasecolato, stringendo così forte le nocche attorno ad un bicchiere da farle perdere il loro colore. “E poi ancora ‘sta storia di Lidia! Cazzo, sembrerebbe quasi che tu rimpianga quella puttanella!” Antonio scattò immediatamente: “Che cazzo dici? Io non rimpiango nessuno! Meno che mai Lidia, neanche per sogno! Stavo quasi impazzendo dietro a quella…!” E, abbassando la voce, quasi parlasse a se stesso: "Sai quanto m’ha fatto stare male...” Alfredo, colto il senso di quel mormorio, ribatté: “Sei un’idiota! Stare male per un’intellettualoide che s’è fatta mezza città! Fidati, compare, meglio una pugnalata rapida che una spina nel petto!” Antonio tacque, le lacrime celate dietro gli occhi scuri. Ogni cosa, lì dentro, parlava di lei; quei veli, e quella luce di fuoco basso che le brillava tra i capelli lisci, sembravano aver legato un frammento della sua storia in una dimensione ormai irraggiungibile, che sanguinava come una ferita mai sanata.
Alfredo riprese, incurante della tempesta che si agitava dentro l’amico: “Bah! Non ti capisco... tu ha rovinato la vita, ti ha trasformato in un coglione con la lacrima facile, e poi t’ha fottuto, lasciandoti nella merda, ridicolo e solo! E tu cerchi ancora le sue tracce in questo cesso barocco! Chi ti ha sollevato, dimmi, quando sembrava volessi affogarti in tutte le pisciate di cane che trovavi? Chi ti ha dato il calcio nel culo che ti ha rimesso in rotta? Svegliati, coglione! Svegliati! Hai un lavoro di merda – colpa sua – un carattere troppo debole – colpa sua – sembra quasi tu voglia nascondere il pisello perché te ne vergogni, perché – e qui imitò la voce di Lidia – “non è elegante”, e continui a chiuderti, sempre più reietto! Perché invece non ti fai una bella scopata, e ti scordi quella troia! E poi – detto tra noi – non era nemmeno un granché a letto! Cazzo, quasi non venivo!”. Antonio fu percorso da un brivido improvviso. Il ricordo di quella tresca lo uccideva ancora, lo sguardo indifferente di Lidia che gli chiedeva “Beh? Che c’è di male? Soltanto sesso, una scopata soddisfacente, tutto qua. D’altronde lo sapevi già, non è nel mio stile credere ad una fesseria come la “fedeltà sessuale”... non sono mica una proprietà! Cosa dici? Ci stai male? Ah, adesso è chiaro! Tutto finto, allora? Sei il classico maschietto, che sta con me per mettermi un lucchetto nelle mutande... molto intelligente, complimenti!”.
Non l’aveva mai digerita, sognava la notte quella stanza dove i due s’erano accoppiati; nella sua fantasia febbrile un animale aveva violato il suo angelo, l’aveva spogliato della sua luce e gliel’aveva reso nudo di tutta la sua magia, carne, ossa ed umori, umana... schifosamente umana... Altre volte invece, guardandola, il suo sguardo si distorceva, mostrando una maschera oscena e maliziosa, sconciamente coperta da un alone di innocenza che, grottesco, non faceva che amplificare l’effetto perverso di quel viso che pure lui tanto amava, per il quale tanto soffriva... E l’amarezza si trasformò lentamente in lamento, il lamento in pazzia, e la pazzia aveva sepolto l’amore, riempendogli la bocca di cenere, terra e sterco.
Una coltre purpurea gli riempì gli occhi, nel suo delirio Alfredo divenne un grosso e sporco animale, che insozzava il suo tempio con una ferinità intollerabile. “Andiamo a casa, adesso” disse l’animale “che fine merdosa per una bella serata... Fanculo a te! Avrei fatto meglio a seguire quella mora!”
Il vicolo, totalmente deserto, emanava un intollerabile fetore di immondizie e escrementi di cani randagi. Antonio fu colto da una violenta botta allo stomaco, gli mancò il fiato, e fu quasi sul punto di crollare su Alfredo, che fece appena in tempo a sorreggerlo per una spalla ed appoggiarlo al muro, prima che l’amico si piegasse in due, vomitando tra violenti spasmi. Alfredo osservò la scena per qualche momento, sempre più insofferente, poi si rivolse bruscamente ad Antonio: “E cazzo! Cerca di riprenderti, no? Forza, non hai più nulla da buttare fuori, andiamo a casa!” E ciò detto tentò di sollevarlo di peso, ottenendo come unico risultato che Antonio scivolasse sul selciato sporco, cadendo pesantemente contro le gambe di Alfredo. “Alzati, cazzo! Mi stai sporcando tutto! Alzati!”
Ma Antonio non reagiva, al limite dell’incoscienza. Aveva davvero gettato via tutto, non sentiva più nulla, nessun orgoglio, nessuna dignità, nessun pudore. Crollava. Finalmente cadeva, e cadeva di fronte ad una bestia lurida che era più forte di lui, cadeva di fronte ad ogni speranza, cadeva...”Adesso basta! Alzati!” Alfredo, esasperato, colpì ciò che restava di Antonio con spropositata violenza. Improvvisamente la nausea, il rossore delle luci opprimenti, gli risuonarono nella mente infiammandola, scatenandogli un’ira incontenibile verso quel sacco di merda che stava insozzandogli i pantaloni. Un colpo, un altro, sfogava con rabbia inesorabile una sbornia finita male, il livore per un’occasione perduta, il fastidio per quell’individuo che, con la sua melensa sensibilità, rifiutava di fare a pugni con lui e con il mondo. “Alzati, coglione! Alzati, o ti ammazzo davvero!”
Ma da quel corpo riverso non veniva più nessun suono, mentre un rivolo rosso scendeva sottile e denso tra le righe del selciato. Rassettandosi la camicia, Alfredo si allontanò ansando, stolido ed ubriaco, verso la vicina piazza dalla quale ancora arrivavano i rumori sensuali d’una notte d’estate...
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- un racconto denso come il mare, la crudeltà nascosta sul fondo... e al fine come uno squalo bianco colpisce irrimediabilmente... uomini fragili naufraghi