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Buc lo sfortunato
Non so di preciso quando incontrai per la prima volta Buc.
Ricordo soltanto che era una splendida giornata di sole ed era primavera.
Dovevo avere intorno ai 15/16 anni. Ero più giovane allora.
Spesso mia madre, con tono di rimprovero, mi mandava a far compere presso la salumeria a pochi passi da casa.
Giravo l’angolo del palazzo e dopo pochi metri me la trovavo di fronte.
Lo facevo con piacere anche perché passavo di fianco al campetto della scuola elementare dove avevo trascorso molti anni felici. Avevo tanti amici quando facevo le elementari ed ero bravo ad apprendere. Anche le scuole medie andarono molto bene sia in termini di amicizie che in termini di voti. Con la scelta del Liceo Classico le cose andarono diversamente ma questa è un’altra storia…
Dicevamo di Buc giusto? Beh all’epoca fu un incontro fortuito ma cambiò per sempre la mia vita, le mie certezze.
Quella mattina mi sentivo particolarmente solo.
Era un periodo di forti incomprensioni in famiglia e a scuola.
Desideravo solo uscire di casa e fare lunghe passeggiate.
Non volevo altro.
Amici poi neanche a vederli col binocolo.
Conoscevo persone ma non erano esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Mi chiudevo in me stesso giorno dopo giorno.
Alla fine lo diedi per un dato di fatto e non me ne preoccupai più di tanto. Mi bastava la compagnia della mia persona.
Questo fino a quel fatidico pomeriggio di primavera.
Ero soprappensiero e camminavo come per inerzia.
Neanche la scuola vicina mi aveva destato da riflessioni amare e prossime alla depressione.
Il giorno dopo avrei dovuto affrontare una dura interrogazione di matematica ( che io odiavo perché non la capivo) e rischiavo di essere rimandato a settembre con la sciagurata previsione di studiare anche durante le vacanze.
Già immaginavo la faccia dei miei genitori, quando avrebbero appreso la “bella novella” del mio fallimento in matematica. Le cose sarebbero precipitate rendendomi l’esistenza ancor più dura di quanto già non lo fosse fino ad allora.
Girai l’angolo in preda ad una forte angoscia e d’improvviso sentii qualcosa di vivo e in movimento che andava a sbattere direttamente nello stomaco, con forza.
Fu come ricevere un pugno e per un momento rimasi senza fiato.
Mi piegai in avanti per il dolore ma almeno ero tornato totalmente lucido.
Senza accertarmi chi fosse stato raggiunsi immediatamente la conclusione che mi ero scontrato con un ragazzino.
Ero stato colpito da qualcosa di estremamente duro come solo il capo di un bambino può esserlo e mi stavo già preparando a fargli una bella lavata di testa.
In quel periodo strano e intimamente doloroso della mia vita, urlare verso gli altri mi dava una soddisfazione immensa, piacevole.
Alzai gli occhi dall’asfalto grigiastro pronto ad esternare tutta la frustrazione accumulata dai tanti problemi che mi affliggevano quotidianamente ma le parole mi morirono in bocca.
Il sangue lentamente mi si gelò nelle vene.
Inoltre sentii i capelli drizzarsi come spilli, dietro la nuca.
Un cane enorme, robusto, minaccioso stava eretto davanti al mio sguardo.
Se ne stava immobile con il busto e le zampe rivolte in avanti puntandomi come se si stesse preparando per una veloce e letale aggressione.
Accorgendomi di trovarmi in pericolo il primo pensiero fu di buttarmi in una folle corsa verso casa.
Con un po’ di fortuna non mi avrebbe seguito oppure sarei riuscito a distanziarlo.
Del resto erano pochi metri.
Una voce dentro la testa, forse alimentata dalla paura, mi ammonì dicendo che quel cane poteva raggiungermi senza sforzo azzannandomi ad un polpaccio. Il dolore sarebbe stato terribile, straziante.
Iniziai a tremare mentre il cane osservava silenzioso ogni mia mossa.
Lentamente con lo sguardo cercai di captare la presenza di qualche persona sulla strada ma eravamo soli.
Preso dal terrore di essere morso gli occhi cominciarono a inumidirsi.
Di lì a poco sarei precipitato in un pianto disperato.
Un vociare emozionato e divertito di alcuni bambini, provenienti da dietro le spalle mi bloccò giusto in tempo: “ Buc, Buc vieni qua, giochiamo! ”
In un istante due ragazzini e una bambina attorniarono il cane e iniziarono ad accarezzarlo dappertutto.
Buc, o almeno così avevo capito che si chiamasse, scodinzolò la coda con movimenti sempre più veloci e iniziò a dispensare leccate ad ogni mano che lo toccasse.
I ragazzini ridevano di gusto. Anche Buc sembrava divertirsi.
Ora saltellava in alto sollevando le zampe anteriori come se volesse abbracciarli tutti e tre insieme.
Mi sentivo meglio. La paura era passata e una strana sensazione di pace aveva allontanato tutti i brutti pensieri che prima mi tormentavano.
Mi rivolsi al ragazzino più vicino. Aveva dei folti capelli ricci ed una maglietta bianca con un giocatore di hockey stampato sopra: “ È tuo questo bel cane? ”
In effetti vederlo giocare con quei ragazzi gli donava un’aura meravigliosa. Aveva un pelo color nocciola non molto fitto sovrastato da alcune macchie bianche che col sole tendevano a scomparire. La testa era leggermente più grande rispetto al busto che sembrava un po’ appesantito.
Le zampe invece erano corte e non molto robuste. Nel complesso era molto carino e simpatico.
“No, non è mio e nemmeno degli altri, ” disse il ragazzino facendo cenno agli altri due che ora seguivano attenti il discorso, “ lo abbiamo trovato l’altro ieri vicino al campetto. Da allora ci aspetta sempre lì. Solo oggi non riuscivamo a trovarlo…”
“Ho capito. ” Dissi iniziando a sorridere. Non ridevo da giorni e il fatto di per sé era divertente.
Buc, come accorgendosi che non ero io una minaccia per lui, mi regalò una bella leccata sulla mano.
Di rimando lo accarezzai sulla testa liscia fin dietro al collo.
Il cane fu estasiato dal tocco della mia mano e si alzò sulle zampe inferiori come un neonato che lentamente sta iniziando a camminare.
Mi appoggiò delicatamente le zampe anteriori sul petto e cercò di darmi una leccata più grande sul viso. Feci giusto in tempo a voltarmi che la guancia sinistra fu totalmente invasa dalla calda e ruvida lingua del cane.
Ridendo con un sapore e un trasporto che non sentivo da tempo gli presi la testa con entrambe le mani e lo accarezzai dietro le orecchie.
Buc ne fu rapito abbaiandomi con soddisfazione.
Dopo poco ritornò a terra.
Ora sembrava sorridermi. Un viso quasi umano nel suo radioso splendore.
I ragazzini correvano attorno a noi come in un girotondo spensierato.
Il cielo era azzurro, splendente. Il sole caldo e ancora alto sopra le nostre teste gettava sprazzi di luce color oro sull’asfalto consumato e sugli alberi poco lontani.
Osservai tutto come se fosse stata la prima volta nella mia breve esistenza e mi sentii in paradiso.
Un dolce pensiero accarezzò il mio cuore e spazzò via ogni tristezza: “Avevo un nuovo amico. ”
Dopo quel incontro fortuito rividi Buc molte altre volte sia da solo che insieme ai tre ragazzini.
Si chiamavano Luca, Paolo e Milena e abitavano poco distante da casa mia.
Ogni giorno facevamo a gara a chi gli portasse più roba da mangiare e gli trovammo anche una casetta provvisoria nel giardino incustodito della scuola.
Lì costruimmo una cuccia comoda e sicura con tavole di legno un scatolone e tante coperte vecchie.
In realtà dopo pochi incontri avevo preso la decisione di adottarlo e portarlo e casa ma i miei non avevano acconsentito adducendo la scusa che la nostra casa era troppo piccola per un cane di quella stazza.
Feci una dura battaglia ma ne uscii sconfitto. Buc non era benvenuto dalle mie parti.
Poco male. Gli avevo trovato un posto dove stare a pochi passi dal portone del palazzo dove abitavo e non c’era pomeriggio, con buon o cattivo tempo, che non trascorressi insieme al mio amico.
Scoprii anche alcune cose su di lui che prima non conoscevo.
Ovviamente le seppi parlando con i ragazzini che frequentavano la cuccia, i quali erano diventati sempre più numerosi.
Quel nome glielo avevano dato loro prendendolo in prestito da un cartone animato che davano in tv la sera.
Solo che dall’americano Buck lo avevano trasformato in Buc.
Addirittura un ragazzino pestifero, che era considerato il prepotente della comitiva, un giorno con aria di disprezzo mi aveva detto che quel nome era il diminutivo di una parolaccia.
Gli feci una lavata di testa come si deve e lo allontanai dal resto del gruppo con la promessa di parlare al più presto con la madre.
Intanto il nostro comune amico viveva il suo idillio fatto di giochi, carezze e bambini che facevano a gara per nutrirlo.
Io li osservavo e rimanevo estasiato da quello spettacolo.
Del resto Buc era un trovatello che aveva vissuto in strada per molto tempo finché aveva incontrato persone di buon cuore che finalmente lo avevano accettato e accudito.
Almeno questa era l’idea che mi ero fatto fino ad allora e forse era andata proprio così.
Furono giorni indimenticabili, in cui mi riappacificai con me stesso e la vita in generale.
Buc mi donò la comprensione e la maturità che prima non avevo trovato dentro me stesso e quei doni preziosi furono la mia corazza e il mio scudo anche quando le cose iniziarono a precipitare e per un destino avverso e inspiegabile persi il mio amico per sempre.
Era un mattino di fine agosto. Mi ero svegliato tardi. Lo facevo spesso visto che non dovevo studiare. Ero stato promosso e lo spauracchio della matematica era ormai lontano come un brutto sogno che lentamente viene dimenticato.
Me ne stavo in cucina facendo colazione. La mente sgombera di pensieri e preoccupazioni.
Stranamente il pensiero di Buc non ancora aveva fatto capolino tra le pieghe del cervello, una cosa che mi sarei rimproverato a lungo durante gli anni a venire.
In casa non c’era nessuno. Assaporavo la solitudine di quel momento con placida armonia.
All’improvviso tutto fu spezzato da urla disperate e altissime che provenivano dalla strada.
Un presentimento di sventura attraversò tutto il corpo lasciandomi esangue.
“Buc! ” Gridai mentre mi affacciavo veloce alla finestra.
Un gruppo di persone stava vicino all’entrata del giardino della scuola.
Una donna, così mi sembrava, urlava con odio disumano coprendo il pianto disperato e sofferente di un bambino.
“Buc! ” Dissi nuovamente stavolta preso da un dolore profondo preludio di quello che poteva attendermi di lì a poco.
Mi vestii in pochi secondi e con ampie falcate avevo raggiunto la calca vicino al cancello.
Lo spettacolo mi lasciò senza fiato. Ancora oggi sogno quelle persone, quel posto e la sorte del mio povero amico. Ancora oggi sogno di aver avuto la forza e il coraggio di cambiare un destino tanto assurdo e sfortunato.
Accanto alla casetta di Buc un bambino stava seduto a terra lamentandosi dolorosamente.
Lo riconosco subito. È il ragazzino pestifero che avevo scacciato qualche mese prima.
Una ferita profonda sopra l’occhio viene tamponata con dell’ovatta bagnata di disinfettante dalla madre che intanto maledice ad alta voce qualcuno rivolto alle sue spalle.
Inizio a correre verso quella direzione spingendo un paio di donne e un anziano signore.
Mi ritrovo nel campetto, poco distante, dove un uomo vestito con una tuta blu e un cappello sportivo dello stesso colore cerca di catturare Buc con un guinzaglio di ferro attaccato ad un lungo bastone.
Cerco di fermarlo ma un altro uomo vestito uguale mi blocca la strada e mi dice di allontanarmi perché è pericoloso.
Gli dico che non è vero e lo strattono ma è più forte di me.
Intanto il mio amico sta disteso a terra, senza muoversi, con la testa affondata tra le zampe.
Forse avverte il pericolo, forse no, non riesco a capirlo anche perché muove lentamente la coda.
Gli urlo con tutto il fiato che ho in gola di scappare.
Buc mi vede alza la grossa testa e si rimette in piedi muovendosi per raggiungermi.
L’uomo con il guinzaglio di ferro ne approfitta acchiappandolo per il collo da dietro e trascinandolo verso di lui.
Un guaito di dolore mi strazia il cuore e comincio a piangere menando spinte e insulti verso i due accalappiacani.
Cerco di liberarlo ma invano.
Buc viene trascinato a forza in un furgone e portato via.
Quel giorno rimasi seduto per ore davanti la sua cuccia vuota cercando di capire cosa fosse successo.
Di una cosa ero sicuro. Il mio amico non poteva aver fatto del male al ragazzino senza un motivo.
Quando tornai a casa trovai in cucina mia madre che con aria triste mi raccontò come erano andate realmente le cose.
Lo aveva saputo dalla madre di uno dei ragazzini che conoscevo.
Semplicemente quel mattino come tanti Buc si era messo a giocare con i bambini.
Solo che per un impeto di gioia aveva impennato le zampe in avanti graffiando involontariamente sul viso uno dei ragazzi.
Era stato solo un incidente.
Il resto lo avevo visto poi di persona.
I giorni a venire lo cercai in diversi canili del mio paese.
Feci il diavolo a quattro per ritrovarlo ma fu tutto inutile.
Era sparito.
Ancora oggi mi rifiuto di pensare che sia morto.
Sono trascorsi quasi venti anni da allora ma vivo ancora nella speranza che il mio amico Buc abbia avuto una vita lunga e felice.
In uno slancio di speranza e positività lo immagino nella gabbia di un canile mentre lecca con dolcezza la mano di una vecchietta che ha deciso di adottare un cane per farle compagnia in una meravigliosa villetta in campagna.
Si, è andata così! Ne sono sicuro!
Abito ancora nella palazzina vicino la scuola elementare.
E ogni volta che scendo da casa lo sguardo si sposta automaticamente verso il giardino dove un tempo viveva il mio amico.
Mi manca tanto. Sempre.
Ma ora ho una bellissima meticcia, si chiama Nuvola e mi tiene compagnia tutto il giorno con i suoi giochi e le sue coccole.
Ha conquistato anche tutta la mia nuova famiglia (sono sposato e ho un figlio piccolo).
Spesso le parlo di Buc e a volte sembra capire davvero le mie parole.
Lo noto da quelle espressioni così simili a noi umani da renderli quasi degli angeli che ci rapiscono il cuore.
Quelle espressioni che un giorno di tanto tempo fa ho riconosciuto nel muso sorridente del mio amico.
A presto, Buc. Dolce compagno di tanti giorni felici.
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- Io li adoro i cani e se possibile, facendo il giornalista, parlo sempre dei loro problemi e dell'assurdità di certe violenze.
Il mio racconto è una denuncia ( basata su fatti reali) sulla stupidità e la superficialità umana.
Lo hai letto con molto trasporto.
Non posso che ringraziarti tanto e apprezzarti altrettanto.
Un abbraccio
A Presto.
- Non amo i cani. Mi fanno troppa paura. Non ero affatto contenta quando leggendo ho scoperto che Buc era un cane. Mi faceva paura. Anche io avrei pianto scappando e pensando di non avere scampo. Il sollievo dei ragazzini... la normale affezione a una creatura dipendente dal nostro cibo e dal nostro affetto. Ci si immedesima... alla fine ho amato Buc.
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