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l'ultima guerra
Non ci sono più strade, degli edifici restano solo moncherini. C’è polvere e odore di zolfo nell’aria. Il sole sembra non esistere più. L’aria è pesante e grigia. I rottami e le vetrine frantumate ormai sono un’abitudine per gli occhi. Poche ore fa c’è stato il terzo attacco kamikaze della giornata. Venti morti e sessantasette feriti. Tutti bambini. È stato nell’ultima scuola elementare rimasta aperta.
Mi aggiro fra i guerriglieri, tutti a volto coperto, incerta. Sto decidendo di cambiare fazione. Di passare dalla parte del nemico. Fra le molotov e i colpi di mitragliatrice. Qualcuno mi prende alle spalle e mi butta a terra. Quasi mi rompo il naso quando tocco l’asfalto.
-Sei impazzita?!
Mi giro, frastornata. Riconosco Rina. È stata una mia compagna di classe. Eravamo amiche. E non la vedevo da molto, molto tempo.
-Non ancora. Non del tutto.- non è una battuta.
-Bene… Qui attorno è in corso una sparatoria, idiota! Vuoi farti ammazzare?!
Strisciando sui gomiti iniziamo a spostarci sui lati della strada, tenendo bassa la testa. Ora che me l’ha fatto notare. Io ci tengo alla mia vita.
Ci nascondiamo dietro un vicolo. Forse qui siamo al riparo.
-Che ci fai in giro col coprifuoco?- mi chiede Rina. Non è arrabbiata né preoccupata. Solo, forse, un po’ curiosa. Già… Con la guerra anche le emozioni sono razionate.
-Potrei farti la stessa domanda.
-E io risponderei.
Va bene. Perché non dirglielo? Magari può aiutarmi.
-Io non sono tanto sicura che stare con i cattolici sia la cosa giusta.
Rina mi fa segno di abbassare la voce e io proseguo sussurrando.
-Però io sono cattolica, capisci? Non sono atea. Ma i nostri capi sembrano combattere per tutto tranne che per la fede. Ricordi da bambine? Non ci sentivamo parte della nostra chiesa. La frequentavano soprattutto acidelle che passavano il tempo a fare stronzate e a criticare invece quelle che facevano gli altri. Madri di famiglia che mettevano in giro pettegolezzi maligni sui figli degli altri, senza notare che i propri erano di gran lunga peggiori. La nostra chiesa era la casa dell’ipocrisia. E mi sembra che adesso sia la stessa cosa, ma in scala ingrandita.
-È un discorso molto complesso, da approfondire. Solo tu puoi sapere cosa fare. Certo è che se rischi la vita per una causa in cui non credi..
Guardo per terra. Anche Rina non sa che dirmi. Solo le solite, stupide ovvietà che non aiutano minimamente.
Poi mi tira per un braccio. -Vieni. Togliamoci di qui.
Mi trascina fra vicoli bui, in cui è ben distinguibile l’aria malsana generata dai cadaveri. Sfioro qualcosa di molle con i piedi. Voglio pensare che si tratti al massimo di un animale.
Ci allontaniamo sempre più dal luogo da cui stava avvenendo la sparatoria. Gli spari ora sono solo boati lontani. In questa zona alcuni edifici hanno mantenuto la loro altezza. Questo significa che stranamente in questo luogo i bombardamenti sono più rari. Davanti a noi all’improvviso si apre un vasto cortile che, anche se polveroso come il resto della città, appare più luminoso. Il cortile si trova fra un inferriata e un edificio. Fisso lo sguardo sulla costruzione: e costituita da piccole stanzette disposte a semicerchio. Per ogni stanza la parete che si affaccia sul cortile e costituita da finestre di vetro. In alcune l’interno è nascosto da tendine, in altre le sagome sono ben distinguibili: si tratta di letti su cui vi sono adagiati dei feriti. Su ogni porta spicca un piccolo adesivo che rappresenta una croce rossa su sfondo bianco.
-Non sapevo che ci fosse un ospedale del genere in zona..- dico, sorpresa.
Tutt’intorno si affaccendano civili e medici. Soprattutto trasportano feriti in barella e medicinali.
Una barella in particolare attira la nostra attenzione: trasporta un ragazzo dalla cui mano scorre e cade sul pavimento un fiume di sangue. Ma non è questa la cosa strana: invece che lamentarsi per il dolore, il ragazzo ordina esasperato ed infuriato agli infermieri che l’hanno in consegna di lasciarlo andare, perché è sicuro di star bene. Ha gli occhi iniettati di sangue e ispira una grande autorevolezza. È un soldato. E il suo volto mi terrorizza. Continua a gridare e a dibattersi. Sembra un posseduto.
Lo guardiamo mentre sparisce dentro l’unica stanzetta con le tende gialle.
Rina nota la mia espressione. Anch’io la noto. Sono esterrefatta.
Mi mette una mano sulla spalla e non dice niente. Arrivano altre barelle, di corsa. Dalla direzione opposta rispetto a quella dalla quale siamo arrivate noi. Dietro, un ragazzo cammina lentamente, zoppicando. Si tiene sulla testa un grande pezzo di stoffa lercio, sotto il quale si intravede del sangue. Lo riconosco al volo.
Non appena ci riconosce ci viene incontro, senza distogliere, per nemmeno un secondo, lo sguardo dai miei occhi.
-Ciao!- ci saluta, abbracciandoci entrambe, me per prima.
Ricambiamo il saluto senza troppo entusiasmo. È Mino. Fino a circa un anno prima eravamo fidanzati. Lo eravamo stati per cinque anni. In pratica eravamo cresciuti da fidanzati. Poi la guerra ci aveva allontanati.
Rivederlo mi stava dando una strana emozione. Lo rivedo più bello di allora, ancora più simpatico. Fisso il suo sorriso dolce e sento un tuffo al cuore. Ecco i ricordi che risalgono dall’abisso dove li avevo relegati. Si susseguono senza ordine né consistenza e io li assecondo, più serena.
Mi era mancato. Non lo avevo dimenticato. Non del tutto, almeno.
Rina si appoggia all’inferriata e guarda lontano, ma niente in particolare. Mino continua a massaggiarsi la ferita col suo pezzo di stoffa.
-Cosa ti è successo?- chiedo, alludendo alla ferita.
-Niente di che. Stamattina quei bastardi ci hanno attaccati giù al campo, e uno di loro mi ha colpito.
-In testa.- sottolineo.
-Già. Stavolta ci sono andato vicino.
Sorride. Che ci trova di divertente?
Rina non parla.
Gli do una gomitata esclamando -Hey!
Lei si riscuote e mi guarda, interrogativa.
-Che c’è?- mi chiede.
Io scuoto la testa, con gli occhi al cielo.
Intanto Mino continua a perdere sangue.
-Io vado. Credo che con questa ferita ne avrò per un po’. Vieni a trovarmi, Simi, okay?
Io faccio su e giù con la testa, sorridendo. Ci sarei andata. Gli sarei stata vicina durante la convalescenza come un tempo, avremmo parlato e chissà..
Lo guardo allontanarsi. La sua camminata non è cambiata. Sembra saltellare ad ogni passo. Scompare dietro una stanza con al posto delle solite tendine degli stracci strappati.
Torno seria e mi rivolgo a Rina.
-Perché mi hai portata qui?
-Perché hai detto di non sapere certe cose. Qui credo che i tuoi dubbi passeranno. Almeno per me è stato così.
-E che cosa hai scoperto tu?- chiedo, scettica.
-Che i fiumi, di notte, in questa città, scorrono più in fretta. Sono più tumultuosi appena passa la mezzanotte.
-Eh?
-Niente. Io vado un po’ in giro a dare una mano. Tu fai quello che vuoi. Puoi ritornartene fra i proiettili, se preferisci.
Se ne Va. Con l’espressione che sembra una maschera di cera. Scompare fra degli infermieri, in una delle stanzette. Chissà da quanto tempo non sorride. Chissà cosa le è successo dopo lo scoppio di quella che era definita la guerra più assurda della storia. Peggio delle crociate. Peggio del vietnam. Peggio della caccia alle streghe e della shoah. Peggio di ogni guerra fratricida che ci fosse mai stata. La più immotivata. Causata dai capi delle due fazioni indispettiti. Già. Era nata per dispetto. Non si sa neppure come. Dopo un attacco a un vescovado di una città sperduta a opera di squilibrati terroristi, i cattolici avevano ricambiato. E così si era una catena di attentati in cui erano state coinvolte tutte le religioni e che era culminata in una vera e propria dichiarazione di guerra. Poi i capi dei vari stati avevano dovuto scegliere da che parte stare. Non secondo l’ideologia della maggioranza, ovviamente, ma secondo gli interessi dei pochi. E da allora si erano fatti guerra gli uni contro gli altri. Da qualunque parte si fosse schierato il proprio Paese, però, in ognuno era scoppiata la guerra civile. Non vi era né re e né regno. Ognuno seguiva il proprio pensiero, anzi, il proprio interesse. E davvero i fratelli muovevano guerra contro i fratelli.
Anche Simi, a soli quindici anni, era entrata a far parte della guerriglia armata. Dalla parte dei conservatori, di quelli che avevano un Dio. Da allora assieme agli anni della sua vita che erano andati sfumati uccidendo, aveva perso anche tutti i membri della propria famiglia. Madre, padre e due fratelli più grandi.
Mi guardo intorno. Cosa fare? Seguire Rina? Andare da Mino?
Rimango ferma per un po’ . mi viene in mente il volto devastato dalla furia che ho visto passare poco prima. Ricordo le tendine gialle. Ricordo la stanza. Voglio sapere cosa può rendere un volto così terribile. Voglio sapere chi è quel ragazzo.
Mi dirigo alla stanza dalle tendine gialle. Appena apro la porta percepisco il cambiamento d’aria. Puzza ed’è più calda rispetto all’esterno. La stanza è molto disordinata. Alla mia sinistra ci sono due letti a castello appoggiati al muro. Alla mia destra tre letti. Guardano tutti sul sottile corridoio centrale, tranne quello al centro, che è di traverso rispetto alla parete. Sono tutti occupati tranne uno: l’ultimo a destra. Proprio quello accanto al ragazzo che stavo cercando. Nessuno si accorge di me. Sono fortunata. Accanto alla porta c’è un camice bianco. Lo indosso. Mi spaccerò per un infermiera.
Proseguo lungo il corridoio, con gli occhi bassi. Nessuno si volta a guardarmi. Nessuno tranne lui.
Quando gli passo accanto quasi mi fulmina con lo sguardo. Sembra che io sia il suo più acerrimo nemico. Che mi voglia scuoiare sul posto, a carne viva. Inevitabilmente sussulto e mi arresto. Arrossisco e abbasso lo sguardo. Faccio tre respiri profondi e proseguo. Vado a sedermi sul terzo letto. Proprio di fronte a lui. E lo guardo, impassibile. Con un coraggio che non mi appartiene. Lui adesso mi ignora. Guarda la parete. E io posso studiarlo meglio. Ha il volto rotondo, i capelli corti, le sopracciglia folte e gli occhi scuri. La carnagione e i capelli sono chiari. La sua espressione è segnata, inquieta, i suoi occhi spietati e feroci. Mi accorgo che ha le braccia legate. Probabilmente si dibatteva troppo, impedendo le cure.
Ma quello che mi impedisce di distogliere lo sguardo è il suo fascino devastante, favoloso. Non riesco a capire neppure se sia bello o No. So solo che per me è la cosa più meravigliosa che abbia mai visto. In lui vedo i miei stessi lutti, la mia stessa ribellione al corso degli eventi. Il mio attaccamento alla vita. Ma non a questa vita. A quella che meritiamo tutti. A quella vita dove l’unico diritto degli uomini non è di possedere un arma.
In quegli occhi vedo l’ansia davanti al reale, l’inquietudine davanti al cielo. La miseria di fronte agli uomini. Il disprezzo verso le scelte sbagliate degli altri. Il disinganno. Il rimanere attoniti e impotenti. L’odio nei confronti della morte. Ladra.
Vedo questo e molto altro che non so definire. E sento rispetto.
Accanto alle sue spalle muscolose e nude vi è adagiata una giacca da militare. Quel ragazzo, nonostante non dimostri più di venticinque anni è già generale. Ma dell’esercito avversario. Solo allora mi accorgo che nella stanza vi sono ragazzi che militano in entrambi gli schieramenti.
È ateo. E la cosa lo rende ancora più affascinante ai miei occhi. Avremmo potuto parlare. Era quello che volevo.
All’improvviso realizzo quanto la situazione sia assurda. Io sto fissando uno sconosciuto. E lui mi ignora. Sto facendo la figura dell’idiota, ma non mi importa. Sono ammaliata.
Ha la pelle chiara, diafana, quasi trasparente. Una barbetta ispida ricopre le guance e il mento. Gli occhi fissano ancora la parete, ma guardano lontano.
La sua espressione si fa sempre più esasperata. Ovviamente aveva capito che non era né un dottore né un infermiera.
-Si può sapere chi sei e che vuoi?! SPARISCI!- urla all’improvviso. Mi domando come abbia fatto a non ferirsi la gola con un tale urlo. Io trasalgo. Mi rannicchio sul letto con un mano sul cuore dal battito impazzito.
Sono confusa. Non capisco da dove può arrivare tanta violenza immotivata nei miei confronti.
Ma scaccio la paura. Rimango impassibile al mio posto.
-Perdonami. Non volevo darti fastidio.
Lui mi spara il suo sguardo negli occhi. È spietato.
-Io non sono nessuno di importante.
-Voglio sapere chi sei!- urla di nuovo.
-Mi.. Mi chiamo Simi. Soldato semplice.
-In quale coalizione?- non urla più. Questo è piuttosto un ringhio.
La voce mi trema, lo sento. -Quella nemica..
-Sta lontana da me!- Urla più forte di prima e si dibatte nel letto.
-Non ti agitare. Lascia che ti spieghi..- dico con la voce più dolce di cui sono capace. Mi sporgo verso di lui e gli appoggio una mano sul braccio.
Non lo avessi mai fatto. Con uno scatto del collo si gira verso la mia mano e so con certezza che se avesse potuto me l’avrebbe strappata a morsi.
-Non toccarmi!- urla disumanamente. Sembra una tigre a cui stanno strappando via il cibo dalle fauci. Si dibatte con tanta violenza che rimango sorpresa dal fatto che non strappi le corde che lo tengono fermo sul letto.
Quando mi rendo conto di cosa ha causato quella reazione, ritraggo la mia mano e lo guardo, interrogativa. Lui, invece, mi fissa con disprezzo.
-Infami! Vi hanno mandati fino qui ad uccidere?! A far fuori gli indifesi?! E voi lo fate!! Infami!- nella sua voce leggo il disprezzo più spietato.
-No, ti sbagli. Non sono qui per uccidere nessuno. Voglio solo parlare… se tu sei d’accordo, ovviamente..- dico con un filo di voce.
-Bugiarda! Non avete un minimo di orgoglio! Conosco questa tecnica. Ne ho visti molti morire in questo modo! Non avete neppure il coraggio di affrontarci, a tal punto è basso il vostro valore! Ci avvelenate al tocco delle vostre mani, come i serpenti! -la sua voce è il più tremendo dei ringhi, più tremendo dei boati delle bombe.
-Calmati. Ti dico che non è vero!
-Ma sai una cosa?- fissa i suoi occhi (ridotti a due fessure) nei miei, si avvicina a me con sforzo evidente e con la voce più orgogliosa che io abbia mai sentito prosegue: -io muoio sapendo di aver trascorso la vita facendo ciò che la mia testa mi dice giusta. Ho combattuto contro chi sta sfasciando il mondo e la vita. Tu invece hai ucciso un uomo indifeso.
Sorride con disprezzo.
Non so cosa mi spinge a rimanere qui, a farmi trattare in questo modo. Ma resto.
-Bene. Anch’io ho sentito parlare di questo veleno. Ci mette venti minuti ad’agire, vero? Aspettiamo.- dico, risoluta. Incrocio le braccia sul petto, e lo fisso sprezzante, con la mascella serrata.
È così bello guardarlo..
Qualcosa, nei miei occhi sembra calmarlo, ma in modo leggero, quasi impercettibile. Distoglie lo sguardo e torna a fissare la parete.
Intanto dagli altri letti non arriva alcun rumore, come se fossero tutti morti; invece anche loro fissavano dei punti indistinti, sulle pareti o sul soffitto, e vi si immergono.
Torno a fissare il giovane generale. Anche il suo modo di respirare pare infuriato. È veloce e nervoso, quasi come se scandisse i secondi di un orologio. Quasi come se volesse che il tempo aumentasse il suo passo. Che la sua permanenza forzata su quel lettino diminuisse di entità.
Probabilmente è fastidioso per lui sentirsi il mio sguardo addosso, così anche se mi comporto da masochista, evito di fissarlo. I venti minuti passano, e ovviamente è ancora vivo. Non accenna a farmi le sue scuse. Non accenna a far niente. Mi ignora e basta.
-Avevo preso un bambino con me. Un orfano. Sette o otto anni al massimo.- racconto, per fargli capire cosa cerco in lui. Anche se in verità non lo so bene neppure io. -I suoi genitori però.. Erano Nico e Lila Pom. Due dei maggiori finanziatori del tuo esercito. Il piccolo non sapeva neppure cosa significa il termine ateo, ma nonostante questo, appena l’ho portato al mio campo, l’hanno trucidato a sangue freddo, sotto i miei occhi. L’hanno fatto per la loro politica assurda. Non per Dio. Il Dio in cui crediamo non.. Ma ormai nessuno crede davvero in Lui.
Sembra non avermi neppure sentito.
Ma io proseguo.
-Io non condivido questa condotta. Ormai da tempo sento di combattere per qualcosa che non mi appartiene.
Il suo silenzio è ostinato. Mi fa morire le parole in bocca. Anch’io mi chiudo nel silenzio, allora. Il mio è il più triste dei mutismi. Sono davanti a un bivio. Entrambe le alternative sono scadenti. Nessuno sa regalarmi una parola di conforto.
La mia è una situazione penosa. Qui seduta a mirare, estasiata, il volto di uno sconosciuto che mi ignora e cercare in lui conforto in una situazione irreparabile.
Perché Rina mi ha portato qui? Dov’è finita?
Vedo come un lampo rosso in direzione del ragazzo. È la sua mano che sanguina. In breve tempo il lenzuolo si tinge di rosso. Il sangue arriva a inondare il pavimento.
-Stai perdendo molto sangue!- esclamo.
-Grazie alle vostre prodezze da vili.- ribatte lui senza degnarmi di uno sguardo. La sua voce è ancora spietata.
Capisco che per lui l’avvenimento non è degno di importanza, ma poiché io ne sono piuttosto spaventata e preoccupata, scatto in piedi e corro fuori, in cerca di un dottore.
-Aiuto! Un dottore, presto!
Urlo in questo modo per alcuni secondi, poi giunge proprio Rina, in mio soccorso.
-Che succede, Simi?- mi chiede senza scomporsi. Io al contrario sono alquanto agitata.
-C’è un ragazzo li dentro.. Sta.. Sta per morire dissanguato! Da una mano.. Perde un fiume di sangue.
Rina senza fiatare entra nella stanzetta dalle tendine gialle e si dirige al penultimo letto sulla destra. Ha capito al volo a chi mi riferivo. Si china sul ragazzo e lesta scioglie il bendaggio della mano ferita. Io per poco non svengo: la mano è solcata da una ferita profonda fino all’osso, su cui si trova una quantità di sangue sia rappreso che liquido indescrivibile. Rina apre un cassettino sotto il letto e ne estrae una bottiglietta rosa. Versa il liquido ivi contenuto sulla ferita e la fuoriuscita del sangue si blocca immediatamente.
-Sei un medico, Rina?- chiedo sbalordita dalla sua sicurezza. Mi risponde affermativamente con un cenno del capo.
Rimango ammirata. Ha avuto il sangue freddo di continuare gli studi nonostante la guerra, nonostante sapessi che anche lei militava nella guerriglia più attiva fin dall’età di quindici anni.
Evito di esporre tutte le domande che mi sorgono in mente. Vado con quella che mi interessa maggiormente.
-Che cos’ha?- Le chiedo, riferendomi al ragazzo, che per tutto il tempo era rimasto impassibile.
-L’hanno avvelenato. La sostanza che c’era sulla lama con cui è stato colpito impedisce che la sua ferita rimargini.- Spiega Rina, senza abbandonare quel suo sguardo duro nemmeno per un secondo.
-Non c’è rimedio?
-Si che c’è. Questo liquido che gli ho versato è l’antidoto. Se lo prendesse regolarmente entro una settimana sarà di nuovo in ottima salute. Solo che dovrebbe assumerlo ogni volta che la ferita si riapre, ed è impossibile che ogni volta ci siano dottori disponibili. Questo è stato un caso. E sono accorsa solo perché tu mi hai chiamata.- poi si rivolge al ragazzo. -Gli devi la vita, Ross.- afferma con la consueta durezza, venendo, anche lei, ignorata.
Quindi Ros è il suo nome.
-Senti Rina. Se basta versare quel liquido come hai fatto poco fa, posso occuparmene io.
-Hai intenzione di restartene qui per una settimana intera?- Chiede Rina, imbronciata, alzando un sopracciglio.
-Sono sicura che guarirà prima.- Rispondo, con un sorriso, che però non viene ricambiato.
-Fa come vuoi.- borbotta, prima di sparire dietro le tendine gialle.
Ros continua ad essere fosco, burbero e silenzioso. Ogni quaranta minuti circa il sangue ricomincia a fluire. Sciolgo le bende, attenta ad evitare di sfiorarlo, giacché ho ormai capito che Ringo non gradiva, anzi, quando ciò avveniva diventava alquanto pericoloso.
Ormai è la sesta volta che sciolgo questo bendaggio senza che dia il minimo segno di apprezzamento. La frustrazione e anche un po’ di rabbia mi assalgono. I miei occhi si riempiono di lacrime. Proprio allora il volto di Ros si volta lentamente verso di me. Fissa il suoi occhi nei miei. Sembra più addolcito anche se ancora imbronciato.
-Grazie.- mormora fra i denti. Non c’è la minima ombra di gratitudine o dolcezza nella sua voce. Mi ha ringraziato solo per dovere. Ma io mi sento felice lo stesso. Gli indirizzo il più sincero dei sorrisi. Credo che mi brillino anche gli occhi. Lui studia il mio volto per un istante, mentre il cuore mi sobbalza in petto. Sembra leggermente meravigliato. Poi torna a fissare il vuoto.
Io continuo a sorridere e finisco di fasciargli la mano. Poi prendo di nuovo posto sul letto e mi rilasso.
Passano di nuovo i minuti nel più assoluto silenzio.
-Che cosa vuoi da me?- mi chiede all’improvviso. Involontariamente rimango a bocca aperta. Non c’è una sola nota ostile nella sua voce, solo rassegnazione.
Che cosa rispondergli? Mi rendo conto di quanto sia ridicola la mia posizione.
Sospiro e guardo la sua espressione di attesa. Nei suoi occhi vedo una guerra, una tempesta.
-Non lo so..- la mia voce è un sussurro. -Mi piace semplicemente starmene qui.
Mi studia di nuovo, scuro in volto.
Passano altri minuti del più assordante silenzio.
-Sai che stamattina c’è stato un altro attentato?- mi chiede.
-Si. Quello alla scuola.- mi sento stupidamente onorata del fatto che mi rivolga la sua attenzione.
-Tutti quei bambini.. Li hanno uccisi tutti i miei uomini.- l’ultima parte della frase gli sfugge in un sussurro. E capisco. Capisco che il disprezzo che mi ha dimostrato è lo stesso che sente verso di se.
-Non devi sentirti in colpa. Hai solo obbedito agli ordini.- frase banale e inutile, ma non mi viene in mente niente di meglio.
-Già..
Mi torturo per cercare qualcosa di utile da dire, ma in quel momento il mio cervello è solo un abisso di nulla. Si è confidato con me perché evidentemente si aspettava qualcosa, qualcosa che non sono in grado di dargli. Mi sento come un oggetto inutile posato su uno scaffale polveroso.
Mi viene spontaneo spostare la mano verso di lui, ma mi blocco a mezz’aria ricordando la reazione che ha avuto quando l’ho toccato la prima volta. Lui si volta e mi guarda, interrogativo. Io arrossisco.
-Scusa. Volevo solo accarezzarti il braccio. Mi è venuto spontaneo.
Lui non dice niente per farmi riaffiorare dall’imbarazzo e torna a guardare altrove.
Allora rivedo il flash rosso: il sangue ha ripreso a correre via dal suo corpo. Mi alzo di scatto e prendo la boccettina. Lui mi segue con lo sguardo. Probabilmente non si era ancora accorto che stava di nuovo rischiando di morire dissanguato. È del tutto indifferente alla sua situazione. Gli sorrido per tutto il tempo, ma lui sembra non accorgersene.
Quando finisco mi risiedo sul letto di fronte a lui.
-È inutile che cerchi di sapere cosa fare dagli altri. Nessuno che non abbia interessi politici o economici sa se è davvero giusto ciò che fa.
-È già qualcosa sentirselo dire. Temevo fossi la sola a pensarlo.
Fa una mezza risata sarcastica. È così bello..
-Da quanto tempo sei nell’esercito?- chiedo. Non spero molto nella sua risposta, ma meglio tentare.
-Da dodici anni. Ne avevo tredici quando mi sono arruolato.
Ho un tuffo al cuore. E non per la sorpresa che mi abbia considerata a punto di parlare con me, ma perché … Era solo un bambino. È cresciuto fra il sangue.
-E i tuoi genitori?
Fa spallucce. -Non li ho mai avuti. Sono cresciuto in orfanotrofio. Una notte l’esercito ha fatto una retata all’interno dell’edificio. Hanno preso tutti i maschi sopra i dodici anni e ci hanno portati con loro per l’addestramento.
-E tu eri Ateo già allora?- lo so che la mia è una domanda stupida.
In risposta scuote la testa. -Era un istituto di suore. Lì dentro eravamo tutti cattolici praticanti. In pratica ci hanno fatto il lavaggio del cervello. Hanno cominciato col bruciare tutti i crocefissi che portavamo al collo e hanno finito col convincerci che le suore che ci avevano cresciute erano il nostro nemico. Due anni dopo abbiamo bombardato il nostro orfanotrofio. I morti sono stati 27. Tutte suore. Ormai non c’erano più bambini. Nessuno di noi ha avuto il minimo scrupolo di coscienza.
-E invece adesso ti senti in colpa, giusto?
Non mi risponde.
-Io sono entrata nell’esercito di mia spontanea volontà. Sono cresciuta in una famiglia religiosa. Un giorno gli Atei hanno attaccato la mia casa, e hanno massacrato la mia famiglia. Mi sono salvata solo perché mio padre mi nascose in un buco sotto il parquet. Credo lo avesse preparato apposta. Perché ormai si aspettava anche la nostra entrata in guerra da un momento all’altro. Mi sono arruolata per vendicare i miei e per eliminare gli Atei. Per eliminare quelli che mi impedivano di professare il mio credo e offendevano il mio Dio. La loro presunzione di sentirsi superiori, anche nei confronti della libertà di culto, di pensiero e di parola.
-Io volevo eliminare tutti i religiosi, le loro leggi discriminatorie, il loro fanatismo. Il loro essere contro la libertà.
-Già. Siamo stati noi, da soli a toglierci la libertà. E ormai è difficile che la riotteneremo. Chissà per quanto ancora continuerà questa guerra..
-Sai che un tempo voi credenti vi facevate la guerra a vicenda? La storia è piena di presunte guerre sante. Per lo meno adesso siete uniti.
Mi viene da ridere. Credo anche a lui, perché mi sembra di scorgere sulle sue labbra ancora una traccia di sorriso sarcastico.
-Come mai ti hanno legato?- chiedo, fissando le corde che fissano i suoi gomiti e le sue caviglie al letto.
-Perché non volevo ricoverarmi. Alcuni dei miei uomini erano più gravi di me. In fin di morte. Hanno preso solo me perché ero il più alto in grado e sull’autoambulanza c’era solo un posto libero.
Fra di noi ripiomba il silenzio, ma è diverso da quelli che vi sono stati finora, tetri, che mi facevano sentire sola. Adesso non mi sento sola. Ora sento che grazie alle sue poche parole posso dire di conoscerlo.
Inizia di nuovo a sanguinare e stavolta, quando ho finito di medicarlo, fa la cosa che mi sorprende più di tutte.
Nonostante sia legato fino al gomito fa scattare la sua mano verso la mia e me la stringe. Non mi dice niente. Mi guarda e basta. Io, stordita, rimango ferma di fronte a lui come una stupida. Riesco solo a sentire le mie guance che bruciano. Alla fine lascia andare la mia mano. Lentamente. Mentre lo fa il movimento della sua mano sembra una carezza.
Per darmi un contegno tossisco. Lui torna nei suoi pensieri, fissando di nuovo il muro.
Torno a sedermi. Proprio allora la porta dalle tendine bianche si apre e ne emerge Rina. Il suo volto è spaventoso. Non la riconosco. Non vi vedo alcuna espressione. Nei suoi occhi c’è il vuoto più abissale. Passando dà un’occhiata agli altri feriti della stanza, poi viene da me.
Guarda sia me che Ross. -Io me ne vado, Simi. Qui ho finito.
-Dove vai?- chiedo. Non sono mai stata invadente, ma in questo caso ho un brutto presentimento. Il volto di Rina è completamente spento.
-Via.- risponde. E se ne va prima che possa aggiungere altro. Appena apre la porta per uscire mi accorgo che si è già fatto buio.
Rimango a guardare la porta chiusa. Quella visita mi ha infuso una grande tristezza. E tanta ansia.
-La tua amica ti ha mentito.
Guardo Ross, con un espressione fra il consapevole e l’interrogativo.
-Qui non ci sono i turni. Non può aver finito. I medici sono pochi e lavorano tutti fino allo sfinimento. Se smettono prima non vengono pagati.
Mi viene in mente la frase che Rina mi ha detto ore fa.
-I fiumi, di notte, in questa città, scorrono più in fretta. Sono più tumultuosi appena passa la mezzanotte.
Non so come, ho l’istinto di collegarla all’espressione apatica e disperata che aveva poco fa.
E capisco. E nel momento in cui capisco il terrore mi si dipinge in faccia. E Ross lo vede. E capisce anche lui.
-Va a cercarla.
Sto già per scappare via, quando mi viene in mente che non posso andarmene. La vita di Ross dipende dalla boccettina rosa. Istintivamente mi porto le mani ai capelli.
-Se me ne vado tu morirai.- gli dico con la voce tremante.
-Ma se non vai probabilmente morirà la tua amica.
Ecco un altro bivio. Un altro tragico bivio.
Inizio a camminare avanti e indietro per la stanza, riflettendo, ma il mio cervello è bloccato. Non c’è soluzione. Un uomo, quello nel lettino di fronte a quello di Ross, tossisce. Mi volto verso di lui e vedo del sangue sulla mano. Distolgo lo sguardo e lancio un imprecazione mentale contro quell’uomo che vuole solo distrarmi.
-Slegami.- dice Ross.
-Cosa?- mi avvicino al letto.
-Slegami e potrò medicarmi da solo.
-Giurami che non fuggirai via.
-Rimarrò qui.
-Giuralo. Altrimenti non se ne fa niente.
Rimane in silenzio. Lo sapevo. Uno come lui quando giura di fare qualcosa la fa a tutti i costi, altrimenti se ne frega. Sperava che in preda all’agitazione accettassi senza pensarci.
-Lo giuro.- dice infine guardandomi negli occhi.
-Ti prego. -lo supplico.
-L’ho giurato, no?
Cerco un coltello per tagliare le corde. Lui mi indica la sua giacca, appoggiata sulla sedia. Cerco nelle tasche e trovo un grande coltello da macellaio.
-A quest’ora là fuori ci sarà l’inferno. Sta attenta.
-Lo so. Posso tenere il coltello? Non ho armi.
-È solo un prestito.- precisa.
Gli do un ultimo sguardo per salutarlo, poi corro fuori. Nel cortile buio vado a sbattere contro qualcuno.
-Hey, quanta fretta. Ti stavo cercando.
Il sentire quella voce mi fa esattamente l’effetto opposto rispetto a prima. Impreco fra me e me.
-Scusa ma non posso trattenermi, Mino. Vado di fretta.
Faccio per andarmene, ma mi trattiene per un braccio.
-Aspetta, dimmi cos’è successo. Dimmi perché non sei venuta a trovarmi.
-Per favore, Mino. Lasciami andare.- lo imploro.
Finalmente ritira il braccio. Ricordo che lui abita in questa zona.
-Senti, sai se qui in giro c’è un fiume o roba del genere?
-L’unico fiume nel raggio di chilometri è il Tum. È qui vicino. Circa duecento metri alle spalle dell’ospedale. Perché?
La sua domanda rimane sospesa in per aria. Sfreccio via cercando una strada che mi conduca nella direzione indicatami da Mino. Nella foga riesco a pensare alla differenza delle mie reazioni durante i due incontri avuti con Mino quella mattina. Nel primo mi sono emozionata, nel secondo, mi sentivo infastidita.
Adesso ho solo paura per Rina. Adesso ho soprattutto paura di non rivedere Ross.
Ho trovato la strada. È un vicolo buio. In fondo al vicolo spicca una luce. Più che una luce quelli sono dei lampi. I lampi delle pistole. I boati sono assordanti. In fondo a quel vicolo c’è in corso una sparatoria.
-Merda!
Non posso passare in mezzo a una sparatoria. Come minimo rimarrei ferita. Devo cercare un’altra strada. Corro via come una pazza. Non trovo altre strade. E mi sto anche allontanando troppo, col rischio di perdere l’orientamento e la meta.
-Merdissima!
Affondo le mani fra i capelli. Cosa posso fare?
Scorgo qualcosa ai miei piedi. È un tombino. Ma certo! La fogna.
Mi abbasso e con uno sforzo di cui non mi credevo capace sollevo il tombino. Ci salto dentro e atterro dopo alcuni metri in un liquido viscido e puzzolente. Deglutisco e cerco di farmi coraggio. Ripenso al punto in cui sono entrata e alla direzione in cui dovrei andare. Una volta ritrovato l’orientamento proseguo. La melma è abbastanza bassa che riesco a camminare. I rimbombi delle armi da fuoco fanno vibrare le pareti tutt’intorno. Qualche topo squittisce disorientato.
Mi concentro per trattenere il vomito stimando i metri percorsi.
Ecco. Sono arrivata. Nel buio più totale è difficile scorgere la presenza di un tombino che permetta la mia risalita. Poi un flash, sicuramente prodotto da una pistola, illumina un contorno rotondo.
Eccolo.
A tastoni nella parete cerco la scaletta per risalire. La trovo solo dopo un po’ e mi ci arrampico. Arrivo al tombino e aggrappandomi con le gambe alla scaletta cerco di sollevarlo con le braccia. Ci riesco e mi tiro su. Troppo in fretta.
Non mi ero resa davvero conto che anche qui ci fosse in corso una sparatoria. Vengo colpita alla spalla e cado a terra. Il dolore è terribile. La ferita deve essere abbastanza profonda.
Strisciando cerco di allontanarmi. Sono proprio in mezzo alle due bande che si stanno affrontando. Strisciare con una spalla fuori uso è davvero difficile. Ma ci riesco. Non appena il sibilo dei proiettili si fa più lontano riesco a sentire il rumore del fiume.
Dietro di me c’è una ringhiera. Mi ci aggrappo nel tentativo di rialzarmi. Si affaccia proprio sul fiume. Alle mie spalle la sparatoria continua, indisturbata, fra urla e boati.
-Rina!
-Rina!
Mi rendo conto che è inutile. Nemmeno io riesco a sentire la mia voce con quegli scoppi.
Mi tiro su, gemendo per il dolore. Vedo una sagoma scura, una cinquantina di metri più avanti. È lei. Ha ancora il camice e fissa il fiume. Nonostante il buio, grazie alla leggera luce lunare, mi accorgo che davanti a lei non c’è alcuna protezione. Nello stesso istante, la vedo correre in avanti e sparire nelle acque.
-RINA!!
Senza pensarci due volte scavalco il parapetto. Fisso il turbinio delle acque. Inspiro profondamente e mollo la presa. Il volo dura un istante. L’impatto con l’acqua sembra infinito. Vado giù, troppo. Non riesco a risalire. La corrente mi sbatte in ogni direzione con violenza. Mi sembra di stare per essere spezzata in mille pezzetti.
Non c’è più aria nei miei polmoni. Devo risalire ad ogni costo. Qualcosa mi prende per i fianchi e mi trascina. Non ho nemmeno la forza di preoccuparmi. Non riesco nemmeno a capire verso dove mi sta spingendo. All’improvviso sento l’inconfondibile profumo dell’aria. Nonostante senta ancora l’acqua sulla mia faccia decido di espirare. Dell’acqua mi va di traverso e tossisco, raschiandomi la gola. A fatica riesco ad aprire gli occhi.
-Aggrappati alla rocca, Simi!- è la voce di Rina.
Faccio come mi dice e mi tengo stretta a una superficie dura alle mie spalle.
-Ascolta, Simi. Lasciami andare. Non voglio più vivere. Sono sicura che mi capisci. Non voglio più farlo, non in questo modo. Non costringermi.- mi urla, per sovrastare il fragore delle onde.
Rimango senza parole, mentre lei si allontana da me con una spinta e sparisce fra le onde che si schiantano su delle rocche spigolose.
Qualcosa tocca la mia mano. È Ross, che, dalla rocca mi tende la sua mano. L’afferro e mi arrampico. Dietro la rocca c’è la terra ferma. Rina lo sapeva. Mi ha salvata. E io invece No.
Il mio respiro aumenta di velocità. I miei occhi si inumidiscono. E inizio a piangere. A urlare. È il mio sfogo questo. Dopo anni. Ross mi abbraccia e mi accarezza. E io piango ancora più forte, se possibile. Lo stringo con tanta disperazione che credo gli abbia fatto male. Non riesco più a smettere di piangere.
Poi non lo so cos’è successo. Forse sono svenuta o forse mi sono addormentata fra le braccia di Ross. Mi sono svegliata adesso. Sono in un lettino d’ospedale e la prima immagine che vedo è il viso luminoso di Ross.
Si accorge immediatamente che mi sono svegliata. E mi guarda. Non posso dire che mi guardi con un sorriso, ma sicuramente la sua è la smorfia più simile a un sorriso di cui è capace. E nei suoi occhi vedo tanto affetto, non solo la desolazione, come invece era accaduto quando lo avevo conosciuto.
Rimaniamo in silenzio. Ci fissiamo a vicenda. Ora sono io quella senza espressione.
-Da quanto tempo sei qui? Non c’è bisogno che tu rimanga, davvero.
-Ci sono da una notte e un giorno. Sei stata operata alla spalla. L’intervento è stato lungo e rischioso. Il proiettile era così profondo che ti ha perforato leggermente un polmone.
-Rina è morta.
-Lo so.
-Mi ha detto che voleva morire. Di non costringerla a vivere questa vita.
Scoppio a piangere.
-Non ha avuto tutti i torti.- sospira Ross. -Però si è comportata da codarda. I problemi vanno affrontati. Anche quando si tratta di guerra o di vivere una vita indegna.
-Come si può affrontare una cosa del genere?- i suoi ragionamenti mi frustravano.
-Mentre ti guardavo dormire ci ho pensato. Io e te abbiamo le stesse idee, gli stessi scrupoli. Io credo che ci siano molte altre persone come noi. Potremmo radunare un nostro esercito, capisci? Che agisca solo per riportare la pace. Che rispetti le ideologie di ciascuno. Potremmo impedire che si compiano di nuovo azioni come attentati ai bambini. Capisci?
Gli sorrido.
-Adesso sei tu l’infermiere ottimista. I nostri ruoli si sono davvero invertiti.
-Già. Mi dispiace, però. Eri un infermiera piuttosto brava. Sono guarito prima di una settimana, come avevi detto tu.
Ross mi sorride e si china su di me. Mi bacia. Dopo non so quanti momenti bellissimi e interminabili si allontana, accarezzandomi il volto.
Per allontanare il mio imbarazzo cerco qualcosa da dire.
-Ma come hai fatto a sapere che ero laggiù al fiume?
-Quando te ne sei andata ti sono subito corso dietro. Qui fuori ho trovato un idiota che mi guardava con uno sguardo ostile. Mi sono ricordato che quando mi hanno portato qui tu stavi parlando con lui, così gli ho chiesto di te. Mi ha raccontato che gli hai domandato indicazioni per raggiungere un fiume. Non ti ho raggiunto subito perché la mano ha ricominciato a sanguinare e sono tornato indietro a medicarmi perché credo che nella promessa fosse sottinteso che dovessi rimanere vivo.
Rido.
-E le sparatorie? La strada era sbarrata.
-Mi ci sono tuffato in mezzo. Io ci sono abituato. Basta che si sappia strisciare, che si abbia un giubbotto antiproiettili addosso e che ci si copra la testa.
Gli prendo la mano e rido di nuovo. Perché so con certezza che non mi sentirò mai più, in nessun modo, sola.
Abbiamo davvero fondato il nostro esercito. Ogni giorno si aggiungono a noi nuove unità. Sia gli atei che i credenti ci temono. Perché sventiamo i loro attentati, le loro manovre diplomatiche e rendiamo pubbliche le loro mire economiche. E perché le unità che si aggiungono al nostro corpo, provengono dai loro eserciti.
Certo, anche noi uccidiamo. La guerra continua, e la guerra è così. Ma almeno sono di più i civili che possono sperare di vivere. Ancora.
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