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Lorenz
Al postino salito fino al suo piano per consegnargli la posta Lorenz promise che, se la Signoria Vostra si compiacerà di ripassare tra un mese, certamente non si porrà altro tempo in mezzo e ben lieto sarebbe stato anzi lietissimo, di fargli gradito presente d’una lauta mancia che certo meritava e che dal suo canto il solerte impiegato postale s’aspettava ma che, allo stato attuale, le miserrime condizioni non gli permettevano né quello né altri sfarzi, se non a patto di enormi sacrifici.
Così Lorenz richiuse la porta, calzò le scarpe da notte e rientrò nel letto ancora caldo.
Per Lorenz che soprattutto la mattina appena alzato non perdeva il vizio di ragionare con l’emisfero sinistro del cervello, l’abitudine dei postini di città di consegnare personalmente al destinatario la corrispondenza più delicata, era usanza che più d’una volta si ritrovò a considerare barbara.
Tolse l’asciugamano dai fianchi e, nudo come un uccello è nudo quando si distende su un letto, ricontinuò a pensare da dove aveva interrotto; e così lo sorprese il primo trillo di campanello della seconda persona che nella giornata lo chiamava alla porta, lo infastidirono il secondo ed il terzo trillo, mentre al quarto era già tornato in piedi, nudo con asciugamano, in uno stato di confusione evidente.
Senza aprire gridò chi è, ma avrebbe fatto meglio a dire chi era, dato che non tardò a riconoscere con sicurezza via via più solida, il distinguibile rumore di passi in discesa per le scale, col corredo dovuto di stinchi cosce bacino epe torace braccia collo e faccino che gli diceva con sufficiente approssimazione “Colui se n’è andato”.
Da quando i mattini si erano fatti ruvidi, col giungere dell’autunno, Lorenz aveva preso gusto a coricarsi svestito la sera, anche se pure a lui ne sfuggiva l’imponderato nesso di causalità.
Con l’asciugamano-gonna preso in prestito dal bagno di chissà quale albergo, e distrutto qualsiasi ideale di riconciliazione col letto e col sonno, Lorenz giudicò quel mattino ottimo e propenso ad usarsi per una camminata verso i giardini, verso i prati oh!, affollati sicuro di simpatiche vecchie canaglie.
Sbagliato.
Quel mattino si consumava invece dentro stipiti fra i più dementi, dominato il cielo d’un’acquerugiola rosa e stantìa che avrebbe tenuto lontano ogni essere umano e cosa, mobile o accessorio, da spazi aperti o parchi di qualsivoglia natura.
Ma se ne accorse tardi, troppo tardi se vogliamo dirlo, quando già aveva indosso il cappotto blu, le scarpette di pelle scura ed il cappello.
L’aria era guasta, non c’era dubbio; le nuvole spuntavano buie e s’adunavano in un lenzuolo che sembrava costipato di starnuti, ed anche il portone del condominio era serrato, come di fatto si conviene ad ogni rispettabile portone cittadino che non veda luce di portiere.
Non smettendo di ragionare con l’emisfero sinistro del cervello, egli giudicò senza parzialità, ma con astio, le fattezze in cui si combinava la mattinaccia, e bandendo altre similari elevate considerazioni, prese l’abbrivio discendo i due gradini che dalla soglia del portone immettevano diritti al selciato comunale.
È a questo punto che accade il fatto strano; non che il portone trasecolò nel vedersi spalancato proiettarsi nella savana della strada, no; solo che fu a quel punto che Lorenz s’accorse, e fu senza il minimo stupore che se ne accorse, che al posto del cappello, sul lapidare della tigna, stava accoccolato un uomo.
Un omino, invero, a ben dire.
Mezza età, ben vestito d’un completo grigio d’oltremanica e bombetta (bombettina) tenuta fra le mani insieme all’ombrello e ad una confezione di apparente lucido da scarpe.
“Buondì” - disse Lorenz – “A che devo tanto onore? ” (Sarà d’aiuto al lettore sapere che nel pronunciare una tal frase d’affettata cortesia Lorenz non dissimulò nel tono un accento che a sentirlo pareva in equilibrio tra onta e risolino, sensi che in Lorenz amavano coesistere, anch’essi senza una quanto meno evidente ragione).
Dato che l’ometto non rispondeva, Lorenz riformulò in altri termini la domanda:
“Scendi dalla cocuzza bestia e bestiona scellerata, che se non ti sconquasso con la furia innaturale del bicipite è solo perché ancora non ho idea se tu sia omo, ometto, omino, omaccio, omuncolo o uomacciolone, oppure uno schifo di armalo, che so io, un grillo e come grillo magari salti sù e il pugnaccio me lo do per me solo e me lo serbo in sacchetta per il resto della vita”.
Macché.
Quello spreco di virile combattenza avrebbe azzerato una dieci ventina di ometti appollaiati sulla testa di chiunque, ma sull’ometto personale di Lorenz non sortì il ben che minimo effetto.
Lorenz considerò; misurò la distanza fra le nocche e la capoccia; convertì quella distanza nelle principali unità di misura in uso sulla terra (a migliore fruizione di un pubblico eteroglotta) e in un attimo, dico un attimo non di più, risolvette di passare dalle parole ai famosi fatti caricando il sullodato bicipite di una vigoria tale (tale che non ve n’è d’eguale) pronto a sferrare quel colpo già postosi cavalcioni tra Storia e Mito.
Un attimo fu, un attimo.
L’omino cominciò a parlare, favellare, diluviare, dilavare, articolare, chiacchierare, colloquiare, berciare, sillabare e disputare, raffrenando soltanto quando su entrambi i bicipiti, entrambi ancora in bella mostra, cominciavano ad abbarbicarsi le edere.
Passarono i giorni. Il marciapiede dinanzi la casa di Lorenz affollava di fatti e rimembranze, di eroiche gesta funestate da destini crudeli, di arpìe, fate e lombrichi, di magiche sonnambule alchimie che empivano entrambi gli emisferi del Nostro; s’aprirono strade nella foresta, ruttarono i cannibali residui d’indicibili pasti, ruotarono ruote, s’ingolfarono cornucopie d’ogni bene; ribollirono acque, seccarono oceani e i pesci degli oceani errarono per i mondi; si sconvolsero madri, piansero femmine, urlarono virgulti, epiche urla rintronarono per le valli insensibili ai richiami di cantori ansiosi di cantarle; precipitarono balaustre carche di genti che ripugna il solo riportarne; piste carovaniere sopportarono le fatiche di consessi di abulici defenestrati e, ancora, sequenze mai viste di eclissi di luna, di eclissi di sole, satelliti boreali, albe australi. Infine, cani chiaroveggenti che divinavano atroci domani leggendo con le zampe le stelle come fossero in braille, lessero le passioni ininterrotte degli uomini e delle donne lungo la sfilata dei secoli universali, giungendo finalmente al mattino di acquerugiole rosa incombenti sul condominio di Lorenz.
Lorenz che pareva una salma.
Si meravigliò vedendo che l’autunno, trapassando l’inverno, sfociava già in una stagione mai veduta, una primavera forse, forse un altro autunno fotografato dalla parte di sotto e che, soprattutto, dai balconi del caseggiato e dal suo appartamento traboccavano zampilli di piante di fiori di rose che trascinavano nella piena suppellettili e armoires, le cose riposte e quelle perdute, e che restarono immobili pietrificate, non appena l’ometto, come avvertito dell’imminenza di un universale giudizio, reputò opportuno turarsi la bocca, sì come ad una bravo ometto conviene fare.
Seguì un silenzio lungo quanto una fossa.
La gente intorno sembrava di sale.
A Lorenz nel frattempo erano allungati i capelli fino alla terza vertebra della schiena, tranne un tondino, là dove conferenziava l’ometto, luccicante invece come metallo al sole, anzi che proprio s’era fatto di metallo, spurio e sintetico, mai visto, da brevettare.
Fu, ancora, un attimo.
L’omino era dentro di Lorenz, al cervello; puntava mani e piedi spingendo l’emisfero destro lontano dal sinistro e, mirabilmente incredibilmente, Lorenz avvertì che l’ometto gli si era impossessato dei pensieri e glieli rileggeva come carta scritta di pugno.
Non solo; comprese che a questo punto tanto valeva prendere il cane per la coda e chiedere, a lui che sembrava organizzato in divine forme, dei fatti e dilemmi che dall’inizio dell’universale strutturavano e perseguitavano gli umani con i loro spilloni. Ma quale domanda, che cosa?
Concentrossi. Lo sforzo non fu lieve. Sgombrò fra i mille un pensiero, formulò la domanda e poi fu silenzio.
(Silenzio terraneo colorato neppure col conforto cortese della solitudine).
Silenzio.
Certo che per Lorenz che non c’era abituato la giustificazione si trova se qualcosa andò storto; perché da prima si sentì pestare, poi cigolare e dalla cocuzza si dischiuse l’oblò e dall’oblò l’ometto, tutto sudato di lustro di scarpe, che disse:
“Sì, caro Lorenz, mi chiamo Antonio e, come il santo, anch’io vengo da Padova”.
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- ti confesso che questa non l'ho capita: troppi aggettivi, forse, (benché d'effetto), a stemperarne il senso... la seppur scorrevole lettura che ne ho fatto, necessita forzatamente del giovamento di una valida chiave, per arguire al nesso che lega il protagonista al suo "antagonista" e, per tanto, mi astengo dal voto aspettando delucidazioni...
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