racconti » Racconti amore » Un sogno chiamato "danza"
Un sogno chiamato "danza"
Sono sempre stata incantata dal fluire impetuoso del corso di un fiume.
Quel moto perpetuo che non si ferma mai, che s'insinua anche tra le le rocce più strette e supera ogni ostacolo assumendo la forma di ciò che gli impedisce il cammino.
Da ragazza sognavo spesso di trasformarmi in acqua.
Divenire sinuosa come il rigolo di un fiume. Non essere composta di materia solida. Non di carne. Non di ossa. Non di muscoli, ma solo d'acqua.
All'età di quindici anni abitavo in un piccolo appartamento affacciato sul Tevere ed ogni mattina mi svegliavo ammirando dalla finestra della mia stanza ogni suo più piccolo mutamento.
I giorni di secca, quando l'acqua torbida lasciava scoperte le banchine di Ponte Milvio rivestendole di un limaccioso muschio verdastro e i più rari giorni di piena in cui le acque del fiume superavano gli argini salendo fin sopra le scalette dell'antico ponte di pietra.
Trascorrevo le mie giornate con il naso incollato alla finestra sognando di tramutarmi in acqua e di scivolare via dalle lenzuola del mio letto, dove mi trovavo bloccata con entrambe le gambe ingessate, a causa di uno sfortunato incidente che mi aveva costretto a trascorre diversi mesi in ospedale prima che potessi fare ritorno a casa.
Un poster di Margot Fontaine e Rudolph Nureyev, immortalati in un passo di danza nel balletto “Il lago dei cigni”, ed una mia fotografia in cui apparivo vestita in un candido tutù il giorno del mio primo saggio di danza, erano gli unici frammenti sopravvissuti al sogno di tutta la mia vita.
Amavo la danza al di sopra di ogni altra cosa. Amavo muovermi assieme alla musica, far si che il mio corpo ne seguisse il melodico fluire, che mi entrasse nel sangue e nei muscoli tesi e tonici, plasmati da ore e ore di duro allenamento.
Danzare era tutto ciò che desideravo dalla vita.
Avrei potuto digiunare giorni interi. Andare per la strada vestita di stracci. Rinunciare a giocare con le mie bambole preferite... ma mai e poi mai avrei potuto fare a meno della danza.
Quando mia madre mi iscrisse alla mia prima scuola di ballo avevo appena compiuto quattro anni.
Ero una bambina piuttosto gracile e deboluccia per la mia età. Mi ammalavo con facilità estrema e lei aveva sempre un occhio di riguardo per la mia salute.
In inverno non mi faceva uscire di casa se prima non mi aveva coperto per bene fino alla punta del naso ed anche d'estate faceva in modo che, sotto i vestiti, indossassi sempre una maglietta di cotone che mi proteggesse da qualche improvviso spiffero d'aria fredda.
Fu il medico a consigliarle di farmi fare dell'attività fisica per irrobustire sia il mio corpo che la mia salute e lei scelse per me ciò che divenne la mia passione più grande; la danza classica.
Crescendo mi resi conto di quanta dedizione e amore richiedeva questa difficile disciplina.
Ero costantemente a dieta per non ingrassare e non mettere su del peso che mi avrebbe impedito di danzare con la grazia dovuta ad una ballerina.
Trascorrevo i miei pomeriggi all'interno di una palestra tra arabescue e ecartè, provando e riprovando i passi di un balletto fino a raggiungere l'assoluta perfezione.
Tutto ciò mentre le mie compagne di scuola si lasciavano andare a allegri pomeriggi tra negozi e fast food, divertendosi a fare acquisti e cibarsi di alimenti a me proibiti.
Niente hamburger, niente pizza e patatine, ne torte al cioccolato e gelati alla panna, ma solo verdure, insalate e carni magre.
All'età di dodici anni sfiorai il limite dell'anoressia. Arrivai a cibarmi di una mela e uno yogurt al giorno fino a che non giunsi a perdere il gusto del cibo a pesare poco meno di trentacinque chili.
Non avevo amiche con cui confidarmi e trascorrevo le mie giornate solitarie chiusa nella mia stanza provando e riprovando i soliti passi di danza fino a cadere sfinita sulle mie stesse gambe.
Nonostante ogni sacrificio che dovetti compiere, non mi diedi mai per vinta e riuscii ad entrare nella scuola di ballo del teatro della Scala di Milano anche se fui costretta ad abbandonare la mia casa e la mia famiglia alla sola età di tredici anni.
Preparai da sola i miei bagagli, mettendoci all'interno le poche cose che m'appartenevano, tra cui un vecchio diario su cui avevo sempre appuntato le mie esperienze e le mie emozioni, e le mie prime scarpette da ballo che portavo con me, come portafortuna, ovunque andassi.
Mia madre mi accompagnò fino alla stazione di Milano, dove mi diede in custodia alla vecchia zia Giuliana, che mi ospitò in una piccola stanzetta del suo appartamento, a pochi passi dal Duomo.
Le mie giornate si ridussero ad un continuo andare avanti ed indietro tra la scuola di ballo e l'appartamento di zia Giuliana, che nonostante fosse una donna dolcissima, dai capelli color sale e pepe e due occhi verdi come le acque di un lago, spesso e volentieri mi rimproverava per il mio disordine e per il fatto che mangiassi meno di un uccellino.
Le mie relazioni sociali, una volta giunta a Milano, si ridussero praticamente a zero.
A causa del mio carattere introverso, mi fu difficile stringere un legame di amicizia con gli altri componenti della scuola di ballo... tutto ciò fino a quando non incontrai Roberto, un ragazzo di sedici anni con il volto di un angelo ed il corpo perfetto come poteva esserlo solo quello di una statua di marmo.
Ciò che mi attrasse di lui a prima vista, furono i suoi capelli biondi come l'oro ed un sorriso che gli illuminava il volto anche quando la fatica di danzare si faceva estrema e l'unico desidero era quello di sedersi a terra e non rialzarsi più.
Stranamente, a differenza degli altri ragazzi, con lui fu semplice entrare in confidenza.
Parlando venimmo a scoprire che eravamo entrambi di Roma e che, per di più abitavamo nello stesso quartiere.
Iniziammo a frequentarci anche al di fuori della scuola di danza e le domeniche pomeriggio, quando eravamo liberi dalle lezioni di ballo, ci davamo appuntamento nei giardini pubblici della città trascorrendo la giornata assieme mangiando un gelato alla frutta o, se non eravamo troppo stanchi, pedalando in bicicletta.
Il nostro primo bacio ce lo scambiammo in un pomeriggio di maggio, dopo che, uscendo dalla scuola di ballo, lui mi riaccompagnò a casa da zia Giuliana, dandomi un passaggio sul proprio motorino.
Fu dolce assaporare, per la prima volta, le sue labbra.
Aveva appena mangiato una mela ed il sapore della sua bocca morbida si confuse nella mia, digiuna da troppe ore, facendomi l'effetto di un bicchiere di liquore mandato giù troppo in fretta.
Mi ubriacai di lui già da quel primo bacio e capii cosa significasse veramente sentire suonare i violini e avvertire le farfalle svolazzare nello stomaco.
Ricordo che quando entrai in casa ero talmente rossa in volto che zia Giuliana mi si avvicinò e, posandomi una mano sulla fronte, controllò che non avessi la febbre.
Quella sera avevo lo stomaco talmente chiuso che riuscii a mangiare appena due cucchiai della minestra di ceci che lei aveva preparato per me e poi corsi in camera mia, chiudendomi dietro la porta per dare sfogo alle mie emozioni tra le pagine del mio vecchio diario.
Anche se avevo compiuto da poco quattordici anni, la mia vita, allora, sembrava già andare a gonfie vele ed ogni mio sogno stava giungendo al suo compimento.
Ero riuscita ad ottenere il ruolo di Giselle, nell'onimo balletto, che mi avrebbe permesso di debuttare, per la prima volta, sul palco del grande teatro della Scala e Roberto mi aveva donato una piccola fedina d'argento ribadendomi tutto il suo amore.
Il mio vecchio diario era sempre più zeppo di pagine dedicate alla mia felicità per i risultati che ero riuscita ad ottenere nella danza e all'amore che stavo vivendo assieme a lui.
Mi sentivo intoccabile dalla sfortuna ed ogni volta che mi recavo in una chiesa non smettevo mai di ringraziare Dio di tutte le fortune di cui ero stata destinataria.
Tutto ciò fino al giorno dell'incidente.
Non ricordo molto di quella sera. Tutto quello che ho conservato nella mia mente sono solo sbiaditi flashback di me e Roberto che eravamo in sella al suo motorino e ci trovavamo sulla strada che conduceva al Duomo.
Forse stava piovendo e tirava vento, non ricordo... ma in un attimo, Roberto perse il controllo della guida e rovinammo pesantemente sull'asfalto bagnato.
Non persi immediatamente i sensi. Riuscii ad udire il suono della sirena dell'ambulanza e la luce abbagliante dei suoi fari puntare dritto verso di noi.
L'ultimo suono che avvertii fu la voce di un paramedico che mi chiedeva se sentissi dolore alla testa e poi svenni.
Mentre mi trovavo in stato d'incoscienza sognai mio padre.
Lo sognai vestito con l'abito del matrimonio, come era nelle foto che mi mostrava spesso mia madre quando le domandavo di lui e di raccontarmi qualcosa della sua vita, dato che il destino non mi aveva dato l'opportunità di farmelo conoscere, portandoselo via pochi mesi prima della mia nascita.
Ricordo che provai una sensazione di estremo benessere mentre lui mi cullava tra le sue braccia e mi osservava bonariamente con i suoi occhi azzurri e sorridenti.
I suoi baffoni neri spiccavano ancor di più sul suo volto pallido mentre mi stringeva la mano gracile e mi portava a passeggiare sulla riva del mare di Ostia, ed io tornavo ad essere una bambina con il vestitino della festa e le ginocchia sbucciate.
Anche se tutto ciò era frutto del mio stato d'incoscienza ebbi la sensazione di stare vivendo realmente quella situazione e per un breve momento desiderai abbandonarmi ad essa e rimanere, per sempre, accanto a mio padre, ma fu lui che non mi volle tenere lì con se. In un certo senso mi cacciò dal paradiso dove già mi trovavo con la punta di un piede.
Ricordo che nella mia allucinazione lo vidi spogliarsi delle sue vesti e gettarsi tra le acque agitate del mare, raccomandandomi di non seguirlo ma di attenderlo seduta sulla sabbia umida, accanto agli scogli.
Non appena mio padre si tuffò tra le onde del mare, scomparendo sul fondale marino, inghiottito dalle acque torbide, mi ridestai tra le fredde lenzuola di un letto d'ospedale.
Avevo dolore dalla testa ai piedi, come se il mio corpo fosse stato avvolto in un rovo di spine che mi penetravano fin sotto la pelle, ma ciò che avvertii dolermi più di tutto furono entrambe le gambe.
Anche se ero stata appena operata, trovandomi sotto gli ultimi effetti dell'anestesia e di un antidolorifico che un infermiere mi aveva iniettato nella flebo per lenire il dolore, non mi ci volle molto per intendere che la mia carriera di ballerina era praticamente finita.
Le mie gambe erano ingessate dall'anca alla caviglia ed ogni momento mi era impedito dagli strumenti che me le tenevano in trazione ai piedi del letto.
Fortunatamente, Roberto, se l'era cavata con una modesta frattura al braccio destro e qualche lieve escoriazione al viso.
Quella che aveva avuto la peggio ero stata io. Frattura di entrambi i femori e delle tibie.
Avevo, praticamente, le gambe spezzate, cosi come si era infranto il mio sogno di diventare una grande ballerina, che fino a prima dell'incidente era stato l'unico scopo di tutta la mia vita.
Fui costretta a rimanere in ospedale per più di un mese e mezzo e per la maggior parte del tempo non mi potei muovere dal letto.
Roberto non mi fece mai mancare la sua vicinanza in quei giorni di difficoltà.
Venne a trovarmi ogni giorno regalandomi un fiore fresco da mettere in un piccolo vaso sul comodino accanto al mio letto e profumare tutta la stanza.
A volte mi portava in dono anche dei cioccolatini, ma finiva per mangiarli tutti lui lasciando a me solo quelli che non erano del suo gusto preferito.
Nonostante le lezioni alla scuola di ballo trovava sempre del tempo per stare con me è fu proprio la sua assidua presenza che m'impedì d'abbandonarmi alla depressione.
Se non ci fosse stato lui a tirarmi su di morale non credo che sarei stata in grado di abbandonare l'ospedale tanto presto.
Una volta dimessa, ma con le gambe ancora ingessate, mia madre mi fece salire in macchina con lei e mi portò di nuovo a Roma.
Purtroppo Roberto decise di non seguirmi ne io me la sentii d'insistere con lui affinché abbandonasse la scuola di ballo per tonare a casa assieme a me.
Era ancora molto giovane e con tanti progetti da realizzare e poi, visto che io non ero più in grado di farlo, doveva ballare anche al mio posto, rendere reale lo stesso sogno che era appartenuto anche a me.
Quando ci salutammo cercai di essere forte e non piangere, ma non appena lui mi strinse tra le sue braccia sussurrandomi in un orecchio tutto il bene che mi voleva e riempiendomi il viso con i suoi baci, non ressi a tanta emozione e mi sciolsi in un mare di lacrime, come, raramente, mi era accaduto in precedenza.
Prima che mia madre mettesse in moto la macchina e partisse, Roberto mi promise che sarebbe venuto a trovarmi a Roma ogni volta che avrebbe potuto e alla fine di giugno, terminate le lezioni della scuola di ballo, mi giurò che avrebbe trascorso le intere vacanze estive con me.
Quelli che seguirono furono giorni duri. Non potendo ancora camminare fui obbligata a trascorrere le mie giornate distesa sul letto della mia cameretta, occupando il mio tempo a guardare il Tevere scorrere impetuoso al di fuori dalla finestra, immaginando di divenire acqua e liberarmi dalla schiavitù impostami dalla mia infermità, sognando di poter tornare a ballare come ero in grado di fare un tempo.
Mi liberano dei gessi solo dopo altre tre settimane d'immobilità.
La riabilitazione fu lunga e difficoltosa e temetti di non riuscire più a camminare come prima, ne di tornare ad essere una ragazza come tutte le altre, ma non mi arresi tanto facilmente.
M'impegnai negli esercizi, che il mio fisioterapista m'impose per riacquistare un buon tono muscolare nelle gambe, con la stessa tenacia che misi quando iniziai a muovere i primi passi di danza, così quando Roberto, alla fine di luglio, tornò a Roma da Milano, già muovevo i primi passi appoggiandomi ad un paio di stampelle.
Alla fine dell'estate fui in grado di abbandonarle e camminare da sola, sostenendomi al braccio di Roberto.
Trascorremmo gli ultimi giorni delle sue vacanze recandoci al mare di Ostia e fu proprio durante una tiepida notte di primavera che facemmo, per la prima volta, l'amore.
La spiaggia era deserta e silenziosa. C'era solo la luna a spiarci alta nel cielo. Tonda e bianca come un cerchio disegnato dalla mano incerta di un bambino sulla superficie nera di una lavagna.
I nostri respiri di piacere coprirono il rumore delle onde del mare e per un attimo ebbi la sensazione che le stelle scomparissero al cospetto della luce che brillava nei suoi occhi.
Per la prima volta, tra le sue braccia, mi scoprii donna ed il dolore che avvertii tra le gambe mi fece comprendere che da quel giorno, avevo perduto per sempre l'innocenza del mio corpo, donandola a Roberto insieme al mio amore.
Il mese successivo il mio ciclo non si presentò.
Ero diventata signorina alla fine di gennaio, un po' tardivamente a causa della magrezza del mio fisico, e pensai che tutto ciò rientrasse nella norma, ma quando, con il trascorre dei mesi iniziai a prendere peso senza che mangiassi nulla più del solito, mi iniziai seriamente a preoccupare.
Quando parlai con mia madre del rapporto amoroso che avevo avuto con Roberto e del mio ritardo mestruale, per poco non rischiai di farle venire un infarto.
Mi condusse subito dal suo ginecologo che mi visitò e mi comunicò che ero incinta di ben due mesi.
Roberto era tornato a Milano alla fine di settembre e a parte qualche sporadico fine settimana trascorso assieme a Roma, ci sentivamo ogni sera per telefono per darci la buonanotte.
Gli comunicai la notizia della mia gravidanza con la voce che mi tremava di paura e le lacrime che non riuscivano a fermarsi e smettere di cadere dai miei occhi.
Temetti che lui attaccasse il telefono dicendomi che tutto ciò non era un problema che lo riguardasse e che doveva pensare solo alla danza, continuare i suoi studi e cercare di raggiungere il successo... ed invece mi stupì quando affermò, che nonostante la sua giovane età e la sua sprovvedutezza come genitore, era felice di diventare padre, anche se ammise tutto il suo timore per la nuova situazione che ci trovavamo ad affrontare.
Purtroppo non gli fu possibile tornare da me prima delle vacanze di Natale e quando lui si presentò davanti la porta del mio appartamento io gli mostrai il primo accenno di pancia che, piano piano iniziava a crescere e denotare la mia gravidanza.
Katia nacque in una calda giornata di giugno. Ricordo che ebbi le prime contrazioni proprio mentre preparavo la borsa con l'occorrente di cui avrei avuto bisogno quando mi sarei recata in ospedale per partorire.
Il travaglio fu lungo e difficile. Diedi alla luce la bambina ben dodici ore dopo dall'inizio della prima contrazione.
Quando mi posero tra le braccia la piccola Katia quasi non riuscii a credere che io e Roberto eravamo riusciti a dare la vita ad un esserino cosi perfetto.
Aveva delle manine cosi piccine e dei piedini talmente minuscoli che temetti di farle del male solamente sfiorandoli con i miei baci.
Anche se ero ancora molto giovane amai da subito mia figlia e non pensai nemmeno per un istante che essa fosse stata il frutto di un errore.
Anche Roberto non riuscì a contenere la sua gioia quando gli mostrai, per la prima volta, la nostra piccola Katia.
Ebbe timore persino di tenerla tra le braccia, ma quando la cullò tra di esse, mi resi conto che mia figlia non avrebbe potuto avere un padre migliore di lui.
Io e Roberto ci sposammo non appena raggiunsi la maggiore età.
Katia, che allora aveva da poco compiuto i due anni, ci consegnò le nostre due fedi porgendocele accanto all'altare e sorrise allegramente quando noi due ci scambiammo la nostra promessa d'amore eterno.
Da quel giorno sono, oramai, trascorsi venticinque anni. Tra qualche mese io e Roberto festeggeremo le nostre nozze d'argento e per l'occasione Katia tornerà da Parigi.
In questi giorni si sta esibendo sul palco del teatro dell'Opéra di Parigi in La Dame aux camélias.
Ho assistito alla prima dello spettacolo ed mi sono commossa fino alle lacrime vedendo mia figlia esaudire quello che era stato il desiderio più grande della mia vita.
Anche se il destino non mi ha dato modo di coronare i miei sogni ha permesso a Katia di farlo al mio posto.
Roberto è in tournee per l' Italia con il suo ultimo spettacolo di danza: Coppelia.
Mi ha giurato che questa sarà la sua ultima esibizione e che si ritirerà dalla scena per trascorrere con me tutto il suo tempo.
La danza l'ha portato spesso lontano dalle mie braccia, ma sono certa che avremo ancora tanti giorni felici da vivere insieme in questo nostro appartamento affacciato sul Tevere.
Sono ormai diversi giorni che non piove ed il fiume è in secca. Scorre lento e placido come questa sera di mezza estate.
Lo osservo ancora come facevo quando ero ragazza e sogno, sogno di tramutarmi in acqua, sogno di tornare a danzare sulle mezze punte mentre una lacrima mi scende sul viso ed il sole tramonta dietro i tetti di Roma.
1234567
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- La storia è inventata... non c'è nulla di autobiografico...
Grazie per i commenti
- Ops, guardando il tuo profilo ho visto solo ora che hai la mia età.. per cui deduco che non sia tu a festeggiare le nozze d'argento in ogni caso valgono i complimenti per il racconto!
- Una storia davvero commovente.. che fa riflettere molto. Se è un racconto autobiografico, complimenti per la tua forza. In caso contrario complimenti lo stesso per la storia.. è bellissima e coinvolgente
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0