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Unico
Mi era impossibile stare lontano dall’acquedotto. Dal basso mi pareva tanto imponente, altezzoso tra le decine di costruzioni così quadrate o rettangolari e con lo stesso tetto a triangolo. La sua cilindrica figura emergeva su ogni altra offrendo al mondo l’immagine perfetta del “diverso”; tale e quale a come mi sentivo io: difforme, scartato da tutti per via della mia piccola statura e del corpo troppo … come dire … traboccante. Sembrava che il mio nome l’avessero tutti dimenticato e quella parola, “ciccione”, mi rimbombava dentro come un pugno indaffarato a rompermi l’anima. Avevo desiderato un amico con tutte le mie forze, mio Dio quanto l’avevo cercato! Qualcuno che mi stesse vicino, semplicemente accanto affinché il mio sguardo potesse riempirsi di un’immagine sorridente, colorata … certa, invece, i miei occhi rimanevano vuoti del posto disponibile accanto a me. Un amico ti regala pura compagnia e solo ad averlo vicino ti fa sentire importante, così quel verde intenso che all’inizio dava luce ai miei occhi, piano, piano si sbiadiva della mia delusione finché scomparve completamente quando, mi resi conto che un amico non è in vendita, te lo devi conquistare ed io ero ben lontano da qualunque competizione; ero un “fuori gara”, non avevo titoli, ero meno che una nullità e un niente… alla fine dovetti arrendermi. Era una partita troppo dura per me, ogni volta ne venivo fuori esausto, frustato, come m’avessero riempito di botte; pugni andati così a segno che sembrava dilatassero ancor di più il mio stomaco già ingrandito.
Fu proprio dopo uno di questi crolli che mi ritrovai abbattuto, sfinito, disilluso, un piede seguiva l’altro senza meta poiché mi pareva che nulla fosse apprezzabile e, nel grigiore di quella giornata, tutto il mio essere, per caso o per vento, si forse per il vento che mi aveva spinto verso quella direzione, mi ritrovai sdraiato su una panchina rossa. L’unica panchina rossa, sotto l’unica quercia secolare, proprio davanti all’unico acquedotto del paese. All’inizio non mi accorsi di quanto risaltasse quel colore rosso, così come non notai l’albero che lo custodiva, tenevo la testa bassa, giù, come il mio morale, poi, piano piano, mentre cercavo le ultime parole di sostegno e di autostima perse chissà dove dentro di me, sentii il sospiro del vento farsi tangibile in una carezza che dolcemente asciugava le mie lacrime. Avevo sollevato il capo, quasi grato, quando … lo vidi: l’acquedotto. Immenso, abbondante, orgoglioso, indistruttibile.
Fu immediato il mio pensiero: “é così che vorrei sentirmi”.
Era così l’amico che avrei voluto avere.
Lo so, è assurdo, ma per quanto strano possa sembrare, io occupavo quel posto vuoto che tanto avevo desiderato riservare ad una persona speciale e non era un posto qualsiasi, era una panchina rossa protetta da una quercia secolare accanto ad un maestoso, cilindrico acquedotto.
Io c’ero.
Da quella volta non passò un giorno senza che io mi fermassi sotto l’albero ad ammirarlo per ore. Era diventato quasi un rito, un rito così naturale che se lo schivavo mi pareva potessi perdermi un frammento di preziosa vita.
Sulla panchina rossa mi sentivo al sicuro, sereno, leggero, non pensavo più ad un amico impossibile anche se l’ inquietudine dei chili di troppo che avevo addosso aumentava ogni volta che ci riflettevo, ma come per magia, quel pugno così indigesto che per lungo tempo aveva preso dimora stabile dentro il mio stomaco, sembrava si stesse stemperando, tale ad una pastiglia effervescente dentro un bicchiere d’acqua fresca.
Non appena raggiungevo la panchina rossa, fissavo il mio sguardo sull’enorme costruzione in attesa di vedere che ne so, un piccolo movimento e a volte succedeva; mi pareva respirasse, avevo l’impressione che la sua circonferenza si dilatasse e si restringesse seguendo un ritmo preciso e poi, anche se non ero in grado di capire perchè, mi era facile parlare con lui. Riuscivo a raccontargli tutte le mie pene e le mie delusioni, quella rabbia che così a lungo aveva dilaniato la mia anima era uscita dal mio cuore ed era come se le foglie della quercia l’avessero respirata tutta, riciclata e lasciata al vento. L’acquedotto oramai era al corrente delle mie aspettative e dei miei sogni.
Era così semplice comunicargli i miei pensieri!
Mi ascoltava con un’attenzione che non avevo mai incontrato, forse perché ero sicuro che non mi avrebbe mai tradito, mi fidavo di lui. Col passare dei giorni, la nostra relazione si era solidificata, proprio come le sue mura, non avevo bisogno di chiedergli se mi amava, portavo dentro di me questa certezza. Piuttosto, avevo qualche dubbio sul suo cuore…aveva la stessa forma del mio o era cilindrico? Forse era come una palla che galleggiava nell’acqua! A volte, quando l’aria si faceva silenziosa, mi pareva di sentire dei tonfi… erano battiti? Alla fine mi convincevo che il cuore dell’acquedotto saltellasse, come una palla!
Ed un giorno osai. Volevo toccare la pelle del mio amico. No, smaniavo semplicemente raggiungerne il cuore. Un desiderio incontenibile aveva preso il posto del vecchio pugno, ma questa nuova presenza era diversa, mi dava la stessa ebbrezza che avevo provato quella volta quando, dopo l’ennesima batosta dei compagni, ingurgitai una bottiglia intera di vino rubata dal frigo di casa.
Pensai che il cuore dell’acquedotto dovesse essere ben protetto; bisognava arrampicarsi su tutti quei gradini, li conoscevo bene, erano centotrentasei, li avevo contati per giorni, mio Dio… e che ci voleva per raggiungere il suo cuore? Una bella scalinata! Nonostante l’ irrefrenabile desiderio di farlo, il mio corpo si ostinava a rimanere fermo, impacciato davanti al primo gradino, mi voltai indietro per guardare la panchina e poi la quercia in cerca di sicurezza, niente, il mio cuore cominciò a battere forte…
“ è anche il tuo cuore amico mio che salta con il mio? “
Balbettai sottovoce sperando in una risposta e … questa arrivò. Improvvisamente … udii un fischio acuto.
Proveniva dall’alto dell’acquedotto, proprio alla fine di tutti i centotrentasei pioli. “C’è il tuo cervello lassù, amico mio? ” Mi domandavo. Pensavo delle cavolate, lo so, ma in quel momento ci credevo. Lui era il mio amico, dovevo fidarmi. Il fischio si ripetè ed io rimasi stupito, tanto da credere che per miracolo l’acquedotto avesse acquistato il dono della parola, proprio per me. Guardai in su e vidi un piccolo uomo che si sbracciava nell’intento di richiamare la mia attenzione; m’ invitava a salire. Non fu facile rispondere a quella richiesta. Riuscii a salire solo la metà di quei gradini e mentre ansimavo per la fatica, l’ometto si sporse urlandomi che dovevo lottare per le cose in cui credevo, che quella era solo una piccola prova e che se rinunciavo, il destino della mia vita sarebbe stato per sempre segnato: “mai arrivare fino in fondo, fermarsi prima è d’obbligo”.
Non volevo che un ometto qualsiasi interferisse nella mia vita, presi le sue parole come una sfida e poi m’incuriosiva sapere cosa ci facesse un uomo di quell’età, lassù, sulla testa del mio più caro amico. Richiamai tutte le mie forze, anche quelle invisibili, dovevo raggiungerlo, dovevo dimostrargli che “il ciccione” era in grado di poter fare qualsiasi cosa e quella, l’avrebbe fatta, a tutti i costi, anche se rischiava di perdere i sensi e cadere morto schiantato di sotto.
Lo raggiunsi cercando di nascondere l’ immane sforzo che mi era costato, ero tutto sudato, ma soffiava un vento gelido che mi fece rabbrividire. L’ometto non era poi così piccolo a guardarlo da vicino. Aveva una lunga barba con lunghi capelli, s’intravedeva qualche treccia colorata e… cosa c’era sulle quelle treccine? Bho! Parevano piccole farfalle. La sua bocca s’intravedeva appena, ma i suoi occhi brillavano come due piccole stelle. Stava seduto davanti ad una stufetta che non so come, veniva alimentata sfruttando la forza dell’acqua rapita attraverso un foro e quella del vento che aveva catturato per mezzo di due girandole colorate. Davanti alla stufa aveva messo in fila, uno dopo l’altro, dentro un sottile fil di ferro, dei piccoli bocconi di carne, almeno così credevo perché, quando si accinse ad offrirmene uno, il sapore era strano, assomigliava più a quello di un crostaceo.
Non seppi mai cosa mangiai, ma lo inghiottii poiché in quel momento mi parve importante accettarlo. Ero attratto da quello strano essere che aveva preso alloggio sopra il mio acquedotto; proprio dietro di lui vidi una sorta di tenda, con dentro, così mi sembrò, una specie di sacco lungo più della sua figura, della stessa fattura di quello su cui mi aveva invitato ad accomodarmi.
“Vivi qui? ” - Gli chiesi, ostentando una certa sicurezza. Non ebbi risposta.
“Sei solo? ”- Proseguii, nascondendo l’imbarazzo del suo silenzio. Nulla.
“Quanti anni hai? ” – Silenzio ancora. Insomma era stato lui a lanciarmi quella sfida, l’unica cosa che doveva fare ora, era socializzare! Abituato all’indifferenza, rinunciai ad avere un dialogo con lui e mi alzai dal sacco-sofà cercando di esplorare il mio vero amico.
Ero salito fin lassù per cercare il suo cuore e “perciccia” lo avrei trovato. Fu solo dopo qualche minuto che udii la sua voce:
-“ Fai troppo rumore. Quassù non c’è bisogno di parlare. A questa quota si presta attenzione ad altre voci. Per trovare ciò che cerchi, devi saper ascoltare. Ascolta le voci del vento prima che esse si dileguino, perché il vento le cattura, le porta qui, le dà all’acqua e l’acqua le nasconde”.
Le voci del vento… l’unica cosa che sentivo era il fruscio delle girandole che sembravano impazzite e quello delle foglie che giravano vorticosamente intorno alla tenda e a noi. Mi alzai e il cielo mi sembrò così vicino: potevo toccare le nuvole.
- “Puoi essere una nuvola se lo desideri”- Mi disse con tranquillità il vecchio.
-“Cosa ne sai tu di quello che voglio? ” – gli risposi
-“ Puoi essere il vento e puoi essere l’acqua, puoi essere tutto ciò che vuoi” - Continuò.
- “Vorrei soltanto non essere un piccolo ciccione che tutti evitano e deridono, vorrei diventare come gli altri ragazzi! ”- Soggiunsi.
- “ Sei già un ragazzo e sei unico. Sei unico. Questa è la cosa più speciale che potesse succederti! Gli altri hanno bisogno di te per essere completi, è il tuo stesso bisogno, non capisci? Solo che deve passare un po’ di vento! ” -
-“ Che significa che deve passare un po’ di vento? ” - M’incuriosiva il suo modo di parlare.
- “Quando qualcosa non si riesce a comprendere, bisogna aspettare. Aver pazienza che il vento venga a spazzar via il vecchio per poter portare cose nuove. Ciò che oggi può apparirti offuscato, domani potrebbe esserti svelato. Devi solo aspettare, ma senza inquietudine. Accetta come un dono tutto ciò che il giorno ti offre, non ribellarti. Sorridi, perché al vento piace il sorriso, se la gente sapesse che lo porta alle nuvole! Le nuvole conservano il sorriso degli uomini per le giornate di pioggia, hai presente l’arcobaleno? È il sorriso di tutti che il vento regala alle nuvole! Ultimamente se ne vedono sempre meno e gli arcobaleni sembrano sempre più scoloriti! Guarda ogni cosa come se fosse pulita dal vento, come se la vedessi per la prima volta e, non fermarti mai all’apparenza”. -
La sua voce mi scaldò il cuore, aveva un non so che di dolce mentre parlava. Non compresi chiaramente ogni parola, ma tutto quello che mi disse sapeva di buono.
Lo abbracciai, come si abbraccia un amico, mi venne spontaneo pensare che forse era l’anima dell’acquedotto e che si era materializzata proprio per me! Sapeva di buono, mi fu facile immaginare che aveva il profumo della primavera, dell’estate, dell’autunno e dell’inverno semmai una rondine o un raggio di sole o la pioggia e la neve odorassero. Mentre lo stringevo gli sussurrai: - “Dimmi il tuo nome, perché io non debba mai dimenticarti”. -
-“Unico” - Mi sussurrò.
Ma che cavolo di nome era, Unico?
Non finii di pormi la domanda: -“Unico è bello, tanto quanto Primo o Secondo, o Alberto o Paolo o… ciccione. Sei bello tu, con tutto ciò che hai nell’anima. Le cose preziose sono difficili da trovare: cercati. A cosa serve un bel vaso colorato se contiene sabbia? “ –
Unico, mi accompagnò verso la discesa, era tempo che tornassi a casa, mi strinse la mano e mi sorrise, pensai al vento che avrebbe portato quel sorriso alle nuvole. Mentre scendevo lo guardavo e la sua figura ritornava piccola.
La discesa mi sembrò meno faticosa perché non contavo i gradini, ma pensavo alle sue parole e mi sentivo stranamente leggero e felice. Ero bello. Mi piacevo. Forse il vento lassù si era portata via tutta quella sabbia che appesantiva la mia anima. Tornai a casa con passo veloce, ma sotto casa rimasi meravigliato; mi accorsi che non mi ero mai fermato a guardare il tramonto. Quella sera, sopra al monte Rosa, le nuvole e il vento avevano disegnato ameni paesaggi. Il cielo era cosparso di piccoli laghi dorati tra cespugli e alberi e sembrava che snelle gazzelle compiessero voli leggeri tra un dipinto e l’altro. Mi fu naturale sospirare profondamente e quando sentii il soffio del mio respiro, pensai al vento e a come in quel momento avesse reso nitido il mio sguardo. Regalai un sorriso alle nuvole. A casa, persino la mamma mi sembrò più bella del solito, l’abbracciai e le dissi: -“Ti voglio bene mamma”- Lei mi strinse forte e mi baciò: -“ Anch’io ti voglio bene tesoro, sei la cosa più speciale che potesse capitarmi” -
Mi ritirai nella mia camera, aprii la finestra e mi distesi sul letto, davanti a me, sopra il comò c’era la foto che mi ritraeva insieme a mio padre dopo una gara di pesca dello scorso anno; lui mi appoggiava il braccio sulla spalla ed il suo viso era raggiante… ma quanti arcobaleni possiamo dipingere sul cielo? Una folata di vento fece fremere le tende, mi alzai nell’intento di chiudere la finestra e la mia immagine allo specchio mi bloccò. Mi fermai a guardarmi e mi sorrisi. Ero proprio un bel ciccione, un bel ciccione importante.
Già, ero proprio un bell’esemplare… unico… di ciccione.
Tornai l’indomani all’acquedotto, non osavo più pensarlo solo mio. Era anche di Unico. Salii i pioli di ferro con avidità, ma quando arrivai in cima ansante, non c’era più nessuno. La stufa, la tenda, le girandole, il sofà, Unico… niente. Non poteva essere sparito, non potevo essermelo sognato. Lui c’era stato, io l’avevo visto! Mi aveva parlato, io l’avevo sentito! Mi sedetti sulla testa dell’acquedotto: due menti ragionavano meglio di una sola, ripensai alle parole di Unico: “… ascolta le voci del vento prima che l’acqua le nasconda… sorridi…”. Un gruppo di foglie secche improvvisamente si mise a girarmi intorno, mi parve d’udire il prillo delle girandole, fu così che il vento cominciò a soffiare. Aveva smosso le fronde della vecchia quercia e l’aria iniziava a coprirsi di mille vocii, di dolci sussurri e piccole risate. Ascoltavo ogni situazione con serenità, come se fosse la cosa più naturale del mondo e, prima che l’acqua nascondesse ogni parola io sapevo già di una storia che era appena finita e di un’altra che stava per cominciare.
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