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Il re dei gamberi
Mi aspettavo di trascorrere una sera come le altre; perciò, dopo aver stappato una bottiglia di vino bianco che tenevo in frigo, andai fuori sul terrazzo di casa — quello che dava sul giardino — ad aspettare che si facesse l’ora giusta per uscire a cena con alcuni amici. Doveva essere una serata simile a tante altre, ripeto, ma stavo troppo male affinché lo fosse veramente.
Malgrado ce la mettessi tutta, non riuscivo proprio a superare il fatto che mi avesse mollato. Mi era impossibile da sopportare. L’avessi tradita, magari, lo avrei capito e me ne sarei fatto una ragione; ma ero sempre stato onesto e dabbene con lei, e adesso non meritavo di stare lì a soffrire come un cetaceo spiaggiato.
Invece, lei non aveva avuto pietà e all’improvviso era scappata senza darmi tante spiegazioni. Neanche fossi un rotolo di carta igienica della più scadente: tanti saluti e via a Sharm, a nuotare tra i coralli con un nuovo Napoleone pieno di grana. Come se fossi il peggiore degli uomini presenti sulla terra.
Ero davvero a terra insomma e il caldo estivo non mi sorreggeva affatto. Neppure il bianco che stavo bevendo mi era di sollievo e stavo quasi giungendo alla conclusione di fare qualche sciocchezza e combinarla grossa, quando per caso — nel chiaroscuro del crepuscolo — vidi quella strana figura sbucare tra le picche di nocciolo che avevo interrato nell’orto allo scopo di fare arrampicare i fagiolini.
A tutta prima, pareva un canguro. Mi rendo conto che sia difficile ammettere la presenza di un simile animale in un giardino della Brianza; cercate di capirmi, non è quella la sua casa! Da quello che ricordo, i canguri vivono nel bush australiano. Però, ci assomigliava davvero. Sarà stato per il taglio degli occhi o magari sarà stato per lo sguardo immobile. Non lo so di preciso. Gli mancavano soltanto le tipiche orecchie.
Sul momento, pensai che si trattasse di un animale scappato da qualche circo dei dintorni. Visto il periodo, la zona era piena zeppa di sagre paesane e altre sarabande, quindi non sarebbe stata un’eresia pensarlo. Sta di fatto, però, che qualcosa non mi convinceva. Non riuscivo a spiegarmi come mai fosse finito nel mio orto e, soprattutto, non riuscivo a comprendere perché adesso mi fissava come un illusionista.
Lo percepii, quando quella specie di essere sgusciò di traverso dalle aste e avanzò tra i cespugli di lattuga. Porca miseria: osservandolo meglio, sobbalzai sul terrazzo. Non era un canguro e non era neanche un coniglio gigante. Non era neppure un vero animale. Avevo a che fare con un grigio.
Un grigio, capite? Un alieno. Per essere preciso, uno di quelli considerati tosti e cattivi. Perbacco! Cosa stesse combinando, tra le mie verdure, una sera di agosto, lo sapeva solo Dio.
Comunque, mi è difficile descrivere cosa provai in quel momento. Non credo fosse proprio paura tuttavia. È assai complicato cercare di spiegarlo e abbiate pazienza, se, nel provare a farlo in qualche modo, mi aiuterò rifacendomi a una disavventura successa al dottor Livingstone.
Può sembrare banale come esempio, ma una volta, scorrendo le pagine di un libro che parlava di viaggi africani, avevo letto di una sua esperienza con un leone. Il dottore era stato aggredito e raccontava che, mentre rischiava la pelle sotto gli artigli della fiera, era stato indotto — dalla sua stessa natura — in uno stato sognante in cui non soffriva né sentiva dolore. Aveva vissuto tutto l’evento in trance, neanche fosse stato sedato da una dose di cloroformio. Era probabile, affermava, che questa condizione si produceva in tutti gli animali aggrediti dai carnivori, come se si trattasse di un pio provvedimento di Dio per lenire la sofferenza della morte.
Ora, non c’erano leoni e io non ero né Livingstone né una gazzella naturalmente; l’essere non mi stava neanche assalendo invero. Ma penso che mi stesse succedendo la medesima cosa. Magari era solo un effetto dell'eccitazione, ma facevo sul serio fatica a entrare nella realtà della situazione.
In ogni caso, l’alieno non si arrestò e continuò a infilarsi tra le verdure, facendo ben attenzione a non calpestarle. Era coperto da una specie di tuta, chiaramente grigia e si muoveva come se, al posto dei piedi, avesse avuto un paio di sci da fondo; sembrava impegnato a svolgere una gara di skating sull’humus del mio orto.
Giunto sotto il balcone si fermò e trasse una specie di lungo sospiro, identico al fischio di un treno in arrivo; quindi voltò la testa un paio di volte, forse per verificare che non ci fosse qualcun altro in giro. Alla fine, sollevò gli occhi gialli e dopo averli spalancati, come i fari abbaglianti di un’auto sportiva, aprì la bocca.
«Ciao!» ne uscì.
Solo ciao! Disse ciao e restò lì, vigile, nell’attesa che io rispondessi qualcosa.
Era l’ultima cosa che avrei immaginato. A tutta prima, mi sarei aspettato un fulmine in mezzo alla faccia, oppure che mi turbinasse addosso un raggio viola sufficiente per portarmi a qualche anno luce di distanza, invece…
Ciao: come se fossimo al bar. Niente altro.
Ovviamente, dopo una breve esitazione, gli risposi allo stesso modo e lui, dopo avermi dato la sensazione di aver studiato il timbro della mia voce, cominciò a parlare in maniera solenne e pomposa.
Pareva quasi che la sua voce uscisse da un apparato stereo, ma non dava fastidio. Anzi, ti imbambolava mentre parlava e vi giuro che mi fu impossibile evitare di ascoltarlo.
Mi spiegò per bene la situazione, neanche fosse il mio migliore amico. Dovevate sentirlo? Ci mancava solo che facesse un salto e salisse sul balcone, dove stavo io, a farmi compagnia con un bicchiere.
Che roba! Pareva un docente universitario per quanto la sapeva lunga. Che tipo, accidenti. E che oratoria. Come minimo, avrei dovuto studiare un miliardo di anni per esprimermi in un modo così corretto. Non sbagliava un concetto nello spiegarsi e non potei interromperlo per quanto lo volessi.
In ogni caso, quello che mi raccontò e da non credere. Giuro, che sono più vere e credibili certe favole raccontate ai bambini. Mi disse che non era sceso per farmi un impianto e non stava lì per eseguire qualche test intrusivo; non aveva neppure intenzione di portarmi, per sempre — come avevo supposto io — su qualche sistema disperso, chissà dove, nella Via Lattea. Affatto! Stava lì, siccome il sottoscritto, aveva ricevuto il premio come terrestre più sfi…, sfortunato dell’anno.
Mamma mia: di cose strane me ne sono successe tante in vita mia, ma questa le batteva tutte. Va bene, ero stato mollato brutalmente da una ragazza. Inoltre, ero andato in ferie, dopo aver realizzato il budget di vendita più basso da cinque anni a questa parte. Come se non bastasse, avevo pure una rogna con un cuscinetto dell’alternatore della macchina e lì, tanto per farmi contento, mi era appena scaduta la garanzia. Ma affermare, per questi tre motivi, che ero il terrestre più scalognato dell’anno e che lui stava lì per consegnarmi un premio, mi sembra proprio grossa.
Eppure, non ero sotto ipnosi e non mi ero di certo scemenzato il cervello con qualche porcheria chimica. Non è da me fare certe cose. Va aggiunto che eravamo in ottica notte di San Lorenzo e può darsi che, alzando gli occhi al cielo, avevo osservato una stella cadente. Magari, senza saperlo, avevo espresso un desiderio. Ma sono sicuro che il mio perverso inconscio propendeva per altre tante cose; sono alquanto sereno sul fatto che la mia coscienza nascosta, non avrebbe optato per un incontro del terzo tipo. D’altra parte, stavo solo aspettando alcuni amici per uscire a cena. Dunque, cosa voleva dire un fatto simile? Pensai, persino, di aver bevuto del vino fermentato male e di essere andato via di testa.
Ciò nonostante, il tipo stava lì. Rimaneva lì, anche se mi davo dei pizzicotti sulle braccia; quindi significava che — premio o non premio — non stavo sognando e non ero neppure rincretinito.
No; c’era davvero l’amico, in carne, ossa e materia grigia. Potevo pensarla come volevo, ma lui stava proprio lì, austero come un araldo medioevale, solo per consegnarmi un premio: parole letterali. Lo ribadì più di una volta. I motivi della sua visita non erano altri. Men che meno, quello di usarmi violenza.
Del resto, su quest’ultimo concetto, insisté parecchio. Non aveva proprio nessuna intenzione di farmi del male. Non era una sua prerogativa. Anzi, per essere preciso, disse che nessuno di loro, scendeva sulla terra con ordini del genere. Era un luogo comune, tipicamente stupido e umano, pensare che gli alieni fossero solo dei grossi bastasti grigi con le antenne. Il loro unico e vero disegno, dalla notte dei tempi, era quello di aiutarci. Poteva apparire difficile da accettare, ma disse che ci aiutavano da quando eravamo apparsi sulla terra con il cervello di una scimmia. Alla faccia di tutte le balle che dicono sul loro conto.
Aggiunse, che non eravamo solo delle innocue cavie da studiare per i loro esperimenti (esperimenti svolti allo scopo di migliorare la nostra evoluzione dopotutto). No. Loro ci adoravano come figli e spesso selezionavano uno di noi, solamente per il puro piacere di farlo contento e regalargli qualche momento di gioia fuori della norma.
Capito?
Per la verità, qualche umano, a volte, aveva frainteso le cose, ma...
Questa volta, in ogni caso, era toccato a me. L’alieno spiegò che la mia vita — in effetti — rispetto alla vita di altri terrestri disperati, non era mica una tragedia. Magari, qualcuno, avrebbe potuto fare delle obiezioni sulla scelta del sottoscritto. Ma loro erano estremamente ligi a certe regole e non baravano nell’eseguire i loro compiti; in un remoto luogo nello spazio, era uscito il mio nome ed ero io a beneficiarne.
Comunque, l’amico, mise le mani avanti. Disse subito che non mi sarei arricchito. Non rientrava nei loro disegni fare arricchire qualcuno. Era contrario al loro codice etico e morale. Non sarei diventato neppure invisibile e non mi sarebbe stato concesso in perpetuo qualche superpotere. Nulla di così eccelso. Il premio, che avevo vinto, consisteva solo in un bel viaggio da fare con il loro teletrasporto. Tutto qui.
Vi giuro che restai come un pezzo di ricotta per almeno un minuto. Poi, però, ricordo che trovai il coraggio per domandagli se potevo rifiutare.
Lui mi rispose dicendo che potevo fare quello che volevo, ma sarei stato davvero uno sciocco se avessi rifiutato un’opportunità del genere. Così accettai, sebbene prima, di manifestarlo apertamente, gli domandai che rischi correvo.
Non correvo nessun rischio reale. Il grigio spiegò che, la tecnica usata dal loro teletrasporto, era sicura. C’era stato qualche problema nel Cretaceo — tanto che avevano fatto un bel disastro con alcune specie animali — tuttavia da quando era usato per noi esseri umani, il dispositivo, non aveva mai mostrato anomalie. Funzionava come il protocollo usato in rete per la trasmissione delle pagine ipertestuali. Sarei stato scomposto e poi ricompattato, una volta giunto sul luogo d’arrivo. Il processo si sarebbe svolto in pochi istanti. Niente del sottoscritto sarebbe andato perso e a parte un leggero giramento di testa, non mi sarei accorto di nulla.
Per sicurezza gli chiesi se la destinazione era prefissata o potevo scegliere e l’alieno rispose sostenendo che potevo andare dove volevo. L’unico limite del viaggio, era il rispetto di certe leggi fisiche. Era evidente che non sarei potuto andare né sulla Luna né su Marte. Mi sarebbe stato impossibile salire pure sulla cima dell’Everest senza un equipaggiamento adeguato.
Insomma, non fu facile scegliere dove teletrasportarmi e immaginai un milione di posti prima di decidere. Nelle testa mi rollò di tutto: dalla Patagonia Argentina, alle rocce erose della Monument Valley, passando per Petra in Giordania.
Alla fine, orientai la mia scelta su Barcellona. Forse, era una destinazione idiota con le possibilità di viaggio che avevo, ma in un ristorante situato sulla darsena del porto Olimpico, l’anno prima, mi ero dichiarato e, ora, avevo una nostalgia mortale di lei. Non so cosa mi aspettassi di preciso. Probabilmente avrei scialacquato il sogno di una vita, tuttavia speravo tanto di ritrovare la poesia di quella sera.
Il grigio non obiettò. A dire il vero, mi parve di vederlo sorridere con gli occhi, come se mi considerasse un po’ tonto, ma non ebbe nulla in contrario. La destinazione, che avevo scelto, gli andava bene e mi consegnò una specie di pulsantiera nera. Disse che dovevo premere il pulsante colorato che c’era sopra essa e chiudere gli occhi. Avrei dovuto contare sino a dieci. Una volta riaperto gli occhi sarei stato a Barcellona.
Funzionò davvero in questo modo e, dopo un semplice e rapido conto fatto sulle dita, mi trovai sulla panchina del Porto Olimpico della città catalana, come un tranquillo turista. Avvertivo uno strano prurito vicino alle tempie, ma non mi ero accorto di nulla. Stavo benissimo, forse come mai lo ero stato in vita mia. Non sentivo neppure il caldo della Brianza ora e girai tra le banchine del porto, intento a osservare le barche ormeggiate, solleticato dalla brezza marina. Andai avanti e indietro sul molo, cincischiando a caso, non so per quanto tempo. Poi, mi ricordai che non avevo ancora cenato e prima di cambiare idea, andai a sedermi a un tavolo de “El Rey de las gambas” situato lì di fronte.
Era quello il locale dove mi ero dichiarato. Ora temevo che mi facessero storie, siccome non avevo prenotato, ma furono tutti molto gentili. Anzi, un cameriere, mi fece accomodare allo stesso tavolo di quella sera, come se avesse percepito ciò che desideravo e vi giuro che rividi quella stronza lì di fronte.
Mangiai un sogliola e bevvi di nuovo del vino bianco, fingendo che lei fosse lì seduta allo stesso tavolo, con i capelli raccolti e il viso abbronzato, con addosso quel leggero vestito estivo che mi piaceva tanto e lei, bella e graziosa e felice e allegra come era stata quella sera. Mi parve davvero di tornare indietro nel tempo e non mento nell’affermare che mi sentii felice.
Assaporai la salsa ali e oli, immaginando seriamente che lei ci fosse, mia unica e eterna regina; finché mi resi conto di essere solo un povero diavolo.
Un solo e unico e disperato povero diavolo, illuso e senza speranza, confuso, adesso, in mezzo a una marmaglia di russi ubriachi desiderosi soltanto di spolpare un Jamon de bellota. Mi resi conto che avevo terminato la cena e che di poesia, adesso, intorno, non c’era neppure l’ombra.
Allora non mi restò che il conto da pagare e dopo aver atteso lo scontrino e aver messo nelle tasche dei bermuda che indossavo il resto, in moneta, di una banconota da cinquanta Euro, uscii fuori del locale.
Andai a sedermi sopra una panchina, poco lontano, e m’incantai a osservare il mediterraneo luccicante con i riflessi della luna. Era mezzanotte e mi sentivo depresso come una foca a corto di palloni con i quali giocare. Mi sarei messo a singhiozzare al pari di un bambino. Come se non bastasse, cominciai pure a farmi menate su come tornare a casa, visto che stupidamente non avevo chiesto all’alieno cosa dovevo fare per tornare. Suppongo, che iniziai pure a ipotizzare di essere impazzito, quando probabilmente mi addormentai poiché in seguito non ricordo altro.
Mi svegliai a metà mattina nella mia stanza. Ero vestito e sdraiato sul letto con le chiavi della mia cabriolet in mano. Sul comodino, a destra, notai che c’era la bottiglia di vino vuota, come una banca dopo l’assalto di un pugno di banditi. Era talmente vuota, che sembrava strizzata. Una pena. Ma non feci conclusioni facili.
Non potevo farle.
Sarei stato uno stupido a pensare che, tutto, fosse dovuto a una sbronza. Certo, la testa che mi ronzava come un motore al minimo e la bocca senza salivazione, come mi succedeva di solito dopo aver bevuto troppo, potevano esserne una prova esemplare. Magari, mi sarebbe bastato convincermi che l’alcool era il mio punto debole per avere una spiegazione plausibile; avrei potuto ipotizzare di aver tracannato una bottiglia di vino e poi di aver sognato come una scimmia per tutta la notte. Volendo, potevo esagerare e ammettere, addirittura, di aver avuto qualche allucinazione. Insomma, ritengo a ragione, che non avrei sbagliato di molto a considerare la faccenda sotto questi punti di vista.
Ma sapevo che sarebbe stato troppo semplice prenderla così. Sarei stato estremamente superficiale a giustificare ciò che era successo con simili considerazioni.
La realtà era un’altra. Era difficile da ammettere ma era un’altra. Sapevo che era vero ciò che era successo. Era vero come è vero che ogni giorno sorge il sole e che il mal di denti è doloroso. Ora, non potevo spiegarlo tecnicamente come l’accatitipi, ma avevo la certezza di aver viaggiato con un teletrasporto.
Sapevo di essere finito a Barcellona. Ne avevo respirato l’aria, mi ero impregnato i vestiti con l’odore e ci avevo pure mangiato, e le prove non erano solo le tasche che mi pesavano per le monetine di resto, lo scontrino di un ristorante e la sogliola che ancora digerivo. Sapevo di esserci andato sul serio.
Certo, sapevo che non avrei potuto raccontarlo in giro. Chiaro. Qualcuno mi avrebbe creduto? Immaginavo bene cosa sarebbe successo se avessi esternato un fatto del genere. Mi avrebbero preso per matto e avrei solamente fatto ridere maggiormente chi mi conosceva. Sapevo che non avrei mai potuto spiegare ai miei amici dove ero finito la sera prima e perché non li avevo aspettati.
Tuttavia era vero. Terribilmente e irragionevolmente vero. Avevo incontrato un alieno; lo avevo visto con i miei occhi e gli avevo parlato e lui, nascondendosi dietro la consegna di una specie di premio, mi aveva dato — adesso lo capivo — ciò di cui io avevo bisogno per uscirne fuori.
Già! Perché certe singolari esperienze bisogna saperle interpretare. Eccome1 Se certe cose accadono ancora e ci stupiscono, è da ottusi farsi prendere dallo sconforto e soffrire.
Ora, finalmente, mi rendevo conto che era davvero una cosa insulsa starsene sdraiati con il cuore spezzato per una donna, quando potevi incontrare un alieno tra le verdure dell’orto e farti portare dove desideravi come un mago.
Non c’era più la mia cara regina? Stava in giro per il mondo con un altro mammalucco? Nessun problema. Io potevo prendermi tutte le donne del mondo a questo punto, senza paura. Mi bastava un po’ di fantasia. Nessuna mi era preclusa.
Lo stesso valeva per il lavoro. Che menate del cavolo mi facevo. Non funzionava più? Mi era complicato vendere i miei programmi software? Coraggio! Se trovi un alieno in giardino e ci fai conversazione, non puoi capitolare di fronte a un cliente rognoso o ad una concorrenza decisa.
No, mi stava cambiando il mondo l’amico. Sentivo che mi stava nascendo dentro qualcosa, che non avrei mai immaginato di poter avere. Quella specie d’incontro mi stava alimentando con una motivazione che non avevo mai sospettato di possedere.
Avrei ricominciato da capo. Da subito! Una volta in piedi dal letto ci avrei dato dentro. Ce l’avrei messa tutta e avrei spaccato il mondo a martellate. E questo lo dovevo a lui. Lo dovevo a un alieno incontrato nell’orto di casa. Era questo il vero premio: una fede, vigorosa e limpida come l’acqua di sorgente; la convinzione per spaccare tutto e non farsi stritolare dagli eventi.
Adesso lo avevo capito.
Certo, girare in strada, qualche giorno, con una baracca di cortesia del meccanico di fiducia, poiché il motore della mia adorata cabrio russava per un cuscinetto rovinato, poteva essere fastidioso. Ma questo, amici miei, alla fine della storia era solo un dettaglio.
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